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Ciao. Vi offriamo una storia di collaborazione tra il “qui” e il “là”. Economicamente si è conclusa da molti anni. Ma i semi portano frutto.

Lasciamo a Dino la presentazione della lettera allegata e facciamo a tutte e a tutti un sacco di auguri per il nuovo anno.

Maria e Gianni

Ida Pierotti è stata la fondatrice, col marito Miguel Reyes Santana, di un Centro Sociale in una baraccopoli a Sud Ovest di Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana. L’appoggio a questo progetto è stato dato dalla rete di Verona, verso la fine degli anni ’80.

Ora Miguel è morto e Ida è tornata a Santo Domingo, anche per accettare l’eredità della pensione che il marito le ha lasciato. Naturalmente, è stata invitata a visitare il Centro, che intanto è diventato un’istituzione della Repubblica Dominicana, finanziato dallo Stato, con molti corsi professionali e con molte iniziative rivolte agli abitanti della zona.

     Miguel era un esule politico. Dopo essere rimasto ferito in un fallito tentativo rivoluzionario nel suo paese, si era rifugiato in Italia. Qui aveva ripreso gli studi fino a laurearsi in Scienze Politiche, e aveva conosciuto e sposato Ida Pierotti, allora impiegata all’Università Cattolica.

Quando per lui è stato possibile rientrare nella Repubblica Dominicana, sono partiti insieme con un progetto di socializzazione e promozione sociale per una zona poverissima, El Abanico. (il Ventaglio), così chiamata perché è una zona bersagliata da forti venti.

     Il progetto era stato presentato a Ettore Masina, e lui, affidandolo alla rete di Verona, l’aveva dedicato alla memoria della mamma di Silvana, Nelda Spaziani Valpiana. Nelda era figlia di un martire del nazifascismo, morto a Mauthausen, e quindi nella scelta del nome dell’operazione, si sottolineavano la solidarietà e la resistenza.

     Il Centro Valpiana diventò un centro di scolarità e il luogo del coordinamento per tutte le iniziative che servivano a quel quartiere. Fu l’occasione per ritrovarsi e creare coesione tra tutte le persone più disponibili a impegnarsi.

     Noi della Rete di Verona siamo stati ben lieti di sostenere questo progetto, e nell’estate del 1990 Silvana ed io siamo andati a Santo Domingo, ospiti di Ida e Miguel che ci fecero conoscere il neonato Centro Valpiana e tutta l’isola. Miguel e Ida vennero, poi, al Convegno della Rete dedicato al 500° Anniversario della “scoperta dell’America” e una delegazione del Centro venne in Italia qualche anno dopo. Li ospitai io, nella scuola dove ero preside, e dove c’erano dei corsi professionali che potevano essere un utile modello anche per loro.

            Il Centro Valpiana divenne poi un ente di aiuto e sostegno alle varie iniziative locali, finanziato dallo Stato, e sta ancora funzionando regolarmente, proseguendo quanto iniziato più di 30 anni fa.

            Per noi è stata una grande occasione di collaborazione e dialogo con altre realtà: li abbiamo seguiti con interesse, finanziati, per quanto possibile, e abbiamo contribuito al loro successo.

            Ida ce ne ha dato un resoconto. La sua lettera, che alleghiamo, è l’occasione per apprezzare quanto si è potuto realizzare con tanti anni di lavoro. Siamo confortati dal vedere i frutti che sono maturati dalla nostra piccola autotassazione, e dalla nostra relazione con loro.

Dino con Silvana, dicembre 2022

 

Carissimi amici della Rete,

sono sempre rimasta legata a tutti voi, attraverso il prezioso rapporto con Silvana e Dino.

Dopo 20 anni, sono tornata a Santo Domingo, dove ho trascorso una parte indimenticabile della mia vita e dove, grazie a voi, io e Miguel abbiamo potuto realizzare il Centro Comunitario Nelda Valpiana.

Avevo lasciato Santo Domingo dopo 15 anni di servizio e l’ho fatto solo quando ho avuto la certezza che l’”operazione Valpiana” era ormai una realtà, della cui gestione si faceva carico pienamente la gente del Barrio El Abanico, con la sua Assemblea, la Giunta Direttiva e un programma tecnico/sociale sostenibile.

In questi anni ho seguito da lontano lo sviluppo del Centro, come avrebbe detto Ettore Masina: “vedendo la barca allontanarsi come un’opera finita e rimanendo con gli strumenti in mano e nella mente per crearne un’altra”. Per me, tante altre storie sono seguite al Centro Valpiana, storie di un’altra parte di vita in cui le difficoltà si sono alternate alle soddisfazioni. Sono stata a vario titolo operatrice in Angola, Guatemala, Nicaragua, Mexico, Cuba, Haiti, Argentina, Colombia. Tutto ciò mi ha dato gli strumenti necessari per mettermi, 10 anni fa, a disposizione dei rifugiati, qui in Italia, a Verona.

Ora sono tornata a Santo Domingo perché a febbraio 2022 Miguel, il mio marito, è morto. Mi ha lasciato in dono metà della sua pensione di professore universitario (l’altra metà è destinata alla figlia minore), e questo mi permetterà di sopravvivere un po’ meglio, alla mia tenera età di 77 anni. Infatti, nonostante la nascita della sua seconda figlia, che Miguel ebbe 15 anni fa con un’altra donna, non ci siamo mai separati. Anzi, l’ho supportato durante la sua lunga malattia ed abbiamo continuato a volerci bene, come due persone che, all’insegna della solidarietà, hanno fatto un lungo e proficuo percorso insieme.

Vi racconto in breve di questo mio viaggio per certi versi surreale.

La famiglia di Miguel al completo è venuta a prendermi all’aeroporto e una nipote mi ha ospitato nel suo appartamento di Santo Domingo. Appena depositata la valigia sono stata oggetto delle loro attenzioni: il fratello i nipoti e la cognata mi hanno subito rimproverato di non aver mai rivendicato per me e per Miguel la proprietà del Centro Valpiana! Questa non me lo aspettavo! Pur nello stato di stanchezza del viaggio ho cercato di spiegare loro ciò che ho sempre dato per scontato: la solidarietà.

Purtroppo, è stato subito evidente che il mondo ideale che vivevamo con Miguel, non esisteva più. Le grandi trasformazioni di questo paese, quasi in aperta concorrenza con Miami, sono l’emblema del sopravvento dei soldi su tutti i valori sociali e morali che pure avevamo conosciuto. Todo cambia……

Il giorno seguente al mio arrivo ho chiesto alla famiglia di accompagnarmi sulla tomba di Miguel. Attraversando il traffico della grande città mi guardavo intorno, senza riconoscere nulla. Alla fine, siamo arrivati in un posto pieno di gente e sono rimasta stupefatta nel vedere i visi sorridenti di tutti i miei accompagnatori: mi avevano preparato una sorpresa! Mi sono trovata improvvisamente davanti al Centro Valpiana, senza essermene resa conto, a causa dei cambiamenti del barrio Abanico. Accompagnata dalle luci dei negozi, dalla gente, dal chiasso sono entrata nel Centro. Che sorpresa! Un via vai di giovani, che si spostavano per andare nelle aule, mentre io venivo letteralmente trasportata nella sede centrale, per il “benvenuto” istituzionale.

Sono stata oggetto di attenzioni e di complimenti da parte di gente che conoscevo, da parte di quelli che non ricordavo e da parte di facce giovani e nuove. Il direttore ha fatto un discorso elogiando la nostra opera, ricordando Miguel e riservando un saluto speciale alla famiglia della signora Valpiana, sottolineandone lo spirito accogliente e antifascista. Hanno intitolato la Biblioteca del Centro a Nelda Valpiana con il nome e la foto sull’ingresso. Tra le varie persone che mi circondavano, una di esse in particolare mi ha reso felice: Ruth, una ragazza che venne da noi per cambiare la sua vita. Era, e lo è ancora, bellissima. A quell’epoca faceva la prostituta e viveva sola con due bambine piccole. Con l’accoglienza nel Centro ce l’ha fatta, ed ora è una donna che ha preso molto sul serio il suo ruolo nella Giunta Direttiva del Centro.

Il Centro è solido e “sostenibile” e l’attuale direzione sta facendo un buon lavoro mantenendo le convenzioni che firmammo all’epoca con gli enti governativi per l’istruzione e la salute. Nel Centro funzionano i laboratori di formazione in: Farmacia, Alimentazione, Estetica, Cucito, Elettricità, Computer, Falegnameria, Massoterapia, Contabilità, oltre a una scuola elementare e una superiore. Inoltre, funziona un Centro Medico per la popolazione del barrio. Mi hanno fatto notare il campo da gioco illuminato e in piena attività, che a suo tempo facemmo costruire e che io neppure ricordavo.

Non so come chiamare l’emozione che provavo in quel momento. Ma ricordo che quando lasciai il Centro, nel lontano 2000, ero appagata e quasi sicura della sua futura autonomia. Soprattutto, già si vedeva che le persone del barrio si sarebbero organizzate, per metter a frutto la loro volontà e capacità.

Questa prima visita è stata molto ricca di soddisfazione.

Ma la sorpresa più grande è arrivata due giorni dopo, quando sono stata convocata di nuovo nel Centro dalla “vecchia guardia”… E in questa occasione sì, l’emozione è stata forte quando ho abbracciato le compagne e i compagni con cui abbiamo fatto le prime esperienze sin dalla costruzione del Centro: Hilda, Douglas, Anselmo, Xiomara, Angela Maria, Ramona, Xilenia, Virginia, Magaly… Alcuni di loro lavorano ancora nel Centro, ma la maggior parte vive in un’altra zona della città; hanno voluto essere presenti per testimoniare l’affetto e la validità di certi valori. Mancavano alcuni: Federico, artigiano elettricista, morto in un incidente; Domingo Matìas, diventato vice ministro, ed Higinio Baez, eletto deputato al Parlamento, che hanno mandato i loro saluti. Durante la riunione, ricca di spunti e ricordi felici, è entrata una video-chiamata dal Canada: era Pipin, l’allievo ebanista che, come lui stesso ha dichiarato, ha avuto successo in Canada con il laboratorio di ebanisteria. Là ha potuto assumere altri ragazzi dominicani, e tra le lacrime (non solo sue) ha ringraziato il Centro Valpiana per la formazione ricevuta. Ma ci ha tenuto a precisare che oggi è diventato l’imprenditore che è, non solo per la formazione tecnica ricevuta, ma soprattutto per la formazione umana che il Centro Valpiana gli ha dato.

In effetti, con questa seconda visita al Centro, ho ritrovato lo spirito solidale e comunitario che ci permise di realizzare tante attività.

Ida Pierotti

Ottobre 2022

Circolare mese di Dicembre

Vorrei condividere con la Rete questa esperienza della Tenda per la Pace di Empoli, un segno, un simbolo, uno stimolo nel mare dell’indifferenza, che caratterizza anche questo Natale, rispetto ai temi cari a tutti noi.

Metti una tenda in piazza, un presidio permanente dove ogni giorno, a partire dal 20 luglio 2022, si alternano singoli e associazioni per dire NO alla guerra in Ucraina e a ciascuna delle guerre che insanguinano il nostro mondo. Ogni giorno, per un’ora dalle 18 alle 19.

Siamo al 144 giorno e si sono alternate oltre 150 persone.

Una cosa simile, molto bella, aveva fatto la Comunità delle Piagge (don A.Santoro, il gruppo dei Disobbedienti di Firenze & C.) con il digiuno di giustizia per i migranti OGNI giovedi sotto il palazzo della Regione, per centinaia di giorni giorni.

Il nostro manifesto, le nostre richieste sono quelle che vi allego nel Comunicato stampa stilato pochi giorni fa dopo la decisione (scontata) del governo Meloni sull’invio di armi anche per il 2023.

In silenzio, oppure leggendo poesie, cantando, distribuendo volantini, facendo cartelloni, disegni , video, balli popolari, ecc., cerchiamo di ricordare, alle persone che passano, le atrocità delle guerre e il dolore di chi le subisce.

A volte è frustrante, a volte esaltante, a volte riscopriamo il senso di parlare con la gente, la più varia, non quella selezionata che viene ai dibattiti.

Abbiamo avuto vari ‘ospiti’ che si sono fermati a parlare e a farsi intervistare per dare il loro sostegno:

Associazioni come: Scouts, Uisp, Arci, Anpi, Lilliput, Atlante delle guerre e dei conflitti

Don Andrea Bigalli (Libera e non solo) L’Imam di Firenze

Il preposto della Collegiata di Empoli

Marcelo Barros

Olga e altre donne dell’Ucraina

Chiara Riondino (cantautrice) Alice Pistolesi (giornalista)

don Mario Costanzi, con la sua chitarra e le sue canzoni Mirincoro

Sandra Gesualdi Beniamino Deidda

Che fare di questa preziosa esperienza? Come continuare a portarla avanti? Qual è il suo valore? Mera testimonianza? Punto di riferimento?

Sicuramente vorremmo tenere il filo di una matassa che non perda MAI di vista il fatto che la pace è una priorità . Sempre.

Quindi l’iniziativa mantiene il suo alto (benchè inascoltato) valore POLITICO. Le istituzioni locali ci hanno concesso lo spazio fisico, dove ogni giorno montiamo la Tenda, ma ci ignorano. Ora siamo ‘assediati’ dalle bancarelle, stand, luci, alberi, casette, auto in esposizione…insomma il Natalone tutto commerciale di Empoli.

E’ un cammino in fieri. Resisteremo fino alla fine della guerra, come ci eravamo proposti all’inizio?

Comitato Empoli per la Pace

COMUNICATO STAMPA

Il Comitato Empoli per la Pace ribadisce un nuovo fermo “no all’invio delle armi in Ucraina” deciso dal governo Meloni.

Il consiglio dei ministri presieduto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha deciso di prorogare la decisione dell’invio di armi all’Ucraina fino al dicembre del 2023. In continuità con le decisioni adottate dal precedente governo Draghi, Giorgia Meloni dopo aver avuto l’approvazione della Camera, ha dato il via libera al cosiddetto “Decreto Nato” che prevede di fornire all’Ucraina materiali ed equipaggiamenti militari per combattere l’invasione russa, per tutto il prossimo anno.

A breve potrebbe essere emanato il sesto decreto per gli aiuti all’Ucraina che, con l’avvicinarsi dell’inverno ha avanzato la richiesta di sistemi di difesa aerea per far fronte ai continui bombardamenti.

Il Comitato Empoli per la Pace, fin da subito, ha contrastato la decisione presa dai governi italiani. E ribadisce ancora una volta e con maggiore forza: no alle armi, sì alla diplomazia.

Il Comitato ha cercato di contrastare questa decisione e di coinvolgere l’opinione pubblica con diverse iniziative. Prima lanciando una petizione, poi con l’organizzazione di una Notte Bianca servita a discutere, con esperti, le questioni del conflitto. E, adesso, con l’iniziativa in corso della Tenda della pace, presidiata, ogni giorno ormai da 136 giorni, dai cittadini, nella centralissima piazza della Vittoria. Con la manifestazione che ha coinvolto numerosi cittadini proprio nello spazio adiacente alla tenda (scrivendo la parola “Pace” con le fiaccole dei partecipanti) e con una massiccia presenza alla manifestazione nazionale che si è tenuta all’inizio di novembre a Roma.

Anche stavolta il Comitato promotore di Empoli per la Pace dice NO all’invio di armi.

Siamo solidali con i cittadini ucraini vittime di una aggressione da parte della Russia, con le vittime di tutte le altre guerre dimenticare, con chi in Russia si batte per la pace e con chi ha subito persecuzioni antirusse”, è il principio ispiratore del Comitato empolese.

La richiesta del Comitato Empoli per la Pace alle istituzioni nazionali e internazionali è chiara:

  • che si fermi l’invio delle armi, sempre più potenti e letali, per riaprire lo spazio della diplomazia
  • Di investire tutte le energie possibili in uno sforzo diplomatico che possa avvicinare le forze in conflitto: un’attività diplomatica e di dialogo che oggi può apparire difficile ma che, ne siamo certi, sia l’unica che può portare a una ricomposizione del conflitto
  • Di coinvolgere in questa attività le più importanti istituzioni internazionale
  • Di fermare la corsa al riarmo
  • Di portare avanti con forza il percorso per l’eliminazione delle armi nucleari che rappresentano il pericolo più grande per la sopravvivenza dell’umanità. In questo senso l’Italia dovrebbe ratificare il trattato di proibizione delle armi nucleari.

CIRCOLARE NAZIONALE DI NOVEMBRE 2022 a cura della Rete Radiè Resch di Castelfranco Veneto.

LA RIBELLIONE DEL POPOLO CONGOLESE INTERROGA LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE.

L’avevamo intuito già dagli scambi telefonici precedenti il suo arrivo. La voce di Richard trasmetteva un dolore profondo, nuovo, che andava ben oltre la sofferenza fisica. Un dolore quasi velato di rancore. Ne abbiamo avuto conferma fin dai primi discorsi avviati informalmente attorno alla tavola: questa volta non sarebbero bastati l’accoglienza fraterna, polenta e baccalà e qualche dolcetto, perché il suo animo era carico delle sofferenze e della rabbia del suo popolo. Ci raccontava come la sua gente era passata dal grido di disperazione al coraggio della rivolta indignata verso il sistema capitalista internazionale, fondato su un neocolonialismo criminale e predatorio che li tratta meno degli schiavi, quasi fossero una sottospecie umana. Aperto il sipario sulla grande ipocrisia messa in scena dal mondo nord-occidentale, ci obbligava ad una sorta di “ruota-immagine” che ci faceva crollare addosso il castello di menzogne e complicità puntellato dalla propaganda narrativa dei media mainstream. Risultato: da parte nostra un pugno nello stomaco, come essere stati appesi a testa in giù o, secondo lo stato d’animo espresso dal nostro parroco, con la testa in conflitto con il cuore. Da parte di Richard, invece, forse il rammarico di essersi lasciato prendere troppo dalla passione. Ma la responsabilità di dover farsi interprete e portavoce delle istanze del popolo congolese, qui in un’ Europa arruolata a sostenere la resistenza del popolo ucraino, proprio in un momento così cruciale per gli equilibri strategici globali, non gli concedeva margine di mediazione.

L’attualità socio-politica della Repubblica D.C.è dominata da una nuova aggressione imposta al popolo congolese dal Ruanda tramite il movimento terrorista M23 che, in maggio 2022, ha occupato la città di Bunagana e tanti altri villaggi del territorio Rutshuru, Nord Kivu, insidiando Goma, al confine del Ruanda e dell’Uganda e risvegliando l’incubo di una balcanizzazione del Congo R.D. Dal 1996 a oggi sono già dodici milioni i morti causati dalle varie guerre che il Ruanda ha imposto al Congo.

Ma perché la Comunità Internazionale resta indifferente a una tragedia del genere? Perché continua a sostenere il Ruanda che semina violenze, disperazione e morte tra un popolo pacifico, mai ostile e sempre accogliente verso le popolazioni dei nove paesi vicini e confinanti? Perché nel luglio scorso l’ONU ha prorogato l’embargo sulle armi imposto al Congo (contrari Russia e Cina) negandogli la possibilità di difendere l’integrità, la sovranità e l’unità del Paese e del suo territorio, mentre al Ruanda, aggressore, vengono fornite le armi sofisticate, a lungo raggio e di precisione, utilizzate nell’occupazione di Rutshuru?

La minaccia è diventata insopportabile quando il portavoce della MONUSCO (missione ONU finanziata -con un miliardo nel 2022- per proteggere i civili e sostenere il consolidamento della pace nel territorio congolese accusata di corruzione, traffici illeciti e abusi) ha affermato che le forze dell’ONU non dispongono di mezzi adeguati a contrastare M23, dotato di un arsenale militare molto potente. Un’esplicita dichiarazione di tradimento che ha provocato indignazione e rabbia, in una popolazione che ora più che mai si sente abbandonata dalla comunità internazionale. E così sono esplose manifestazioni anti MONUSCO sfociate in scontri violenti con un bilancio di 36 morti di cui 4 Caschi Blu e 170 feriti.

Le popolazioni dell’Est del Congo: Goma, Beni, Butembo, Bukavu, Uvira……. hanno espresso la loro rabbia e hanno chiesto il ritiro immediato dell’ONU, perché nella coscienza collettiva di un complotto di tutti contro il popolo congolese considerato non umano. I Congolesi dunque, non facendo parte dell’umanità, non possono essere oggetto della solidarietà e della compassione della Comunità delle Nazioni al pari degli Ucraini? E ciò che scandalizza maggiormente è che un popolo decimato che vive nel sangue da anni, le cui donne sono sempre umiliate e violentate, non ha neanche il diritto di piangere, di protestare e di denunciare l’ultra protetto Ruanda.

Il 2 agosto 2022 si è celebrata a Kinshasa -ispirata dal “Prix Nobel de la paix, le docteur Mukwegue- la prima commemorazione dei 12 milioni di morti congolesi vittime delle guerre a ripetizione imposte dalla Comunità Internazionale tramite il Ruanda e altri paesi vicini. E’stato il momento culmine per il popolo per dire: “Non è più sopportabile! Non ce la facciamo più! Troppo è troppo! Sappiatelo bene: anche senza le vostre armi, siamo disposti a tutto per difenderci dal Ruanda e impedire il vostro progetto di balcanizzazione. Fermate lo sfruttamento illegale delle nostre risorse naturali e minerali! “Anche un solo metro preso oggi, sarà ripreso dai nostri figli e dai nostri nipoti”. E’stato un momento per affermare che non sono umani di seconda categoria. Abbiamo lo stesso sangue, siamo della stessa razza!Fermatevi! Basta! Basta! Basta!” . Da allora le manifestazioni di protesta si susseguono in tutto il territorio nazionale, nelle grandi città e nei centri abitati di periferia ed ovunque la gente chiede risposte e giustizia.

Come sottolinea sempre don Richard, quando si fa la valutazione dei rapporti tra i popoli e le nazioni, è sempre bene distinguere due livelli del discorso: c’è il livello delle strutture e dei sistemi che obbediscono a ideologie di dominazione, di esclusione e poi c’è il livello delle coscienze e dell’agire come persone capaci di prendere posizione, di costruire rapporti concreti, di creare ponti e reti umane al di là delle diversità delle culture, delle religioni, delle etnie e delle nazioni. Qui ci siamo noi e la nostra Rete e oggi sappiamo che, in un punto piccolo nella savana congolese, grazie al paziente cammino percorso insieme, c’è un centro ospedaliero che si prende cura di migliaia di vite umane e da un anno c’è una giovane medica che fin’ora ha affrontato:10 parti cesari, 5 interventi di estrazione della placenta, 268 casi di malnutrizione severa, 213 casi di tubercolosi, 1 caso di colpo di fulmine con rischio paralisi, numerosissimi casi di morbillo, dissenteria, malaria. La dottoressa ha anche adottato due gemelline sopravissute alla mamma deceduta durante parto avendo rifiutato il cesareo per convinzioni religiose.

Allora, tutte le volte che nel dibattito interno alla nostra Rete, ci interroghiamo sul senso della nostra presenza nelle realtà dove si sviluppano i progetti, sul come rapportarci con le popolazioni del luogo, sino a che punto contaminare e lasciarci contaminare e per quanto tempo, dobbiamo fare i conti innanzitutto, con le condizioni specifiche del posto, con le capacità e possibilità del referente e con le difficoltà legate alla situazione politica e organizzativa locali. La nostra esperienza, come quella di altre operazioni, si sviluppa in un contesto estremamente complicato per la fragilità delle strutture a supporto di una popolazione isolata, priva delle condizioni minime di sopravvivenza. Non è semplice mettersi in sintonia con queste realtà, capire sino a che punto intervenire, decidere, accogliere, astenersi, stoppare il nostro pensiero per dare spazio alle loro idee. In questi anni di intensi rapporti con l’Africa abbiamo compreso che per evitare danni e fallimenti, per sostenere correttamente il loro processo di crescita e liberazione, è necessario intraprendere un paziente (per noi e per loro) cammino di condivisione e di crescita comune, discutendo, lavorando, vivendo insieme, spogliandoci molte volte delle convinzioni e anche dei pregiudizi. È certamente un lavoro lungo che richiede costanza, tenacia e molta prudenza nelle scelte e nelle prese di posizione.

CIRCOLARE NAZIONALE OTTOBRE 2022

LA CARTA DELLA RETE

La Rete Radié Resch si avvicina rapidamente al suo sessantesimo compleanno. Sarebbe ipocrita negare che inizia a mostrare i segni dell’età. Molti amici non ci sono più. Molti altri, che non abdicano al proprio impegno, sono invecchiati: il tempo, le energie e le motivazioni calano fisiologicamente. Anche la raccolta dell’autotassazione diminuisce. Ciò che è più grave, abbiamo fallito il ricambio generazionale. A Varese, la Rete locale si è ricostituita nel 2007: nei quindici anni trascorsi da allora, ai Coordinamenti si sono viste ben poche “facce nuove”. Fa eccezione la nuova Rete di Lecco, la cui nascita ci è stata comunicata allo scorso Coordinamento. Ma è comunque presto per pensare ad un’inversione di tendenza. La difficoltà di trovare tre persone disponibili ad assumersi l’incarico della Segreteria ha condotto, di necessità, all’esperienza della Segreteria Laboratorio, con una maggiore suddivisione dei compiti e delle incombenze. L’esperimento si è rivelato molto positivo, sia perché ha consentito di rispondere comunque a tutte le esigenze organizzative, sia perché ha coinvolto persone che mai sarebbero entrate in una Segreteria “tradizionale”. Non dobbiamo, però, nasconderci che la soluzione è stata dettata dall’emergenza.

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Eppure, le urgenze che hanno interpellato Ettore Masina, inducendolo a fondare la Rete, non sono certo cessate. In Palestina, in Sud e Centro America, in molti Paesi dell’Africa, abbiamo semmai assistito ad un arretramento dei diritti e delle opportunità. Non solo: anche nel nostro Paese, che una volta consideravamo “ricco”, sono emersi nuovi bisogni, sia legati ed un generale impoverimento economico, sociale, spirituale, sia dovuti ai flussi migratori dal Sud del Mondo, certo non nuovi ma aumentati in quantità e, ancora di più, in percezione. Difficile dire se abbiamo sbagliato noi o, più semplicemente, sono cambiati i tempi. Da un lato, forse, negli ultimi due decenni la Rete si è dimostrata meno aperta al nuovo, meno accogliente, meno stimolante per chi la avvicina. Dall’altro, le modalità di comunicazione sono cambiate con una velocità che ci ha sorpreso. Dalla circolare stampata a ciclostile e diffusa per posta, siamo passati, in pochi anni, ed internet ed ai social network: una realtà della comunicazione fluida e pressoché impermeabile a qualsiasi velleità di analisi articolata e di ragionamento complesso.

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Tutto ciò ha indotto il Coordinamento ad interrogarsi, a più riprese, sul senso del nostro fare solidarietà. Il dibattito è stato acceso e, sinora, non ha portato a conclusioni definitive. Sono emerseè veroalcune soluzioni, certamente interlocutorie, ma che dimostrano comunque che la Rete è, e resta, in cammino. Oltre alla Segreteria Laboratorio, ad esempio, molti cambiamenti hanno interessato la gestione del denaro: forte (e condivisa dagli amici che si sono succeduti nella Tesoreria) è stata soprattutto l’esigenza di razionalizzare e rendere più trasparente il flusso, in entrata, dell’autotassazione e quello, in uscita, del finanziamento delle nostre operazioni. A proposito: nell’ultimo Coordinamento, gran parte dei presenti si è pronunciata a favore del vecchio nome e non di quello, più burocratico, di “progetti”.
Sono sorte, invece, difficoltà nella fase dell’approvazione e del rinnovo delle operazioni. Da un lato, infatti, la diminuzione delle risorse imporrebbe più rigore ed attenzione. Dall’altro, le proposte che ci giungono dai referenti sono numerose e variegate; inoltre, sono in parte mutati sia il contenuto delle possibili operazioni, che le modalità con cui esse ci vengono sottoposte. Inevitabile, dunque, chiedersi se i criteri definiti, ormai molti anni fa, grazie al contributo della Rete di Cagliari, siano ancora attuali. Per tutte queste ragioni, il Coordinamento tenutosi a Pescia nello scorso mese di giugno ha stabilito di creare un documento scritto, che sintetizzi i principi fondanti della Rete ed elenchi i criteri generali a cui dovrà ispirarsi il suo futuro operare.

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E’ facile comprendere la difficoltà di una simile operazione: da un lato, infatti, la Rete è sempre stata ostile ad ogni tentativo di formalizzazione; dall’altro, vi aderiscono persone con principi, ideali e sensibilità molto diverse. Oggi, però, si sente forte la necessità di creare un documento agile e sintetico, da utilizzare per spiegare “chi siamo”, sia a chi potrebbe essere interessato ad aderire, sia alle organizzazioni con cui potremmo essere chiamati a collaborare sia, infine, ai referenti delle operazioni presenti e future. Inoltre, è necessario rivedere i criteri del nostro operato, soprattutto per fare in modo che l’approvazione, il rinnovo e la gestione delle operazioni garantisca una giusta parità di trattamento tra tutte le comunità in cui esse si svolgono. Per tutte queste ragioni, è stata creata una Commissione, a cui è stato affidato il compito di una prima stesura del documento. La Commissione ha stabilito di presentare al Coordinamento la prima parte di tale documento, contenente l’enunciazione dei principi generali, riservandosi di predisporre la seconda, solo dopo che la prima avrà ricevuto una definitiva approvazione. La questione è stata affrontata nello scorso Coordinamento di Sezano: i partecipanti hanno formulato numerose osservazioni, precisazioni e proposte di modifica. La Commissione ha, quindi, ricevuto il mandato di rielaborare il documento, alla luce di tutti tali contributi, per sottoporre il testo definitivo di questa prima parte allapprovazione del prossimo Coordinamento. In essa saranno descritti le origini, lo scopo e la struttura della Rete e, tenendo conto di tutti i contributi ricevuti, saranno enunciati alcuni aspetti fondanti, come il generale ricorso al metodo del consenso, l’importanza delle relazioni sia all’interno della Rete che con i referenti delle operazioni, l’attività politica e di controinformazione, il significato ed il contenuto delle operazioni e, infine, l’importanza della restituzione, non solo economica ed i criteri di gestione del denaro.
La speranza è quella di fornire a tutti noi uno strumento semplice ed agile che esprima il senso del nostro fare solidarietà.


Marco Rete di Varese

Circolare nazionale Settembre 2022 a cura della Segreteria Laboratorio.
Questa lettera è volutamente costellata di tanti nomi con l’unico scopo di trasmettere il senso della coralità del lavoro ed invitare ad ogni persona che lo desideri a rilevarne una parte ed andare avanti.
Nella semplicità.
Abbiamo chiamato “Segreteria Laboratorio” il tentativo di rispondere all’assenza di candidature per la segreteria della Rete alla fine del biennio 2018- 2020 ( si era proposta solo Caterina lanciando insieme l’idea di un “viaggio con le Reti”).
Da parte di Antonio Vermigli, Lucia Capriglione, Nadia Zamberlan e Caterina Perata, che lanciarono l’idea nel settembre 2020 a Sezano, non c’era una premeditazione di cambiamenti epocali, piuttosto ricerca.
Marta Bergamin, preziosa tesoriera, era dimissionaria ma in attesa di una sostituzione continuò a coprire l’incarico, gli altrettanto preziosi Marco Lacchin, Marco Zamberlan e Gigi Bolognini rinnovarono la disponibilità per i verbali e la parte informatica, Presto Paolo Guglielminetti, Maria Rita Vella e Nadia Zamberlan formarono il gruppo Progetti.
Laboratorio è stato fino a qui.
Laboratorio per cercare di attraversare il momento storico.
Pandemia e la necessità di forti prese di posizione individuali su novità come il green pass, grave crisi politica ed economica che ha toccato da vicino molti membri della stessa Rete, una guerra vicina che ha ridisegnato la geopolitica e per finire le imminenti elezioni politiche in Italia che ci chiamano ancora una volta a rispondere sempre e comunque guardando agli Ultimi.
Ma è inutile ricordare cos’è stato il biennio 2020-2022 sotto i punti di vista a chi, come noi della Rete, ha cercato di viverlo in consapevolezza e nel confronto sincero.
Per la parte strettamente logistica sono stati organizzati i coordinamenti nelle nuove forme “a distanza” o “mista”, le assemblee di bilancio, la divisione delle circolari, i bilanci stessi , i versamenti e le revisioni dei progetti.
E poi qualche novità:
Germana Signa ed Enrico Vallarino sono subentrati a Marta Bergamin nel servizio di tesoreria, Maria Rita Vella ha curato un certosino lavoro di “Storia dei progetti”, Caterina Perata ha iniziato le prime tappe del “viaggio con le Reti”, è stato organizzato un fine settimana a Rimini corto come un seminario ma con l’intensità di un convegno in cui sono stati incontrati “ a distanza” tanti testimoni e referenti delle operazioni.
Altre proposte come il “forum visioni”, le “circolari circolanti”, la “griglia di condivisione delle attività delle Reti” hanno avuto poco riscontro ma è sempre importante proporre idee nuove senza curarsi della possibile accoglienza.
La parte principale dell’attività è però quella in corso : rileggere in questomomento storico l’essere Rete nella sua essenza ed i criteri che individuano
le operazioni.
Dopo confronti attraverso lettere e discussioni durante i coordinamenti si è istituito un gruppo di lavoro che ha condiviso un primo documento il quale sarà discusso tra qualche giorno nel coordinamento…due anni dopo l’inizio di questo esperimento.
Alleghiamo alcuni scritti che possano aiutare a rileggere il percorso.
Crediamo che la Rete sia davvero ancora capace di cambiare per andare avanti e continuare questo laboratorio può essere un modo.
Chi se la sente?
La segreteria laboratorio

GENOVA, LUGLIO 2022

Cari amici
mi scuso per il ritardo. Non è però come ripiego al mio ritardo che invio in questa circolare questo bellissimo articolo (a me sembra! e a voi?) apparso su “La Repubblica” di mercoledì 20 luglio dell’Avvocato Alessandra Ballerini, una di quelle sante di oggi, secondo me, un po’ come Gino Strada.
– Ho trovato questo articolo irto e aspro quasi a tracciare anche con le parole, la via della giustizia come un cammino impervio, aspro, faticoso.
La giustizia, parola Maestra, che apre le serrature quando vive, che placa i cuori quando riesce a farsi strada, premessa ad ogni altra possibile azione di umanità verso l’altro.
– Anche nel Vangelo si parla di questa via stretta, così faticosa per entrarvi e starvi dentro.
E poi si parla anche di un’altra “via”, spaziosa, facile, come una corsa in discesa. Quante volte ci accorgiamo, durante le nostre giornate, quante persone percorrono quest’ ultima via. Quante persone hanno scelto da tempo di prendere questa via, me lo dico, una vera vergogna! Grande scoramento, l’angoscia di sentirsi impotenti, sommersi, la rabbia, lo “scazzo”, il rischio di non combattere più.
La Ballerini ci mostra l’altra via, concreta, ostica, da combattimento. È la via che ci sta dinanzi, che dobbiamo percorrere, non ce n’è un’altra se vogliamo essere coerenti. Prepariamoci. Buona giornata.

GUERRA E SOLIDARIETA’

Nel vento della storia”: questo il titolo dato da Ercole Ongaro, molti anni fa, al suo primo libro sulla Rete1. Il messaggio era chiaro: la Rete è immersa nel flusso della storia, ne vive pienamente le vicende e cerca di interpretarle, con una visione aperta e solidale e qualche volta – si spera – anche profetica.

Credo che, nel corso degli anni, chi ha operato nella Rete non si sia sottratto a questa sfida, sia “sporcandosi le mani” in Palestina, in Centro e Sud America, in Africa, sia affrontando dibattiti in-terni, a volte laceranti, sul se e sul come operare in quei luoghi2.

Ora, insieme a tutti coloro che credono ancora nella solidarietà, siamo di fronte ad un’ennesima sfida. Dopo molti decenni, infatti, la guerra è tornata in Europa: una guerra crudele, sporca, maledettamente novecentesca, con il suo portato di morte, odio, distruzione, ideologia e propaganda. Come tutte le guerre, essa ha radici profonde, che non ho la capacità di indagare. Non è, però, difficile capire come essa metta in discussione molte nostre intime convinzioni, approdi di decenni, che davamo ormai per scontati.

Anzitutto, l’accoglienza dei profughi. É bello (e non lo dico con ironia) vedere l’enorme mobili-tazione del popolo italiano, sia per l’accoglienza degli ucraini fuggiti dal loro Paese, sia per la raccolta e l’invio degli aiuti a chi vi è restato. La mobilitazione è stata grande, spontanea e gratuita: ha coin-volto anche moltissime persone estranee a qualsiasi precedente circuito solidale.

Resta l’amaro di constatare come si siano creati profughi di “Serie A” (gli ucraini, appunto) e di “Se-rie B” (tutti coloro che, ora come in passato, scappano altre guerre, dittature, carestie). Tale distin-zione emerge non solo dalla comune percezione del fenomeno, ma anche da numerosi provvedimenti legislativi, che hanno creato canali preferenziali per chi scappa da quella guerra3.

Con l’ulteriore paradosso che il trattamento “di favore” viene riservato solo al fuggiasco di cittadi-nanza ucraina e non a chi, residente in quel Paese, abbia altra origine.

Ciò pone molte domande: perché ciò è avvenuto? Questo ha in qualche modo cambiato la condizione degli “altri” migranti? Cosa resterà di questa mobilitazione una volta che – speriamo presto – tutto sarà finito?

Facile rispondere alla prima. Questa guerra è in territorio europeo ed ha ricevuto una copertura me-diatica come mai in passato. Il nostro coinvolgimento emotivo è enormemente superiore, rispetto a qualsiasi altro conflitto, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Non solo, è facile immedesimarsi negli ucraini: sono relativamente vicini, bianchi, cristiani, di cultura abbastanza omogenea alla nostra, minacciati da un Paese che, per tutta la guerra fredda, ci è stato additato come il maggiore spaurac-chio4. Infine, la comunità ucraina era già abbondantemente presente ed integrata in Italia, prima del conflitto.

Più difficile dire come tale situazione incida sulla condizione di tutti gli altri migranti. Sicuramente è cambiata la copertura mediatica e, quindi, la percezione del fenomeno. Malgrado gli sbarchi non siano certo terminati, non se ne parla più ed il tema ha cessato di essere strumento di lotta politica. Ciò è probabilmente un bene, perché chi continua ad interessarsi di immigrazione (e sono molti) potrà farlo in silenzio e con molte meno pressioni. Purtroppo, per usare un eufemismo, è improbabile un aumento dei fondi stanziati a sostegno di queste persone. Si corre, inoltre, il rischio di una guerra tra poveri, per ottenere aiuti, servizi e lavoro, in cui gli ucraini partono oggettivamente favoriti.

Credo, infine, che nulla resterà della mobilitazione, una volta finita la guerra. Chi già si occupa di so-lidarietà continuerà a farlo, mentre gli altri torneranno alle loro comuni occupazioni. La storia recente ci ha insegnato che siamo in grado di superare eventi traumatici a livello globale (la pandemia, ad esempio) senza che ciò, nel medio-lungo periodo, incida minimamente sul nostro stile di vita.

Dubito, inoltre, che gli strumenti emergenziali sperimentati in questi mesi possano essere estesi anche ad altre categorie di richiedenti asilo.

In conclusione, penso che la vicenda ucraina sia del tutto peculiare e non modificherà l’atteggiamento dei nostri connazionali nei confronti degli “altri” migranti. Del resto, come già ci insegna un fine in-tellettuale leghista, questa è una guerra “vera” mentre, par di capire, tutte le altre sono finte …

La situazione attuale ha poi creato ulteriori profonde crepe in quello che resta del fronte pacifista. É sufficiente disapprovare la guerra e chiedere la pace? É giusto schierarsi? In concreto: è giusto, per il nostro Paese, aiutare economicamente e militarmente l’Ucraina?

Non vi nascondo che, avendo partecipato in passato a campagne contro le produzioni armiere, queste domande mi mettono in crisi. Non ho risposte, ma non credo sia giusto sottrarsi al confronto.

Come dicevo, non ho gli strumenti, né le competenze, per analizzare la genesi del conflitto. Posso so-lo dire che chi attacca militarmente uno Stato sovrano, indipendentemente dalle ragioni che accampa, ha comunque torto.

Aggiungo che la ultracinquantennale vicinanza al popolo Palestinese ci ha insegnato che, in questi casi, l’imparzialità è pura ipocrisia. Chi non si schiera, chi resta equidistante, sostiene di fatto l’ag-gressore e lo fa indipendentemente dalle colpe che anche l’aggredito può avere.

Neppure credo nell’atteggiamento – passivo ed in fondo comodo – di chi si limita a disapprovare la guerra ed a chiedere la cessazione delle ostilità. Serve un impegno concreto.

Durante la nostra guerra di liberazione dal nazifascismo i partigiani erano armati, sparavano, uccide-vano. Pochi lo facevano volentieri, ma questo è un dato di fatto storico. Non solo: spesso i partigiani utilizzavano armi paracadutate dalle forze aeree americane.

Quanti di noi avrebbero disapprovato questo modo di agire5?

Evidentemente ci sono situazioni limite in cui l’uso della violenza e l’invio di armi sono moralmente leciti. La situazione ucraina rientra tra queste? Dobbiamo valutarla con i nostri occhi di borghesi co-modamente seduti ad una scrivania o con quelli di chi si è arruolato volontario e combatte su un fronte?

Come dicevo, non ho una risposta.

Infine, come sempre, anche questa guerra incide pesantemente sulla libera manifestazione del pensiero. Assistiamo – spesso impotenti, talvolta indifferenti – ad una censura strisciante: l’accesso ai media viene progressivamente precluso a chi non condivide il pensiero generale, che sostiene acri-ticamente la causa ucraina, o, più semplicemente, cerca di offrire un’analisi più articolata e meno “ti-fosa” sulla genesi della guerra. Un atteggiamento, tra l’altro, sintomo di debolezza: è molto più utile ed efficace confutare un argomento, che impedire che sia espresso.

Sia chiaro: alcune posizioni sono davvero cervellotiche e sembrano animate più da interessi economi-ci o di mera visibilità, che da intime convinzioni. Questa, però, non è una valida ragione per metterle a tacere.

La varietà di opinioni è comunque una ricchezza. Possiamo non condividere un’opinione, criticarla aspramente, ritenerla folle o prezzolata, ma tutto ciò non deve incidere sul diritto di manifestarla. Lo dice l’art. 21 della nostra Costituzione che, non a caso, nasce dalle macerie di un regime totalitario. Torna, se vogliamo, di attualità la frase “non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo”, spesso attribuita erroneamente a Voltaire6.

Marco Rete di Varese

1 Ercole Ongaro “Nel vento della storia”, Cittadella Editrice, 1994.

2 Sempre Ercole Ongaro descrive la frattura verificatasi all’interno della Rete nel 1972, a seguito delle azioni terroristi-che perpetrate dal gruppo palestinese “Settembre Nero” all’aeroporto di Tel Aviv e durante le Olimpiadi di Monaco (“Nel vento della Storia” cit., p. 86).

3 Vedi, ad esempio il Decreto Legge 21 marzo 2022 n° 21, che prevede, a favore dei profughi ucraini, forme di acco-glienza diffusa sul territorio per 15.000 persone, contributi al sostentamento per tre mesi e l’accesso automatico al Sistema Sanitario Nazionale, nonché il riconoscimento automatico per tutte le qualifiche sanitarie conseguite in quel Paese. Sul sito della Protezione Civile è stata, addirittura, creata una piattaforma, denominata “Offro Aiuto”, dedicata alla sola popolazione ucraina.

4 Oggi è facile dimenticare che anche l’Ucraina era parte dell’Unione Sovietica.

5 Non avendo, per fortuna, conoscenza diretta, la mia opinione si è formata nella lettura di molti racconti, più o meno romanzati, sulla resistenza. Mi viene in mente Beppe Fenoglio “Il partigiano Jonny”, Einaudi.

6 In realtà, è della scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall.

CIRCOLARE NAZIONALE MAGGIO 2022

LA MERAVIGLIA DEL SILENZIO

Giorni addietro ho proposto a scuola l’albo illustrato “ La meraviglia del silenzio”.

Dopo la lettura, stimolando la conversazione tra i bambini sul significato delle parole MERAVIGLIA e SILENZIO, una piccola di quattro anni è intervenuta dicendo:

Il silenzio è una cosa che ti fa un po’ innamorare

Esterefatta!

Per giorni ho pensato a quelle parole e con la mente sono approdata in miei viaggi diversi, che, però, avevano un denominatore comune: la mensa fatta di sguardi.

Repubblica Centroafricana. Nella savana, durante una formazione alle maestre del luogo, che parlavano solo sango, sono stata invitata insieme a Carola, dalle stesse a pranzo.

Ognuna di loro ha portato la sua migliore stoviglia da casa per offrirla a noi bianche. Si è pranzato sotto il baobab tra silenzio ed emozione.

Palestina, At – tuwani, Durante un viaggio della Rete, la moglie di Afez, che parlava solo arabo, ci ha accolto con la sua zuppa in ciotole di latta, ceramica e legno. Ognuno di noi sorseggiava con lo sguardo negli occhi dell’altro.

Iran, Isfahan. Nell’immensa piazza una donna, che parlava solo farsi, con la sua famiglia mi chiede di sedermi accanto a lei, con Pier e Ludovica, per condividere la sua cena, in una magica serata estiva. Accetto, mi siedo e piango.

Attimi fatti solo di sguardi, di sorrisi, di parole ( fortunatamente ) non potute dire; attimi fatti d’ innamoramento di un istante che imprime in modo indelebile il tuo io: perché invitare qualcuno a mensa è un atto di profonda fiducia nell’ altro.

Significa desiderare di stare insieme nella condivisione e ancora una volta credere nella relazione.

SIMONA

Per la Rete di Celle/ Varazze

CIRCOLARE NAZIONALE APRILE 2022 da casa MASINA

Carissimi mi emoziona molto scrivere una circolare per la Rete.

Forse voi non ve lo ricordate ma per me e per Ettore voi siete sempre stati i veri fratelli di elezione, e quando abbiamo lasciato la rete abbiamo pianto.

I veri fratelli sono quelli con cui condividiamo le idee e anche se ho sofferto quest’inverno per la perdita di tre fratelli di carne voi siete sempre quelli con cui mi sento in sintonia.

Avrei voluto partecipare al coordinamento di Savona. Sono una Ligure.

Mi manca il mio mare, mi mancano i profumi della maggiorana e di tutte le erbe odorose selvatiche che mi inebriavano nelle mie passeggiate infantili sulla Capra Zoppa o sulla collina delle Manie sopra Finalpia.

Mi mancano le sabbie delle arene candide, che forse voi non avete mai visto, che arrivavano dall’Africa fino alle grotte, dove noi bambini con una candela e un cordino ci addentravamo da veri incoscienti.

Lascio ora la “ saudade ” per fare discorsi più seri.

Io come sapete non sono una esperta di politica come era Ettore e come è Pietro.

Perciò ho inviato una riflessione di Pietro sulla guerra in Ucraina e una di Emilio su Guerra e Psicoanalisi.

Cosa posso dire a voi? Credo che in questi giorni sentendo le varie discussioni nei media noi ci stiamo rendendo conto che noi siamo stati privilegiati come Rete perché le discussioni che dividono le varie correnti politiche noi le abbiamo già affrontate da anni, le abbiamo condivise, le abbiamo assimilate e hanno cambiato il nostro modo di vivere.

Ettore e i tanti collaboratori che lo hanno aiutato, e che poi lo hanno sostituito, da tanti anni hanno saputo affrontare problemi difficili, e spesso hanno avuto il coraggio di andare contro le opinioni di persone che amavano o di altre che li hanno danneggiati perché non accettavano di assecondare i loro comportamenti corrotti. Quando sono stata a Rimini con Pietro mi sono molto rallegrata che la Rete fosse ancora viva e tante persone anche giovani portassero avanti ideali alti ma difficili.

Da tanti anni abbiamo insieme previsto quello che ora è sotto gli occhi di tutti con le sue conseguenze catastrofiche, che si vuole limitare con una emozionalità pietosa e superficiale a una singola guerra come quella dell’Ucraina, mentre è tutto l’assetto del mondo che va cambiato.

Cerchiamo di ricordarci quanto sia grande il patrimonio culturale che abbiamo costruito in comune anche con momenti di buio e di sofferenza spesso prima di avere soluzioni da proporre.

Noi abbiamo capito quanto gli imperialismi e i nazionalismi fanatici siano portatori di morte non solo ai più poveri ma anche agli stessi ideologi , vi ricordate la signora Goebbels che non poteva vivere in un mondo senza Hitler, e vi ricordate le foto dei suoi sei bambini avvelenati e sdraiati davanti al bunker di Hitler?

Noi siamo in grado di riconoscere ogni forma di imperialismo anche quando sta appena nascendo, e non è poco questa capacità di riconoscere un fenomeno sul nascere quando molti ancora non lo vedono.

Noi non siamo contro ogni tipo di guerra ma siamo contro la fabbrica delle armi: la guerra la ammettiamo solo come sfogo della nostra aggressività come si fa nelle arti marziali.

Giochiamo alla guerra con pistole ad acqua , dipingiamoci la faccia di nero come si fa in certi rituali indigeni per far paura agli avversari. Sono gli armamenti che non vogliamo più costruire.

Sono le armi che costano miliardi che arricchiscono i potenti della terra che portano la guerra: cosa serve la difesa dei nostri aerei costosissimi se l’avversario , che magari sa di stare per morire, sgancia con un desiderio di suicidio collettivo una bomba atomica? Un giornalista dell’Avvenire che non so perché detestava Ettore, tanti anni fa scrisse un articolo dicendo che le pistole erano neutre e diventavano armi solo se le si usava. No le armi sono armi anche se non le usiamo, perché con i soldi degli armamenti si rimetterebbe a posto tutto il nostro continente. Si potrebbe vivere come nel paradiso terrestre circondati nei nostri giardini da colibri e uccelli del paradiso che cinguettano all’alba per svegliarci.

Circolano nel mondo tantissimi soldi che ora servono solo a pochi ricchi di fare altri soldi con investimenti finanziari velocissimi, soldi svalutando il lavoro umano che non è solo una fonte di guadagno ma dà senso alle nostre vite. Si potrebbe fare scuole, disinquinare gli oceani da plastiche e rifiuti , si potrebbe aumentare la capacità della ricerca, si potrebbero istruire tanti poveri ignoranti, che non per colpa loro, sostengono che le fabbriche delle armi procurano lavoro. “ Ma signora ”, mi ha detto l’altro ieri un operaio che ho incontrato dal ferramenta, “ lo sa che in Italia le fabbriche di armi danno lavoro a 150 mila persone ? ”.

Ettore invano da parlamentare ha cercato di tramutare la produzione di armi in pentole a pressione e invano a cercato di far passare una legge che impediva che i paesi aiutati dalla cooperazione comprassero dall’Italia armi con pagamenti uguali ai soldi che venivano elargiti.

E’ inutile che vi ricordi quello che sapete meglio di me riguardo alla distruzione delle foreste, alla possibile mancanza di ossigeno per tutta l’umanità, alla carenza probabile di acqua, alla distruzione dell’habitat di tante specie animali che non solo impoveriscono il pianeta ma che portano i virus con salti di specie a cercare la loro casa nell’uomo.

Su questi punti voi ne sapete molto più di me, noi avevamo solo intuito i primi accenni di coscienza ambientale e voi state portando avanti quello che era meno chiaro anni fa.

In questi giorni noi dobbiamo soprattutto pensare di salvare il pianeta.

Sto leggendo e comprando libri di Stefano Mancuso sull’importanza di riforestare il mondo.

Con mia grande sorpresa, ho letto in “ L’ incredibile viaggio delle piante ” di questo autore che a Hiroshima alcuni bambini di un asilo si sono salvati dalle radiazioni della bomba atomica perché l’asilo era coperto da alberi e che intorno a Cernobyl c’è una foresta rossa perché le piante hanno trattenuto le radiazioni della centrale. Se fossi venuta a Savona, ma ho 88 anni e sono troppo vecchia per viaggiare da sola, avrei chiesto a tutti voi di convogliare dei soldi per piantare alberi.

Non vi scrivo per darvi consigli ma perché continuiate ad avere fiducia in voi e speranza nell’uomo. Come nell’emergenza Covid si sono costruiti vaccini in un anno, quando prima ne occorrevano almeno quattro, se gli uomini di buona volontà vogliono possono trovare soluzioni ancora non immaginabili attualmente.

Noi abbiamo avuto tanta paura ai tempi della guerra in Italia, temevano le leggi razziali di Mussolini, temevano che il male avrebbe vinto il bene, ma non è stato così e non sarà mai così anche se a volte abbiamo la tentazione di crederlo.

Ci sono aspetti di crescita del male nel mondo ma la coscienza globale sta maturando, dobbiamo avere fede. Un amico esperto di Sud Sudan ci ha raccontato che pochi anni fa uno stregone era stato sepolto vivo perché aveva previsto una pioggia che non era arrivata. Oggi i social, che per certi versi aborrisco e non so usare, però permettono più di prima che si venga a conoscenza di tante aberrazioni, come quelle dei bambini che in Congo scavano a mani nude nei cunicoli di fango per cercare il cobalto necessario per le pile delle automobili elettriche.

Nel mondo ci sono tante realtà terribili che una volta venivano tenute nascoste e che oggi si cerca in tutti i modi di celare o di ritrasmettere in maniera menzognera, ma noi non dobbiamo permettere la propagazione delle bugie. Oggi chi vuol sapere che cosa accade nel mondo può farlo facilmente ed è soprattutto lo svelamento delle azioni malefiche che è temuto da chi le compie ma che è il solo modo per ostacolarle.

Io sono quasi alla fine del mio viaggio ma sono una donna felice perché ho partorito figli come voi, migliori di me e posso andarmene in pace. Abbiate speranza. Vi abbraccio

Clotilde

Seguendo il dibattito sulla guerra in Ucraina gli psicoanalisti due o tre cose le possono dire, e sono cose legate fra loro.

Primo: trovarsi a prendere decisioni, come l’invio di armi a uno dei Paesi belligeranti, in condizioni di emergenza, quando la sollecitazione emozionale è massima non è mai un buon affare. In queste condizioni, la razionalità rischia di essere travolta e di non fare argine alla tensione angosciosa. Si tende infatti ad appiattire la complessità della realtà su dimensioni estreme, come nelle curve degli stadi: amico/nemico, eroe o disertore, arrendersi o combattere. Le differenze fra fatti e persone sono minimizzate e si procede per ampie generalizzazioni, il dialogo con l’altro, e fra parti di sé, viene interrotto; la mente entra in una modalità autoritaria. Se non c’è tempo per pensare le emozioni, la scarica liberatoria e l’errore, più o meno grave, sono dietro l’angolo.

Secondo: l’essere umano spesso non ha memoria, o meglio ha una memoria selettiva che cancella i momenti difficili della sua storia e di quella del mondo. Cerca di buttare dietro le spalle quello che lo ha turbato per non faticare troppo a capirne il senso e le cause. Se questo meccanismo rappresenta una sorta di scorciatoia esistenziale in parte fisiologica, un eccesso di dimenticanza impedisce di utilizzare il passato per prevedere e organizzare il futuro. Ad esempio, si dimentica che le guerre non solo hanno insanguinato il mondo ma hanno traumatizzato gravemente chi è sopravvissuto e persino le generazioni successive. Inoltre, hanno devastato l’ambiente in modo irreparabile (in Vietnam, a più di cinquanta anni di distanza dalla guerra nascono ancora bambini deformi per effetto del napalm usato per defoliare le foreste). Non si ricorda più che solo gli sforzi per costruire la pace sono riusciti a produrre una convivenza prospera e serena. Vivere all’insaputa di una parte di sé stessi o della realtà esterna può provocare brutti scherzi: ciò che si pensava dimenticato ritorna in gioco in maniera improvvisa e destabilizzante, come in questo momento la minaccia nucleare.

Terzo: la massima latina: “ si vis pacem para bellum ” è palesemente falsa. Investire sulla probabilità che il nemico si spaventi della tua forza non fa altro che indurlo a pensare nello stesso modo, secondo il noto proverbio “chi la fa, l’aspetti”; e può provocare una escalation di emozioni e azioni improvvide. Già Freud, il fondatore della Psicoanalisi, ci aveva avvertito che il prezzo che l’uomo deve pagare per convivere serenamente con i suoi simili, protetto dalla civiltà, comporta un disagio: quello di rinunciare ad esprimere liberamente tutti i propri bisogni sessuali e aggressivi, lavorando costantemente per tenerli a bada. Perché la nostra libertà termina dove comincia quella dell’altro.

Emilio

Questa guerra è il risultato di errori politici gravi – o addirittura di un disegno di destabilizzazione – che proseguono dalla caduta del Muro. Solo affrontando quegli errori si può mettere fine al conflitto. La strategia politica e la resistenza all’aggressione militare non possono essere due cose separate. L’aveva spiegato già von Clausewitz all’inizio dell’800: la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi. Se la politica fallisce, allora si arriva alla guerra. Ma è solo la politica che può porre fine alla guerra (a meno della distruzione completa dell’avversario, ed è improbabile che la Russia venga annientata) ed impedire guerre future.

Francia e Germania sono state in guerra dal 1870 al 1945. La capacità politica del gruppo dirigente che ha gestito la fase post-bellica ha saputo trasformare le ragioni del conflitto in ragioni di collaborazione: oggi i due paesi vivono in pace ed anzi rappresentano insieme l’asse della politica europea. Sono stati uomini come Altiero Spinelli che nel mezzo del conflitto più sanguinoso che l’Europa abbia conosciuto ad aver sviluppato le idee necessarie per costruire una pace duratura. Sono queste le idee che mancano oggi per l’Europa centro-orientale.

La mancanza di queste idee – di una politica alta – non solo ha portato alla guerra in Ucraina, ma anche alla nascita di sovranismi estremisti e di regimi politici illiberali (vedi Ungheria e Polonia) all’interno dell’Unione Europea. Se non ripartiamo da qui sarà impossibile portare al tavolo di negoziazione con la Russia una proposta credibile per una pace duratura. Neutralità dell’Ucraina o ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europa sono due idee che da sole non risolvono e addirittura possono essere fonte di nuove crisi senza una visione globale forte. Continuare a ripetere “l’Ucraina è aggredita, aiutiamola con le armi”, e intanto rinviare a chissà quando un ragionamento su un possibile futuro di pace, vuol dire prolungare questa guerra indefinitamente.

L’Ucraina riceve enormi quantità di armi dal 2014, come lo stesso Biden ha rivelato. Di armi ne sta ricevendo moltissime anche in questi giorni. Ma intanto la stiamo lasciando sola, come abbiamo fatto in tutti questi anni, nel mezzo di una crisi che non può trovare soluzione senza una nuova visione politica che faccia uscire la Russia dal suo isolamento, offrendole una partnership politica con l’Unione Europea – cosa che potrebbe trovare sponde politiche a Mosca, mettendo in crisi la politica putiniana. In mancanza di una visione di questo tipo è inevitabile che anche la rimozione di Putin lascerebbe inalterate le ragioni del conflitto. Questa occasione l’Europa l’ha avuto sia con Gorbaciov che nei primi anni ‘90: ma l’Occidente scelse di sostenere il regime illiberale e corrotto di Yeltsin, saccheggiando le risorse russe, invece di trovare un’intesa duratura. Oggi tutti i nodi sono venuti al pettine e la politica europea non sa dire altro che armi e guerra.

Pietro

Rete Radiè Resch, Circolare nazionale del marzo 2022

A cura della Rete di Pisa-Viareggio

Quando abbiamo iniziato questa circolare, l’attenzione dei nostri media era tutta concentrata sulla elezione del presidente della repubblica. Cominciavano a venire fuori i primi nomi, e Salvini, nel presentare una possibile candidata, aveva detto che era espressione della destra, una destra moderata, liberale e «identitaria». Emergeva una autodefinizione della nostra destra politica: “moderata”, cosa su cui qualche dubbio è lecito nutrire, “liberale”, certamente in senso economico ma molto poco in senso culturale e politico, e infine “identitaria”. E qui si poneva il problema di cosa questo termine davvero significasse. Considerato chi lo aveva usato, ci è venuto subito da pensare agli immigrati, a quei disperati che tentano di raggiungere le nostre coste e che Salvini, quando era ministro degli interni, aveva cercato in tutti i modi di respingere e lasciare in mare. D’altra parte, erano quelli i giorni in cui era molto presente sui giornali la crisi dei profughi ai confini fra Polonia e Bielorussia. Si parlava della costruzione di un muro, mentre migliaia di persone, intere famiglie, erano bloccate al confine, abbandonate a se stesse, con temperature polari, senza nessuna assistenza né prospettiva.

Tutto questo, anche lì, in nome dell’identità, la nostra identità europea e cristiana minacciata da masse di non europei e musulmani. Qualcuno aveva tirato fuori anche la cosiddetta “teoria della sostituzione”. Sostituzione, voluta naturalmente dai poteri forti, Soros in testa, che avrebbe come obiettivo un cambiamento etnico radicale della popolazione europea.

Mentre scriviamo è in pieno svolgimento un’altra crisi, la crisi Ucraina. Una crisi estremamente pericolosa, con possibili derive verso guerre più ampie, se non globali e anche nucleari. Le motivazioni di questa crisi sono tante, e non possiamo trattarle qui, ma anche in questo caso ricompare il tema dell’identità. Vediamo, scrive Politi sul Corriere della sera, “le immagini fino a ieri inimmaginabili di «sovranisti» polacchi e ungheresi che accolgono generosamente i profughi, perché europei come loro, e a loro accomunati dalla minaccia russa.” Quelle frontiere davanti alle quali fino a poco fa si accalcavano migliaia di disperati, respinti senza alcuna pietà, ora si aprono. È l’identità che fa la differenza. E lo stanno sperimentando in questi giorni le migliaia di studenti asiatici e africani, iscritti alle università ucraine, che si vedono respinti alle frontiere, a quella polacca in particolare, quando cercano di tornare a casa per fuggire dalla guerra. “Gli ucraini passavano con i loro cani e gatti. Anche loro sono trattati meglio degli studenti indiani”, Dice a un giornalista Muhammad, uno studente indiano che non riesce a lasciare il paese. Ma qualcosa di simile accade anche in Israele, pronta ad accogliere i profughi provenienti dall’Ucraina, purché ebrei. Gli altri “vengono espulsi o obbligati a versare costosi depositi per garantire che alla fine se ne andranno.”1

Ma cosa è l’identità? È intesa troppo spesso come qualcosa che divide, che distingue/separa, «noi» da un lato e «loro» dall’altro. È proprio questa identità, vista come qualcosa di statico, definito una volta per tutte, che ci permette di respingere chi riteniamo «altro» da noi, portatore di una identità diversa, dalla quale non vogliamo essere inquinati. È anche qualcosa per cui crediamo che valga la pena morire, ma anche uccidere! E, curiosamente, di questo sembrano particolarmente convinti proprio coloro per cui la vita è sacra e inviolabile, soprattutto quando si parla di aborto e di eutanasia.

Che l’identità possa essere all’origine di violenze lo abbiamo visto negli ultimi decenni in tanti posti, Kosovo, Bosnia, Ruanda, Timor, Israele-Palestina, Sudan, …, e ora anche in Ucraina. Noi che seguiamo con interesse e solidarietà le vicende della Palestina lo abbiamo visto recentemente ad esempio nei tentativi di ebraicizzare Gerusalemme con l’espulsione delle famiglie palestinesi, e lo vediamo quotidianamente nella politica di apartheid perseguita sistematicamente dal governo israeliano.

Il rapporto fra identità e violenza è proprio il tema di un bel libro del premio Nobel Amartya Sen, economista e filosofo. Indiano, Sen non può non partire dalla sua memoria di bambino, ai tempi della decolonizzazione dell’India, ricordando la “velocità con cui gli esseri umani di gennaio si trasformarono negli implacabili indù e negli spietati musulmani di luglio”, e le violenze sofferenze che portarono alla formazione di due stati, uno indù e uno musulmano. Dobbiamo sempre ricordare, ci dice Sen che “siamo diversamente differenti. La speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede in gran parte in una comprensione più chiara delle pluralità dell’identità umana, e nel riconoscimento che tali pluralità sono trasversali e rappresentano un antidoto a una separazione netta lungo una linea divisoria fortificata e impenetrabile.” Dovremmo riuscire a capire che l’identità è in realtà qualcosa di molteplice e soprattutto dinamico/fluido. Non siamo quello che siamo, ma quello che “siamo essendo”.

Viene da pensare a un filosofo particolarmente amato da un caro amico della Rete, a cui molto dobbiamo, Arturo Paoli. Si tratta di Emmanuel Lévinas: “Il Messia è il giusto che soffre, che ha preso su di sé la sofferenza degli altri […]. E, concretamente, questo significa che ognuno deve agire come se fosse il Messia.” Se vogliamo realizzare un mondo nuovo, una società più giusta, quella che la tradizione ebraica definisce come «messianica», dobbiamo accogliere l’altro/altra e identificarci con lui/lei. È esattamente l’opposto della difesa dell’identità. È richiesto un cambiamento radicale. Questo ha diverse conseguenze. Ne vogliamo qui considerare due, apparentemente molto diverse. Ma lo sono davvero?

Noi, gli «autoctoni» ci sentiamo nel diritto di «respingere» chi pensiamo non lo sia, o, magari invece, siamo disponibili ad «accogliere», ma comunque siamo sempre noi che ci arroghiamo il diritto di decidere se accogliere o respingere. Ma che vuol dire essere «autoctono», e chi si può legittimamente considerare tale? In realtà siamo tutti migranti in una terra che non è «nostra», che non possiamo possedere. Semmai, siano noi, tutti, a essere «suoi», della terra. E questo ci riporta al nostro rapporto con la terra, il «Creato», che stiamo distruggendo.

Il concetto di «autoctonia» è strettamente legato a quello di «patria». Per i sacri confini della «patria» è bello morire, e naturalmente si può uccidere. E per difenderli si può anche respingere il migrante, fino a permettere che muoia, di freddo e fame in un campo o annegato in mare. Ma per difendere i confini bisogna anche armarsi. Non è un caso che Minniti che ha fortemente contribuito a definire la politica dei respingimenti (a lui si deve l’accordo con il premier della Libia Fayez al-Sarraj che l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha giudicato “disumano”), e che ha contribuito alla persecuzione giudiziaria di Lucano, ora guidi Med-Or, la nuova fondazione di Leonardo, la ex Finmeccanica, partecipata dallo Stato, che opera nei settori di difesa, aerospazio, sicurezza (cyber e non).

Più volte come Rete abbiamo condannato le politiche riguardanti le spese per gli armamenti (+2,6% nel 2020, anno della piena pandemia, arrivate a 1981 miliardi di dollari e in continua crescita. Fonte SIPRI), in un mondo in cui le guerre non si sono MAI fermate. Nel 2021 erano 30 effettive + 15 situazioni di crisi, inclusa l’Ucraina, dove una delle guerre più mortifere tra quelle cosiddette ‘a bassa intensità’ si è protratta dal 2014, mentre i Salvini e i Berlusconi di turno lodavano “il grande statista” Putin. Particolare e ‘dimenticata’ recrudescenza hanno poi avuto, recentemente, i conflitti in Etiopia e nel Sahara Occidentale (Fonte Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, 2021).

Ci preme qui sottolineare: lo stato permanente di guerra nel mondo; il fatto che le guerre non nascono a caso, come funghi, ma che ci sono sempre cause complesse che le determinano e attori diversi che le originano; il rapporto tra armi e affari, e il nesso tra sistema economico ed escalation militare; la totale deregulation delle vendite di armi; la quotazione in borsa delle aziende produttrici di armi, sia private che pubbliche (sono ben 195 le aziende italiane produttrici di armi quotate in borsa), per cui per sostenere il titolo si va a caccia di mercati e c’è una continua accelerazione degli investimenti2; il fatto che il nostro paese sia, a livello mondiale, all’11° posto per le spese militari, passate nel 2021 da 64 a 70 milioni di euro al giorno, e sia presente, con le sue forze armate, in 50 teatri di guerra.

Invitando tutte e tutti a riascoltare la lezione magistrale di Gino Strada “Verso un mondo senza guerre”, alla festa Scienza filosofia del 15/06/20183, intervento di un’attualità stringente, ricordiamo qui alcuni temi su cui ci sembra importante continuare a lavorare e riflettere:

  • La costruzione di un movimento internazionale per l’abolizione delle guerre come unica strada realistica per evitare l’autodistruzione del mondo.
  • La realizzazione di un percorso di disarmo, graduale ma progressivo, a livello di ONU, tema che purtroppo l’Assemblea ONU non ha ancora mai affrontato.
  • La diffusione di una cultura della pace, che ci aiuti, da un lato, a comprendere le cause delle guerre, e, dall’altro, a individuare percorsi nonviolenti per prevenirle e, una volta iniziate, per farle terminare.
  • La promozione di iniziative per portare le aziende di armi sotto il controllo pubblico, in modo che la loro produzione e commercializzazione dipenda dalle esigenze di sicurezza del paese piuttosto che dalle forze del mercato e della finanza.

Vogliamo ricordare infine, in chiusura, l’importanza della piena applicazione della Legge 185/90 sull’export di armi, attraverso un severo controllo del Parlamento, in attuazione dell’Art 11 della Costituzione. Va ricordato che lo spirito della legge è quello di promuovere una politica estera basata sul rispetto delle norme internazionali, con l’obiettivo anche di promuovere la costituzione di una agenzia europea per il controllo delle esportazioni di armi. Pertanto, non può essere considerata una legge sull’“industria militare”: deve controllare, non FAVORIRE l’export di armi! La legge contiene poi anche programmi relativi alla riconversione al civile, purtroppo mai realizzati in trenta anni.

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1 Zehava Galon, “Does ‘never again’ only refer to Jews?”, Haaretz, 7/3/2022.

2 Raoul Caruso, relazione su “Spese militari, industria di armi e conflitti al servizio del sistema economico”, seminario dell’Accademia delle Alpi Apuane, 4/03/2022.

3 https://www.arcoiris.tv/scheda/it/16880/addC

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