CIRCOLARE NAZIONALE GIUGNO 2017 – RETE di CASALE MONF.TO.

Il 20 maggio ci siamo incontrati come reti del nord/ovest per confrontarci sul tema proposto e discusso negli ultimi coordinamenti nazionali. Abbiamo avuto una giornata di sole dopo un periodo con clima incerto e l’accoglienza gradevole nell’ambiente collinare della casa di Beppe e Cristiana a Quarti di Pontestura ha favorito sicuramente la disponibilità all’incontro e alla condivisione.

In questo percorso siamo stati aiutati da Anna Zumbo, che ha messo a disposizione la sua esperienza di facilitatrice dei lavori di gruppo. Il suo contributo è stato prezioso per metterci in sintonia e per attivare le nostre capacità di ascolto.

Iniziando con un gioco di conoscenza tra i partecipanti si è passati ad un lavoro singolare sulla propria cronistoria nella rete riscoprendo le tappe più significative. Si sono alternati momenti assembleari e momenti di confronto tra gruppi più ristretti in modo di dare a tutti la possibilità di esprimersi e di raccontare il perché la rete è conforme rispondendo alle aspettative ed alle storie di ognuno.

Queste storie si riflettono anche nei legami che si hanno con i referenti delle nostre operazioni diventando così un filo che lega i sentimenti e i cuori. Difatti la rete è fondata sulla relazione e la condivisione da attuare anche accanto al tuo compagno di cammino.

Anna ci ha invitato a riflettere a partire da alcuni “giochi” che da una parte hanno consentito a tutti di esprimere le loro idee chiave, dall’altra hanno offerto l’opportunità di fare una sintesi che facesse emergere le parole chiave rispettando le opinioni di ciascun partecipante.

In queste tecniche di approfondimento dei problemi ho ritrovato l’insegnamento di Paolo Freire che avevo conosciuto nelle parole e nell’esperienza vissuta di don Gino Piccio (1920-2014), vissuto negli ultimi 40 anni della sua vita in solitudine in una cascina nelle vicinanze di Ottiglio Monferrato, animatore di una singolare esperienza di condivisione fraterna e di ascolto che ha arricchito la storia personale delle persone che lo hanno incontrato e che ancora si ritrovano nella sua memoria.

Alcuni partecipanti hanno manifestato perplessità sul metodo di articolazione della giornata. Altri invece hanno valorizzato l’opportunità nuova di espressione delle idee, anche al fuori di documenti complessi e la possibilità di ascolto reciproco, con maggiore “leggerezza” rispetto alle discussioni, a volte faticose, dei coordinamenti.

Potrebbe nascere qui una riflessione sul nostro modo di affrontare i problemi come Rete: abbiamo ereditato modalità di espressione e di ascolto che sono ancorate ad una generazione di grandi dibattiti e di pensieri articolati, ma non sempre risultano efficaci in una società in cui tutti parlano e pochi ascoltano e spesso di questo ascolto percepiscono messaggi molto brevi, al limite dello slogan.

L’ascolto è veramente una delle vittime della nostra società mediatica. Il modello televisivo a cui siamo quotidianamente sottoposti è quello di persone che parlano molto e non ascoltano mai. Questo atteggiamento si trasferisce dalla scena della comunicazione pubblica all’ambito delle relazioni quotidiane fra gli individui. Non sappiamo e non vogliamo ascoltare gli altri: non rispondiamo alle domande, interrompiamo solo per prendere la parola e per tenerla il più possibile. Si direbbe che ci limitiamo ad ascoltare noi stessi mentre stiamo parlando, ma non accade neppure questo, perché se davvero ci ascoltassimo, avremmo di tanto in tanto qualche dubbio.

Spiegare una simile paradossale situazione non è così difficile se consideriamo il desiderio prevalente di esercitare con le nostre parole quel potere che oggi è la merce più ricercata e che diventa abitualmente una forma di prepotenza e di prevaricazione. La TV costruisce la sua apparente neutralità offrendoci il riferimento degli “indici di ascolto”.

Ma quale ascolto? Sulla scena televisiva delle molteplici trasmissioni sui migranti (su cui è stato costruito un nuovo soggetto politico!) nessuno sta davvero “ascoltando”: tutti i partecipanti si limitano a parlarsi addosso. Se già loro non si ascoltano, quello che fa il teleutente potremmo definirlo in tanti modi, ma non ha nulla a che vedere con un ascolto vero.

Essenziale è invece capire, restando alla pratica quotidiana di ciascuno di noi, che cosa implica un ascolto, quali trasformazioni di noi stessi richiede. Il campo di prova è il rapporto con l’altro. Questo “altro” può essere chiunque, quello che incontriamo fuori di casa nelle normali relazioni di vita o per caso, o solo chi sentiamo al telefono: può essere un amico, qualcuno che vive accanto a noi, una presenza costante, ma anche uno che non conosciamo affatto, uno sconosciuto in cui ci imbattiamo. Comunque lui non è noi, non diventa mai un alter ego, risulta sempre diverso, è un diverso, ha qualcosa di estraneo. Ascoltare non significa togliere di mezzo questa estraneità, al contrario c’è ascolto solo quando partiamo da essa e ne teniamo conto, solo se riusciamo a far nostra in qualche modo la sua estraneità, il suo essere “straniero”. Solo se attiviamo in noi stessi una zona di estraneità, per così dire parallela e congruente con la sua.

Non c’è neppure bisogno della parola perché una sintonia si realizzi, è sufficiente un atteggiamento di apertura, e spesso il silenzio è più adatto di tante parole a produrlo, come sa bene per esempio chi esercita il mestiere dell’insegnante. Ciò accade del resto in tutte le pratiche in cui l’incontro con gli altri è la posta in gioco della riuscita o dell’insuccesso.

Perché si realizzi un ascolto, occorre dunque mettere in atto una pratica di sé che è molto poco abituale nella società di oggi: bisogna riuscire a scavare una specie di vuoto dentro di noi, procurarsi uno spazio mentale (e anche fisico) attraverso il quale la cosiddetta “ospitalità” diventi la possibilità concreta dell’ascolto dell’altro.

(NDR. alcune di queste ultime frasi sono state riprese da un articolo di Pier Aldo Rovatti, modificando però alcune parti del testo. Spero che l’autore non se ne abbia a male!)

VUOTARE LA PROPRIA TAZZA

Un filosofo si recò un giorno da un maestro zen e gli dichiarò:

Sono venuto a informarmi sullo Zen, su quali siano i suoi principi ed i suoi scopi“.

Posso offrirti una tazza di tè?” gli domandò il maestro.
E incominciò a versare il tè da una teiera.

Quando la tazza fu colma, il maestro continuò a versare il liquido, che traboccò.

Ma che cosa fai?” sbottò il filosofo. “Non vedi che la tazza é piena?

Come questa tazza” disse il maestro “anche la tua mente è troppo piena di opinioni e di congetture perché le si possa versare dentro qualcos’altro ..

Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza ? ”

Beppe, Claudio e Roberto

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