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CIRCOLARE NAZIONALE OTTOBRE 2016 – RETE di SARONNO

CANCELLAZIONE E CONVERSIONE DEL DEBITO:
PERCHÉ SONO PRATICHE GIUSTE E NON ATTI DI “
BUONISMO

BREVE STORIA DELLA CONVERSIONE DEL DEBITO ESTERO

Tra il 2015 ed il 2016 ho vissuto nove mesi a Lima, la capitale del Perù, al fine di scrivere la tesi di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali sulla valutazione ed il monitoraggio dei progetti finanziati dal Fondo Italo Peruviano (FIP). Obiettivo della ricerca era verificare se il FIP utilizzasse in maniera conscia o inconscia l’Approccio delle Capacità del filosofo ed economista indiano Amartya Sen, ideatore dell’Indice di Sviluppo Umano. Ma non è di questo che vorrei parlarvi in queste righe. Le riflessioni che vorrei condividere con voi, e che la mia esperienza in Perù mi ha spronato ad approfondire, sono riferite al debito dei Paesi economicamente più poveri. Ma procediamo un passo per volta. Immagino che molti di voi si staranno chiedendo: “Che cos’è il Fondo Italo Peruviano?”, ed iniziamo dunque con una breve risposta a questa più che giustificata domanda.

Che cos’è Il Fondo Italo Peruviano?

Il Fondo Italo Peruviano è uno dei numerosi Fondi di Conversione del Debito esistenti al mondo. Nel 2001 i Governi Italiano e Peruviano firmarono il Primo Accordo di Conversione del Debito, con il quale si decideva che i 116 milioni di dollari che il Perù doveva all’Italia come debito estero, venissero convertiti in progetti di sviluppo sostenibile sul territorio italiano, sotto il controllo di alcuni lavoratori dell’Agenzia Italiana della Cooperazione allo Sviluppo (DGCS), appartenente al Ministero degli Affari Esteri. Il Fondo Italo Peruviano ha così lavorato per 17 anni (a fine 2016 il Fondo dovrebbe chiudere in quando sono stati convertiti tutti i soldi), finanziando 300 progetti in 21 delle 25 regioni del Paese, riconvertendo quasi 200 milioni di dollari (fu infatti firmato un Secondo Accordo di Conversione del Debito del valore di 75 milioni di dollari)

Ma perché il Perù è indebitato con l’Italia? O, per allargare il punto di vista, perché molti paesi Africani, Asiatici, Medio Orientali e Sudamericani si sono indebitati?

Per rispondere a questa domanda, è necessario fare un salto nel passato, precisamente nel 1971, quando gli Stati Uniti, sotto la guida di Richard Nixon, dichiararono unilateralmente l’inconvertibilità del dollaro, a causa delle ingenti spese che avevano avuto durante la Guerra in Vietnam. La convertibilità del dollaro in oro era stata accordata nel 1944 a Bretton Woods, per garantire stabilità all’economia mondiale. Le conseguenze della decisione di Nixon furono pesanti e si ripercossero, come prevedibile, in tutto il mondo, con un peggioramento delle condizioni economiche dei paesi più poveri.
È difficile non entrare in termini economici specifici quando si parla di questi temi, ma per farla più semplice possibile possiamo dire che l’inconvertibilità del dollaro generò una svalutazione (ovvero una perdita di valore) del dollaro, avviando un periodo di intensa instabilità dei mercati finanziari e un sensibile rialzo dei prezzi delle materie prime, tra le quali rientra ovviamente il petrolio.

La domanda di petrolio nel mondo era piuttosto stabile, dunque, alzandosi i prezzi del petrolio, i paesi produttori di petrolio ricevettero un’ingente quantità di dollari, che venivano chiamati “petrodollari”. Trovandosi dunque i paesi produttori di petrolio con una grandissima quantità di “petrodollari” nelle loro banche, decisero di prestarli con un tasso di interesse molto basso ai Paesi più bisognosi di prestiti, che si trovavano soprattutto in Africa ed in America Latina. A questi paesi, in quel momento storico, le condizioni dell’indebitamento sembravano più che favorevoli, dato che i tassi di interesse (ovvero la somma da pagare ai creditori per il prestito che stavano concedendo) erano molto bassi e le materie prime che loro producevano venivano vendute a un prezzo moto alto, a causa dell’inflazione internazionale. Perché, dunque, non indebitarsi?

Indebitarsi pareva infatti al tempo una scelta saggia e razionale, ma arrivarono presto i problemi. Nel 1973 si verificò un primo shock petrolifero, e nel 1979 un secondo, ancora più pesante, durante il quale i prezzi del greggio aumentarono di oltre venti volte rispetto al valore originario del 1973. La reazione di Gran Bretagna e Stati Uniti fu di aumentare … i tassi di interesse.

Come possiamo immaginare, per i paesi indebitati esplose il costo del servizio del debito, e allo stesso tempo, a causa della crisi petrolifera, si trovavano a pagare un prezzo altissimo per le importazioni di prodotti esteri; la vendita delle loro materie prime non era assolutamente sufficiente per pagare le spese per l’acquisto di questi prodotti. Per darvi un’idea della pesantezza di questa situazione, basti dire che tra il 1973 (prima crisi petrolifera) ed il 1982 (tra poche righe scopriremo quale evento segna questa data), il debito dei paesi indebitati non produttori di petrolio aumentò di circa 500 miliardi di dollari. Come se questo non bastasse, con il passare degli anni il dollaro riacquistò valore: il debito dei paesi indebitati continuò dunque ad aumentare in forma esponenziale, dato che… era stato contratto proprio in dollari.

Che fare?

Di fronte ad una situazione di questo tipo, occorreva qualcosa di nuovo, qualcosa che consentisse ai debitori di onorare i debiti contratti ed ai creditori di essere pagati. La risposta dei paesi creditori fu, invece …. la concessione di ulteriori prestiti. Il debito dei paesi più poveri stava cominciando a diventare verosimilmente impagabile.

Effetto domino

Il primo paese a “cadere” fu il Messico nel 1982, il quale dichiarò l’impossibilitò di pagare il servizio del debito. A ruota gli altri debitori, in un inatteso effetto domino diffuso soprattutto in America Latina, si dichiararono insolventi (ovvero l’impossibilità di ripagare il debito) e scoppiò la crisi del debito internazionale.

La risposta dei paesi creditori

I governi del Nord del Mondo e le istituzioni finanziarie internazionali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale), intervennero per dare indicazioni “super partes” ai paesi debitori e creditori.

Vennero così definiti gli accordi di riscadenzamento del debito: nuovi prestiti, nuove scadenze e, soprattutto, provvedimenti di politica economica di ispirazione liberista che il governo del paese debitore si impegnava a mettere in atto. In cosa consistevano questi provvedimenti? Liberalizzazione completa del mercato interno ed eliminazione di tutte le eventuali forme di protezione, liberalizzazione del tasso di cambio e riduzione ai minimi termini della spesa pubblica.

L’ inizio della restituzione del debito

Dal 1982 i prestiti ai paesi debitori si contrassero bruscamente ed iniziò la lunga fase di trasferimento massiccio di risorse finanziarie dai paesi debitori ai creditori. Tra il 1982 ed il 1990 i paesi poveri indebitati hanno ricevuto 927 miliardi di dollari; nello stesso periodo, hanno pagato ai paesi creditori 1345 miliardi di dollari solo per il servizio del debito (e non dunque per il debito in sé!).

Come sappiamo, oggi il debito continua a pesare in modo grave su questi paesi.

Perché è giusto cancellare il debito? Quattro motivazioni.

Una questione di giustizia

Sinora abbiamo cercato di fornire una descrizione delle dinamiche che hanno favorito la creazione e l’aumento del debito dei paesi più poveri. Abbiamo visto che ciò che si verificò fu un fenomeno, provocato dalle scelte politiche dei creditori, che penalizzò i paesi debitori e avvantaggiò i creditori. E’ interessante vedere che, se si ricalcolano le somme dovute e le somme restituite utilizzando come unità di misura non il dollaro, ma un paniere di monete che tenga conto delle variazioni di valore di tutte le monete, comprese quelle locali, si ottiene che per quasi tutti i paesi il debito è già stato restituito completamente, e in qualche caso anche più volte, dunque nulla è più dovuto.

Una ragione storica

Nel periodo del colonialismo, Asia, Africa e America Latina sono state defraudate delle proprie ricchezze naturali: minerarie, agricole e, soprattutto, umane. Nel celebre libro “Le vene aperte dell’America Latina”, Eduardo Galeano ci ricorda che la stima di morti delle popolazioni indigene sudamericane (ovvero degli abitanti che vivevano in America Latina prima – e solo parzialmente dopo – l’arrivo degli Spagnoli e dei Portoghesi) tra il 1492 (anno di sbarco di Cristoforo Colombo a San Salvador) e il 1650 è stimato tra i 60 e i 90 milioni di morti. Le popolazioni del “Nord” del mondo sono debitrici a quelle del “Sud” di valori letteralmente non restituibili.

Una ragione di convenienza

I Paesi indebitati partecipano in forma scarsissima al commercio internazionale. Solo per fare un esempio, oggi l’Africa, nonostante la sua popolazione superi i 700 milioni di abitanti, partecipa solo per il 4% al commercio mondiale. Liberare i paesi dal peso del debito consentirebbe loro di destinare a investimenti produttivi le risorse oggi usate per la restituzione de capitale e il pagamento degli interessi.

Rinunciando al pagamento degli interessi e del debito, i paesi creditori otterrebbero in cambio la possibilità di avere nuovi clienti per i loro prodotti, quindi maggiori entrate.

Una ragione di solidarietà

Le condizioni di povertà in cui versano molti paesi indebitati è scandalosa. I creditori ricchi non possono rimanere indifferenti vedendo il tipo di vita condotta dai debitori e continuare a ricevere da questi il pagamento degli interessi sul debito, il quale supera in media quattro volte la spesa sanitaria annuale.

Il debito odioso

È doveroso accennare infine al cosiddetto “debito odioso”, ovvero il debito accumulato da governi non democratici che è stato utilizzato per salvaguardare, contro la popolazione, la stabilità del governo e che oggi, mutate le situazioni politiche, continua a gravare sulla finanza pubblica e cioè… sui cittadini, i quali hanno subito la violenza ed i soprusi di quelle dittature.

Alla luce di tutte queste ragioni, a partire dalla fine degli anni Ottanta vennero proposte, da parte dei paesi creditori, iniziative ed accordi internazionali che puntavano alla riduzione parziale o cancellazione del debito, alcune delle quali diedero vita ai diversi Fondi di Conversione del Debito.

Cancellare il debito o convertirlo è giusto, non è un atto di buonismo filantropico.

Giulia Rete di Saronno

PERCHÉ CI ODIANO COSÌ TANTO?

Dopo ogni attentato attribuito al terrorismo islamico, cerchiamo inutilmente risposta a questa domanda nei media mainstream. Invettive, minacce, inviti alla mobilitazione, analisi geopolitiche e militari, ma mai un tentativo serio di risalire alle cause. Eppure, dopo attacchi come quello, tragico, di Nizza, poche cose sono chiare come il fatto che una simile carneficina, minuziosamente pianificata e freddamente eseguita, sia il frutto di un odio antico e profondo, individuale e collettivo, nei confronti di noi occidentali. Odio cieco, come sempre nel terrorismo, che colpisce in egual modo i singoli e la istituzioni che pretendono di rappresentarli. Odio sedimentato nel tempo, al punto da inquinare le coscienze. E non ha grande importanza se gli autori delle stragi siano stabilmente collegati ad un’organizzazione terroristica o semplici “cani sciolti” come, in questo caso, sembra più probabile. Anzi, proprio il fatto che persone isolate, che non fanno parte di nessun gruppo paramilitare, decidano di sacrificare la propria vita per uccidere quanti più francesi (belgi, tedeschi, italiani?) possibile, dà il segno di come questo odio sia ormai cultura. Invece, nessuno si interroga sulle cause profonde. Non quelle – ovvie – dovute alla “guerra a bassa intensità” che, con buona pace dell’articolo 11 della Costituzione, noi italiani, con i nostri alleati occidentali, stiamo combattendo, dalla Siria alla Libia. Il terrorismo c’era già prima, come ci ri-cordano tristemente l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2011 e decine di episodi prece-denti, che affondano la radici negli anni ’70. L’imperialismo, certo, prima politico e poi economico. Un imperialismo che è andato ben oltre la chiusura dell’epoca coloniale, che è proseguito con la spartizione dell’Africa e del Medio Oriente in “sfere di influenza” dei Paesi occidentali, con la continua creazione di “regimi fantoccio”, totalmente asserviti a quegli stessi Paesi e con lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali ad opera delle grandi multinazionali, anch’esse con base in quei Paesi. Senza dimenticare l’appoggio cieco ed indiscriminato all’occupazione militare della Palestina, da parte di Israele. Tutto ciò ha creato fiumi di sangue e mari di lacrime. Come non pensare ai mille massacri del tardo periodo coloniale, alla frustrazione di qualsiasi istanza di progresso politico ed economi-co nei Paesi africani, alle “guerre per procura” per la sfruttamento delle risorse minerarie del loro territori? A questo punto, non è difficile capire perché nessuno, in occidente, tenti seriamente di indagare le cause del fenomeno terrorismo: lo impedisce la cattiva coscienza. Farlo, imporrebbe una profonda assunzione di responsabilità ed un invito al cambiamento di modelli di sviluppo, di cui nessuno può o vuole farsi carico. Un meccanismo assai simile a quello che vediamo, ogni giorno, di fronte al fenomeno, epocale, dell’immigrazione da quegli stessi Paesi che si ritengono culla del terrorismo islamico. Anche qui alzate di scudi, più o meno razziste, diatribe su chi e come debba dare ospitalità, analisi tecniche, anche ben intenzionate, sulle possibili risposte di assistenza. Poca ricerca delle cause del fenomeno. Eppure, non è difficile capire che chi mette in pericolo la propria vita per entrare in Europa la fa per disperazione, per mancanza di alternative. Si muove chi, nel partire, non ha nulla da lasciare. Quindi, anche da un’analisi superficiale e parziale come questa, emerge chiaramente come i due fenomeni abbiano radici comuni e si influenzino reciprocamente. Basti pensare alle migliaia di uomini e donne che fuggono dallo “Stato Islamico” ed al sospetto, continuamente avanzato, che i flussi nascondano, a loro volta, potenziali terroristi. In tutto ciò, che ruolo può avere la Rete? Quello di sempre, proiettato in una realtà nuova. Basti ricordare che ciascuno di noi, quando vi ha aderito, si è assunto l’impegno di “approfondire le cause della disuguaglianza tra Nord e Sud e divenire fonte di informazione e mezzo di sensibilizzazione per essere “una voce a servizio di chi non ha voce”” (dal nostro sitowww.reterr.it). Anche le iniziative di solidarietà nei confronti dei migranti, in cui molti di noi si impegnano quotidianamente, possono, quindi, assumere veste politica, alla luce di questo più profondo impegno. Crediamo che la realtà attuale, per molti versi triste e dolorosa, contenga in sé un’opportunità: molte persone di buona volontà che sono sensibili alle sofferenze di questa gente, possono oggi aprirsi all’ascolto e sono disponibili a capire quanto, di ciò che sta accadendo, ricada sulle nostre spalle, in termini di responsabilità indiretta. Parlare loro è, forse, nell’epoca storica che attraversiamo, uno dei compiti della Rete. Il 12 settembre 2001, subito dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York, Tiziano Terzani pubblicava sul Corriere della Sera una lettera (poi edita in “Lettere contro la guerra” – Longanesi – 2002) dal contenuto che, a distanza di quindici anni, si rivela profetico. Scriveva, tra l’altro: “Non dobbiamo farci ora trascinare da visioni parziali della realtà, non dobbiamo diventare ostaggi della retorica a cui oggi ricorre chi è a corto di idee per riempire il silenzio di sbigottimento. Il pericolo è che a causa di questi tragici, orribili dirottamenti, finiamo noi stessi, come esseri umani per essere dirottati da quella che è la nostra missione sulla terra. Gli americano l’hanno descritta nella loro costituzione come «il perseguimento della felicità». Bene: perseguiamo tutti insieme questa felicità, dopo averla magari ridefinita in termini non solo materiali e dopo esserci convinti che noi occidentali non possiamo perseguire una nostra felicità a scapito della felicità degli altri e che, come la libertà, anche la felicità è indivisibile. L’ecatombe di New York ci ha dato l’occasione di ripensare a tutto e ci ha messo dinanzi a nuove scelte. Quella più immediata è di aggiungere o togliere al fondamentalismo islamico le sue ragioni di essere, di trasformare i balli dei palestinesi non in esultazioni macabre di gioia per una tragedia altrui, ma di sollievo per una loro riguadagnata dignità. Altrimenti ogni bomba o missile che cadrà sulle popolazioni del mondo non nostro finirà solo per seminare altri denti di drago e dar vita a nuovi giovani disposti ad urlare «Allah Akbar», «Allah è grande», pilotando un altro aereo carico di innocenti contro un grattacielo …”.

a cura della Rete di Varese

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