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LETTERA CIRCOLARE DI MARZO 2024

“Restiamo umani”: questa è la profetica, grande intuizione di Vittorio Arrigoni, assassinato il 15 aprile 2011. Lui si confrontava ogni giorno con il Male, condividendo la vita dei palestinesi a Gaza.
Sappiamo che oggi nel mondo ci sono molte situazioni di guerra, ma ci sembra che ciò che sta accadendo a Gaza riassuma in qualche modo “in diretta” quanto di male e di efferatezza può albergare nel cuore e nella mente umana.
Sui libri di storia abbiamo letto degli stermini del colonialismo europeo/occidentale, dell’estrema violenza delle guerre del secolo scorso, per parlare solo di quelle, fino all’ indicibile vicenda della Shoah. Oggi, invece, siamo diretti testimoni di un genocidio e questo ci fa stare male per il senso di impotenza. È difficile, infatti, far emergere il desiderio di pace a cui la maggior parte dell’umanità aspira. In molti chiedono pace, ma si arriva addirittura ad usare selvaggiamente il manganello contro qualche gruppo di ragazzi e ragazze, ancora adolescenti, nel tentativo di soffocare queste voci.
Di fronte a tutto questo ci è sembrata una crepa in cui scoprire vita la lettera degli ebrei e delle ebree italiani, apparsa su “Avvenire” del 12 febbraio scorso. (vedi https://www.avvenire.it/mondo/pagine/ebrei-per-la-pace).
Quegli uomini e quelle donne si sono riuniti, hanno messo in comune i propri sentimenti, nominandoli con franchezza per quelli che erano. Hanno riconosciuto che molti israeliani ed ebrei sono incapaci di cogliere “la drammaticità del presente e le conseguenze per il futuro”. Soprattutto hanno sentito la sofferenza delle vittime, di tutte le vittime. È questo che li ha spinti a prendere parola, anche se erano molto pochi. Hanno affermato che fare memoria della Shoah serve a far sì che ciò non si ripeta non solo nei confronti degli ebrei, ma nei confronti di tutti. Diceva Primo Levi che “ciò che è accaduto può ritornare…” E nella lettera è scritto senza mezzi termini che “aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti di indifferenza verso il dolore degli altri, di disumanizzazione e violenza sui più deboli”.
Per contrastare l’odio e l’antisemitismo hanno compreso che l’unica strada possibile è quella di interrogarsi profondamente per “aprire un dialogo di pace costruendo ponti” anche se le posizioni sembrano distanti. Per questo dicono di non condividere le indicazioni dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, dove si dice che ogni critica alle politiche di Israele è una forma di antisemitismo.
Rompere il silenzio di fronte all’orrore e già un modo per coltivare la speranza.
Amici israeliani ci dicevano che in questo momento di grande buio l’unica cosa che vedono possibile è stare insieme in silenzio, arabi ed ebrei, poi forse sarà possibile parlarsi e alla fine anche abbracciarsi: così ci hanno detto testualmente. Per ora questo è il loro orizzonte: per la grande sofferenza che stanno vivendo non hanno trovato altro modo di resistere, perché in questo momento non riescono a immaginare uno sbocco dopo tanta violenza.
Questi amici fanno parte del movimento di cittadini israeliani ebrei e palestinesi STANDING TOGETHER, “Stare Insieme” (www.standing-together.org/en). “Standing Together” è minoritario in Israele, ma sta crescendo – ci hanno detto – e organizza marce e manifestazioni in tutto il paese per chiedere pace, uguaglianza di diritti, giustizia sociale e climatica.
Purtroppo le istituzioni e i governi europei stanno orientandosi sempre di più verso l’dea che è necessario armarsi per risolvere i conflitti e regolare i rapporti tra gli stati. Sono impressionanti le cifre che si spendono per gli armamenti a discapito di investimenti in servizi e welfare, mentre i poveri sono in costante aumento in Europa e nel mondo.
L’articolo 11 della nostra Costituzione, la promozione della pace che l’Europa aveva messo tra i suoi principi sembrano ormai archeologia, cosa del passato.
Ma, come ci hanno suggerito al tempo della dittatura argentina le Madres de Plaza de Mayo, la lotta per la vita sconfigge la morte. Sappiamo che il loro marciare ogni giovedì, sfidando il potere, aveva questo significato: “la vida venciendo a la muerte”. E’ lo stesso grido, possiamo permetterci di dire, con cui si conclude la lettera citata degli ebrei e delle ebree italiani: “Vogliamo preservare il nostro essere umani…”.
Sono più o meno le stesse parole di Vittorio Arrigoni. Parole che avevamo fatto stampare anche sulle nostre borsette di tela in occasione di uno degli ultimi convegni, come un invito e un proposito da diffondere.
Preservare l’umanità è profezia perché dice che il Male non ha l’ultima parola. Ma preservare l’umanità è anche fare Politica, è credere possibile un mondo più giusto e finalmente in pace.

Maria e Gianni
Rete di Verona, 5 marzo 2023

CIRCOLARE NAZIONALE DELLA RETE RADIE’ RESCH – FEBBRAIO 2024

Probabilmente mai avremmo immaginato nella nostra vita un momento esistenziale difficile come quello di oggi, così colmo di incertezza, disagio.

Siamo proiettati in un mondo che ci fa sentire estremamente esposti, indifesi, nudi, senza nessuna certezza da poter offrire a figli e nipoti .

PROIETTATI, questo a mio parere è il termine esatto, letteralmente spinti in una situazione non scelta, sprovvisti, mi sembra, della possibilità di avere una voce, di costruire una qualsivoglia forma di reazione efficace.

Vedo questo tempo che stiamo attraversando come il TEMPO dell‘INCERTEZZA, forse UN’ETÀ mai sperimentata nella vita, un tempo nuovo, non previsto.

Le generazioni passate hanno vissuto probabilmente questo smarrimento attraverso la seconda guerra mondiale. Quello invece di questi anni è IL NOSTRO TEMPO DELL‘INCERTEZZA, che ci si para prepotentemente di fronte, che si impone seccamente, che siamo chiamati a vivere.

, nonostante tutto siamo chiamati a continuare a camminare, magari controvento, non scoraggiandoci, non lasciandoci cadere le braccia. Meglio ancora restando il piu possibile uniti.

Non è facile, non è un cammino facile, è un cammino e un momento che ci disorienta.

Nel tentativo di rialzarci incontriamo immediatamente la crisi prodotta dalla coscienza e dalla visione del nostro limite, con la netta consapevolezza dell‘impossibilità a essere efficaci, quindi potenti. Ci scopriamo fragili.

Siamo invitati inevitabilmente in questi frangenti ad attrezzarci di occhi nuovi, di atteggiamenti nuovi, che ci permettano di scorgere segni nuovi, magari non previsti, sulla strada.

Come individui siamo posti tra il tramontare di stati antichi e l‘assenza all‘orizzonte di cose nuove. Siamo chiamati a non fossilizzarci, a non permanere rigidi sulle nostre convinzioni, ma a riconoscere i segni di novità che inevitabilmente comunque incontriamo ed esistono.

Magari questi segni non presentano un volto preciso, ma comunque in modo informe e acerbo cercano di farsi strada.

Questo mi sembra il modo migliore per affrontare questa epoca dell‘incertezza, che siamo chiamati a vivere QUI,

in questa nostra storia,

in questa nostra terra,

in questo preciso momento.

Non ci è concesso di avere un’altra scelta, non possiamo farne un’altra.

Cercando di cogliere questi segni, balbettando, provo a individuare alcune tracce di una fragile alba che intravvedo ad esempio:

– nella denuncia di Israele da parte del governo Sudafricano per le azioni belliche condotte contro la Palestina e il suo popolo:

Il 29 dicembre 2023, il Sudafrica ha presentato una denuncia contro Israele per “genocidio” a Gaza alla Corte internazionale di giustizia (CIG), il tribunale delle Nazioni Unite incaricato di risolvere le controversie tra gli Stati (fonte: Nazioni Unite)

La risposta del Tribunale non ha probabilmente soddisfatto le nostre attese, ma la denuncia di uno stato ad un altro stato mi sembra un passo notevole, forse poco sottolineato. Tale azione inoltre sembra cercare di provare a costruire un percorso giuridico per regolare un conflitto.

– nella denuncia da parte di organizzazioni per i diritti umani dello stato olandese alla sua corte per la reiterata vendita di pezzi di ricambio di F35 al governo israeliano da parte dello stesso governo olandese:

Un tribunale olandese ha ordinato ai Paesi Bassi di sospendere la consegna di componenti per gli aerei da combattimento F-35 utilizzati da Israele nel bombardamento della Striscia di Gaza. L’ordinanza fa seguito a un appello presentato da organizzazioni per i diritti umani contro la decisione di un tribunale di grado inferiore che respingeva la loro tesi secondo cui la fornitura di queste parti di aerei avrebbe contribuito a presunte violazioni del diritto internazionale da parte di Israele. “La corte ordina allo Stato di cessare ogni effettiva esportazione e transito di parti dell’F-35 con destinazione finale Israele entro sette giorni dalla notifica di questa sentenza”, si legge nella stessa sentenza del tribunale (fonte: Aska News, notizia riportata anche da Rai Radio 1).

Potrei fare altri esempi, ma non mi voglio dilungare, erano esempi appunto.

Mi rendo conto che tali atti non sono risolutivi (possono esserlo o meno), ma ci segnalano una contaminazione e un coinvolgimento positivo da parte di un soggetto istituzionale che attraverso il diritto incontra la vita politica e sociale.

Nel tempo questi atti giuridici possono costruire un vero e proprio percorso giuridico atto a normare per via non bellica le controversie e possono costituire un vero e proprio baluardo contro le barbarie e le ingiustizie.

Mi sembra inoltra che una non trascurabile parte delle nostre società occidentali (probabilmente nella loro parti migliori) sia maturata negli anni, che ci siano ora più persone sensibili, consapevoli e capaci anche di proporre azioni di contestazione e una spinta efficace su alcune tematiche riguardanti i diritti umani.

Concludo sperando che qualche alba ci sia concesso di vederla sorgere ancora nei prossimi anni.

… Saluti a tutti da Sergio della Rete di Genova

Genova, febbraio 2024

A CURA DELLA REDAZIONE DELLA RIVISTA IN DIALOGO

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Sono passati solo tre mesi da quando la Circolare Nazionale dello scorso ottobre dava notizia della creazione di un Gruppo di Lavoro impegnato nel tentativo di dare un futuro alla Rivista In Dia-logo, dopo la scomparsa di Antonio Vermigli e da allora molto è stato fatto.

Il Gruppo di Lavoro si è trasformato in una vera e propria Redazione, adeguatamente struttu-rata e con una funzionale suddivisione dei compiti, mentre Fulvio Gardumi ha accettato di assumere la carica di Direttore Responsabile. La Rivista, di cui Antonio risultava proprietario, oltre che Diret-tore, è ora intestata alla Casa della Solidarietà di Quarrata, che si fa carico di garantire la continuità della sua pubblicazione e che, anche a nome della Rete Nazionale, ringraziamo per la disponibilità.

Ciò ha consentito, come preannunciato, di pubblicare il numero doppio che chiude il 2023: sia pure con qualche intoppo postale, esso è, già da qualche settimana, nelle mani dei lettori. Contiene un ricordo, a molte voci, di Antonio e la trascrizione degli interventi principali alla Marcia della Giu-stizia di Quarrata. Per ragioni di tempo, non è stato possibile inserirvi gli atti del Convegno Nazionale di Assisi dello scorso ottobre. Una selezione sarà inserita nel prossimo numero.

Nel frattempo, la Redazione ha iniziato a porre le basi per il futuro.

In allegato a questa Circolare, troverete la lettera che la Redazione ha deciso di inviare ai letto-ri storici, per illustrare loro le modalità di rinnovo del sostegno alla Rivista (per tale ragione, chi già riceveva la pubblicazione potrebbe vedersi recapitare la lettera due volte). Oltre a fornire una serie di indicazioni sulla futura linea editoriale, la lettera contiene le istruzioni per poter ricevere il nostro tri-mestrale anche quest’anno. In sintesi, facendo una donazione alla Casa della Solidarietà (quella mini-ma consigliata è di 30 €., pari ai costi di stampa e spedizione postale) sarà possibile ricevere gratuita-mente i quattro numeri del 2024. In ricordo di Antonio, abbiamo inoltre pensato di inviare a tutti gli aderenti alla Rete, insieme a questa Circolare, la copertina dello scorso numero ed una selezione degli articoli in esso contenuti.

Il 2024 sarà, per la Rivista e per tutti coloro che la redigono e la sostengono, un anno di prova. Si tratterà, anzitutto, di stabilire se la Redazione sarà in grado di funzionare e di “produrre” un perio-dico di qualità, con contenuti validi ed in linea con la spirito della Rete. Si tratterà, poi, di verificare la sostenibilità economica di questa iniziativa. La Rivista, infatti, per riavviare le pubblicazioni, ha ricevuto un contributo economico dalla Rete Nazionale. Non intende, però, costituire un peso finan-ziario per la nostra associazione, sottraendo risorse alle operazioni. Pertanto, se alle fine del 2024, i costi dovessero superare le entrate, cesserà le pubblicazioni.

Vi è, quindi, bisogno di tutti voi:

dei lettori, in primo luogo, perché rinnovino la propria fiducia ai nostri sforzi;

di chi ancora lettore non è, perché si lasci incuriosire da un trimestrale realizzato “in casa”, grazie all’operato volontario e gratuito della Redazione e di tutti i collaboratori, ma che vuole essere una voce autonoma ed indipendente: la lettera qui in allegato si rivolge anche a loro;

delle Reti Locali, infine, perché ne promuovano la diffusione, anche solo con il passaparola e diffondendo ai propri contatti locali questa circolare.

La Redazione, da parte sua, sta organizzando una serie di incontri per ricordare Antonio con tutti coloro che lo hanno conosciuto ed apprezzato e per promuovere la diffusione della “nuova” Rivi-sta. I primi si terranno il 4 febbraio a Torino, presso la sede del Gruppo Abele, con la partecipazione di Luigi Ciotti ed Antonietta Potente (già circola la locandina) ed il 15 febbraio, a Prato, con la parte-cipazione di Frei Betto.

In questo mondo globalizzato e tecnologico, l’informazione sembra a portata di tutti. Come qualsiasi lettore attento può verificare, però, la stampa “ufficiale”, salvo qualche lodevole eccezio-ne, fornisce una narrazione standardizzata, convenzionale e stereotipata della realtà, spesso letta attra-verso le lenti del capitalismo internazionale e quindi insensibile ai veri problemi dell’umanità. Inter-net, da parte sua, veicola una mole enorme di informazioni, perlopiù priva, però, di adeguata verifica e di un minimo di contestualizzazione.

Forse, quindi, esiste ancora lo spazio per una pubblicazione come In Dialogo, realizzata in modo artigianale, ma impegnata a fornire una controinformazione basata su notizie raccolte diretta-mente nei luoghi dove i fatti si svolgono, in modo da sottrarsi al filtro dei potenti interessi della geopo-litica e da offrire un’interpretazione ed una chiave di lettura indipendente di questo mondo che appare sempre più violento e confuso.

La Redazione della Rivista In Dialogo

RRR Circolare nazionale dicembre 2023

Ci hanno detto che è consuetudine che la segreteria scriva la circolare dopo il Convegno Nazionale e se a novembre, ancora provati dall’impegno organizzativo per Assisi, abbiamo preferito lasciare la parola ad una significativa riflessione sul dramma mediorientale, ora in dicembre rispettiamo la tradizione. Ci piace comunque aprire con parole non nostre, perché pensiamo che esprimano molto bene il significato del Convegno. Sono le parole dell’ospite venuto “dalla fine del mondo”, per dirla con papa Francesco, l’amico mapuche José Nain, che ci ha scritto una lunga e intensa lettera di ringraziamento per il suo viaggio ad Assisi e in Italia:

Il Convegno della ReteRR nella Città di Assisi è stato per noi straordinario. I temi affrontati ci hanno fatto riflettere collettivamente sull’impegno verso Madre Natura, ma anche rivedere il comportamento del mondo, dei governanti e del potere industriale che, senza dubbio non hanno modificato i loro comportamenti distruttivi nei confronti della biodiversità. Il legame illimitato delle Comunità Mapuche con la natura conferma che non si tratta solo di un modello e di uno stile di vita, ma di una filosofia di vita in cui l’essere umano passa in secondo piano e la Madre Terra riconquista il ruolo fondamentale.

L’attaccamento alla natura è una manifestazione di fondamentale rispetto per evitare che gli effetti del cambiamento climatico avanzino pericolosamente verso la distruzione definitiva. Si avverte un clima di cordialità, di fraternità senza confini, che ci fa pensare e riflettere sulle speranze che il mondo ci apre per ricreare un ambiente diverso, dove la diversità culturale e spirituale sia il meccanismo che ci rende persone migliori e migliori come società, dato che le generazioni future non meritano di ereditare l’egoismo e l’ambizione di pochi rispetto ai milioni di persone che sognano e desiderano un mondo migliore.

Il mondo, senza dubbio, è entrato in una catarsi e in una crisi quasi irreversibile. Le invasioni militari, le guerre, le migrazioni, i cambiamenti climatici, per citarne alcuni, stanno causando la massiccia autodistruzione del pianeta. Il potere degli Stati e dei loro Governanti, aggiunti agli accordi economici e militari multilaterali, rendono la situazione ogni giorno più pericolosa. Stiamo eleggendo persone che governano il mondo senza criteri o senza controllo su sé stessi. Eleggiamo spesso governanti assetati di sangue, che vivono di guerre, del sangue dei popoli oppressi, dei popoli che soffrono e che nessuno difende dai massacri e dalle atrocità. Migliaia di bambini muoiono nelle strade del mondo per fame e malattie, ma anche migliaia di bambini muoiono in mezzo a carri armati, fucili e granate di guerra. Interessi economici meschini di impresari corrotti che sono capaci di uccidere ed eliminare vite umane in cambio di denaro.

Con la forza della terra, della natura e la forza spirituale, dobbiamo combattere la meschinità, l’egoismo, la miseria umana. In questo contesto raccolgo le parole e i sentimenti emersi ad Assisi, per continuare a innalzare la bandiera della giustizia, della vita e della pace, così che il mondo possa impostare il suo corso per il bene delle generazioni future.

Noi non siamo solo contenti di aver avuto tra i nostri relatori questa voce così illuminata, siamo anche molto orgogliosi di scoprire che ciò che ci siamo detti nel nostro Convegno Qui è in profonda sintonia col sentire delle comunità amiche del Là.

Con l’aiuto di relatrici e relatori molto competenti abbiamo approfondito tematiche complesse, ci siamo confrontate/i coi problemi sempre più allarmanti che coinvolgono i destini dell’umanità intera, abbiamo ragionato sul nostro stile di vita insostenibile e ci siamo rese/i conto, per dirla con Amitav Ghosh (“La maledizione della noce moscata”), che

la crisi che attanaglia il pianeta è una crisi onnicomprensiva e onnipresente, in cui geopolitica, capitalismo, cambiamento climatico e divisioni razziali, etniche e religiose si intrecciano, alimentandosi e potenziandosi a vicenda…

sebbene sia certamente vero che l’Occidente è il maggior responsabile del riscaldamento globale, ciò non significa che, nella congiuntura attuale, possa affrontare – e tanto meno risolvere – la crisi planetaria senza l’attiva e volenterosa partecipazione della grande maggioranza della popolazione globale. Un necessario primo passo verso una soluzione è una messa a punto di un lessico comune e di una narrazione condivisa – una storia di umiltà attraverso cui gli umani riconoscano la loro interdipendenza, non solo gli uni dagli altri, ma anche dagli animali e dal pianeta stesso.

Ecco, ci pare di averli proprio cercati questo lessico comune e questa narrazione condivisa: come un sindaco del Qui, Finiguerra, ci ha parlato con passione della sua lotta per la salvaguardia del suolo del suo Comune, così un magistrato del Là, Gomez, ci ha coinvolti nella sua coraggiosa lotta ai crimini ambientali che deturpano la sua terra; e come una comunità del Là, “O Bem Viver” con Macione, ci ha mostrato il suo approccio rispettoso e solidale con la terra, così un’associazione del Qui, “Asfodelo” con Maria Chiara, ci ha fatto capire che seguendo lo stesso percorso si può ridare nuova vita a terre e comunità che sembravano destinate all’abbandono…

Ritornando alla Circolare che abbiamo a scritto a settembre, prima del Convegno, ci sembra che le tre parole che avevamo declinato come “centrali” siano state perlomeno perlustrate.

Relazione: tra di noi, innanzitutto, ma anche con i relatori, nei laboratori, nei momenti “conviviali”, non meno importanti di quelli “istituzionali”.

Politica: è la sfida che è risuonata in tutti gli interventi: senza una partecipazione a vari livelli, ma essenzialmente politica, non ci potrà essere un reale cambiamento. Scoprire “vita nelle crepe” è sapersi dotare di una utopia politica che spinge a lottare, a “rialzarsi” nonostante tutto…

Giovani: pensiamo ai ragazzi/e del Centrafrica, ai ragazzi del Niger, agli amici di Asfodelo, all’Associazione di promozione sociale Laudato si’ di Stupinigi, ma anche ai giovani che hanno accettato la sfida di far parte della nuova redazione di “In dialogo”: insomma vediamo semi di speranza.

E poi un commento che, a detta di molti, è risuonato nel Convegno: le tre giornate sono state un’operazione essenzialmente collettiva e questo ci fa dire e affermare con forza che è il “collettivo” che fa sempre la differenza.

Un grazie da parte nostra a tutti coloro che, a titolo diverso, hanno contribuito alla buona riuscita del Convegno.

Gli atti, probabilmente, saranno messi online, così come avevamo preparato la cartellina virtuale, e forse nel prossimo numero della rivista” In dialogo” si potranno riprendere alcune “considerazioni” e “sfide” che il Convegno ha sollevato.

Consentiteci, senza cadere nella retorica, di chiudere questo scritto con un pensiero particolare al martoriato popolo palestinese: a breve partirà un’operazione straordinaria presentataci dal PWWSD (Palestinian Working Woman Society for Development) di accompagnamento psicologico per i traumi subiti e che stanno subendo donne e bambini a Gaza. Abbiamo promesso loro il nostro sostegno, ma ci sembra importante anche accompagnare l’operazione con un evento politico da realizzare, pensiamo, alla fine della raccolta straordinaria. Ci riusciremo?

L’augurio più affettuoso che vogliamo estendere a tutte/i voi per Natale è proprio quello di scoprire nuova vita nelle crepe!

Un abbraccio, care persone

La segreteria

Francesca e Paolo

La guerra scoppiata a Gaza con il criminale e ingiustificabile attacco del 7 ottobre di quest’anno da parte di Hamas non può lasciarci indifferenti, e, soprattutto, non può non metterci in discussione.

Questo perché la nostra Rete è nata proprio in Palestina, dalla visita di Ettore Masina a Paul Gauthier a Nazareth, dove i Compagnons et les compagnes del Jésus charpentier operavano a fianco e con gli ultimi. Questo è importante: non erano lì per un progetto di cooperazione o di assistenza a favore dei palestinesi più poveri, ma per condividere la vita con loro.

Le operazioni della rete fin dall’inizio sono state un affiancare e accompagnare, anche se a distanza, chi si muoveva per cambiare la realtà in cui operava, per costruire nuovi percorsi di liberazione e di giustizia. Noi non abbiamo progetti ideati da noi e gestiti da noi. Le nostre cosiddette operazioni nascono in quelli che, usando una felice espressione di frei Betto, sono i “sotterranei della storia”.

Un tentativo di mettersi dal punto di vista e dalla parte degli altri, in particolare degli ultimi.

Ovviamente tutto questo in modo critico, eventualmente dissentendo. Ma sempre in modo empatico.

Questa capacità di (o forse semplicemente, disponibilità a) mettersi veramente dal punto di vista degli altri è proprio ciò che, almeno apparentemente, più manca in queste settimane che hanno seguito l’attacco del 7 ottobre. Manca ai governi occidentali che, allineati al governo israeliano e al suo presunto “diritto di difendersi”, si limitano a deboli richieste: qualche limitata tregua umanitaria, ma guai a chiedere un “cessate il fuoco”. E purtroppo su questa linea troviamo anche la maggioranza della stampa e dei media. Nessuno, a livello di governi, osserva che l’azione militare di Israele a Gaza assomiglia più a una vendetta che a una difesa. Il fatto che si sia ormai arrivati a oltre 10 donne e bambini palestinesi uccisi per ogni per ogni donna e bambino israeliano ucciso da Hamas il 7 ottobre dovrebbe farci riflettere, almeno in Italia. Non possiamo dimenticare che 1 a 10 è stato il rapporto applicato dall’esercito tedesco per la rappresaglia dopo l’attentato di via Rasella.

E di fronte alla cautela del governo americano nel criticare Israele per i bombardamenti sulla popolazione civile a Gaza è difficile non ricordare i bombardamenti americani di Hiroshima e Nagasaki. Allora fu presa di mira proprio e deliberatamente la popolazione civile, con l’obiettivo esplicito di imporre una resa senza condizioni a un paese già cosciente della sconfitta e disponibile a trattare le condizioni per la resa.

Questa incapacità di mettersi dal punto di vista dell’altro la troviamo anche in Israele, dove cresce la violenza nei riguardi della popolazione araba e, soprattutto, nei territori occupati dove, approfittando della crisi in corso, aumentano le occupazioni di terre da parte dei coloni, e le aggressioni nei riguardi della popolazione palestinese da parte dei suprematisti ebrei. Eppure, mettersi dal punto di vista dell’altro, entrare dentro di lui, è una componente fondamentale della spiritualità ebraica a partire da Isaia. Come scrive Emmanuel Lévinas, filosofo/teologo ebreo, molto amato da Fratel Arturo Paoli, grande amico della Rete, “Il Messia è il giusto che soffre, che ha preso su di sé la sofferenza degli altri. … Ognuno deve agire come se fosse il Messia.” Al centro del suo pensiero c’è proprio l’idea che la libertà del soggetto non è definita dall’affermazione del proprio io in opposizione ad altri soggetti, ma piuttosto dalla “responsabilità”, dalla capacità di farsi carico dell’altro. Il sionismo, sia quello laico che quello religioso, sta nei fatti tradendo lo stesso ebraismo, confermando l’insensatezza della equivalenza fra antisemitismo e antisionismo, che si sta sostenendo anche in questi giorni per delegittimare le critiche a Israele.

Naturalmente i sionisti religiosi e i suprematisti ebrei non rappresentano tutto Israele. Esistono voci diverse, anche se molto minoritarie. Fra queste ricordiamo lo storico Shlomo Sand che, in una bella e ricca intervista a l’Humanité del 19 ottobre scorso, ricorda l’orazione funebre tenuta, nel lontano 1956, da Moshe Dayan, Capo di Stato Maggiore dell’esercito, per il soldato Roy Rotberg, rapito e ucciso dai palestinesi di Gaza: “Non biasimiamo gli assassini di oggi. Da otto anni vivono neicampi profughi di Gaza e, davanti ai loro occhi, abbiamo trasformato le terre e i villaggi dove loro e i loro padri vivevano al nostro posto. Dobbiamo rendere conto a noi stessi; siamo una generazione che colonizza la terra e dobbiamo affrontare l’odio che infiamma e riempie le vite delle centinaia di migliaia di arabi che vivono intorno a noi. Questo è il destino della nostra generazione. Questa è la scelta della nostra vita: essere preparati e armati, forti e determinati.” Chiudiamo ricordando la giovane attivista israeliana, Sahar Vardi, che, dopo avere avuto notizia della morte a Gaza, il 30 ottobre, a causa di un bombardamento aereo israeliano, dell’amico Khalil, attivista palestinese, gli scrive una bella lettera che dimostra come l’empatia non sia morta neppure in Israele. È una lettera che ci fa capire appieno l’atrocità di ciò cha sta succedendo a Gaza, e che riportiamo di seguito:

Khalil.

Scorro i nostri messaggi. La nostra ultima corrispondenza normale risale al 27 settembre, quando parlavamo della sua media dei voti. O meglio, di come convertire la sua media da un’istituzione accademica di Gaza a un’istituzione accademica del Regno Unito o degli Stati Uniti. Gli ho inviato alcune idee per le borse di studio. Mi ha detto che anche se non fosse riuscito a trovarne una all’estero, avrebbe potuto trovare qualcosa online che gli avrebbe permesso di scrivere il suo dottorato in letteratura all’interno di Gaza.

La corrispondenza successiva è già di dopo, dopo quel sabato 7 ottobre.

Abbiamo messaggiato un po’. Dove si trova? L’esercito israeliano ha ordinato loro di evacuare dal loro quartiere di Gaza City al quartiere adiacente di Al-Rimal, così lui e i suoi vicini hanno evacuato – ma fortunatamente non ad Al-Rimal, che è stata bombardata due ore dopo. Anche il suo quartiere lo è stato. Mi ha detto che la sua casa è stata fatta saltare in aria. Tutti i suoi ricordi di suo padre. “Le lacrime non smettono di scendere”, ha detto.

È andata avanti così: ogni tanto ci scrivevamo; ogni tanto lui ci aggiornava. Aggiornava che era vivo. Aggiornamenti su chi era morto. E in qualche modo, quasi ogni volta, concludeva dicendo quanto fosse importante per lui che io sapessi che tutto questo non ha cambiato ciò in cui crede, non ha scosso il suo desiderio di un altro mondo – un mondo migliore, più equo. “Non vorrei che questo accadesse a nessuno”, ha scritto.

Come con altri amici di Gaza, non sapevo cosa scrivere. Quattro giorni dopo questo incubo, gli ho detto esattamente questo: che non so cosa scrivere, se non che sto pensando a lui e che vorrei poter fare di più. “Mi basta che tu abbia chiesto di me”, mi ha risposto. E io ho pianto. Per la prima volta in quella terribile settimana sono riuscita a piangere. Per tutto.

Ho pianto per la paura, per l’impotenza, per le foto delle persone uccise e rapite e per l’orrore sui loro volti il 7 ottobre. Ho pianto per l’orrore di ciò che sarebbe successo, per la sua casa bombardata, per la preoccupazione. Ho pianto per i mondi paralleli che mi sembrava di vedere e che non ero in grado di unire, finché non ho parlato con lui.

Che fortuna che esista, ho scritto a un amico comune. Che fortuna.

Il giorno dopo mi ha inviato un altro aggiornamento: la casa in cui si trovava, appartenente ai suoi parenti, era stata fatta saltare in aria. Ha contato quattro membri della famiglia e cinque vicini morti.

Ha chiamato poco più di una settimana fa. Abbiamo provato a parlare, ma non ci siamo riusciti: io ero nel bel mezzo di una faccenda e lui non era più disponibile. “Possiamo parlare più tardi”, ha scritto.L’ultimo messaggio risale a due giorni dopo. 23 ottobre. Un altro attacco aereo sulla casa della sua famiglia. Altri parenti uccisi. “Mi dispiace molto per i tuoi familiari”, gli ho scritto. “Sempre più persone, nomi, storie, si aggiungono alla lista del dolore che continua a crescere”. “Da qui il nostro ruolo di attivisti per i diritti umani e di combattenti per la libertà”, mi ha risposto.

Qualche anno fa è venuto a Gerusalemme per un intervento chirurgico e aveva bisogno di donatori di sangue. In seguito, anche un po’ del mio sangue è fluito nelle sue vene. C’è una parte di me che vorrebbe scrivere che il giorno in cui Khalil è stato ucciso, anche il mio sangue è stato versato a Gaza. Ma è una bugia.

Io sono al sicuro a casa mia, davanti al mio computer collegato a Internet, con il cibo in frigo e l’acqua che scorre nelle tubature, e quattro muri ancora in piedi. E lui no. Lui, sua moglie, le loro due figlie piccole, sua madre e i suoi due fratelli. Tutti morti.

Non presenterà più la domanda di dottorato – alla quale, mi ha detto durante una di queste conversazioni, avrebbe lavorato anche durante tutto questo, se avesse avuto un po’ più di elettricità. Non mi risponderà più con un’impossibile combinazione di orrore e ottimismo. Non mi dirà più quanto aspetta di incontrarmi un giorno, quando tutto questo sarà finito. L’unica cosa che è ancora in grado di fare è farmi piangere.

E forse un’altra cosa: ricordarci che è per questo che siamo qui, attivisti dei diritti umani e combattenti per la libertà. Per lottare. Per andare avanti. Perché questo non accada più a nessuno.

CIRCOLARE NAZIONALE OTTOBRE 2023

TORNA A CASA IN TUTTA FRETTA …

(LA MARCIA, LA RIVISTA E MOLTO ALTRO)

Torna a casa in tutta fretta, c’è un biscione che ti aspetta”.

Era il 1981 quando il nascente Canale 5 adottava questo slogan, con tanto di jingle cantato da un gruppo di giovani, per la propria campagna pubblicitaria. Sembrava un motivetto stupido, destinato ad essere subito dimenticato, ma era, invece, un vero manifesto politico.

Sarebbero seguiti Italia 1, Retequattro, Mediaset, la discesa in campo, il bunga bunga e tanto altro. Una vicenda politica che avrebbe ammorbato il clima del nostro Paese per oltre quarant’anni. Sem-brava un’operazione commerciale, era l’inizio di un genocidio culturale.

Già molti anni fa, Concita De Gregorio osservava come quella frase, apparentemente innocua, fosse un cavallo di Troia.

Erano gli anni delle lotte operaie, delle stragi di Bologna e di Ustica; il Paese usciva spossato dagli anni di piombo. Ma la nascente televisione commerciale invitava tutti, soprattutto i giovani di allora, al ritorno al privato; offriva un intrattenimento banale e rassicurante, chiedeva di divertirsi e non pensare. Iniziava un lavaggio del cervello collettivo, che avrebbe anestetizzato la coscienza politica di un popolo: dalle assemblee, dalle fabbriche e dagli scontri di piazza, a Drive In.

In una parola: l’inno al disimpegno. I risultati li vediamo ancora oggi.

Non è difficile, con il senno di poi, vederci un preciso disegno politico, già allora mirato a creare il terreno culturale per i successi politici del Cavaliere: il sonno delle coscienze genera mostri.

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Non tutti, ovviamente, si sono lasciati ingabbiare. Mentre i partiti politici tradizionali, anche di sini-stra, cambiavano pelle, rinunciando agli ideali per una triste ricerca del consenso, una minoranza sem-pre più esigua continuava a discutere, a fare politica, a vivere la piazza. In essa, nel suo piccolo ed accanto a molti altri, la Rete.

Non è un caso che il Notiziario, ora intitolato “In Dialogo”, nato a cura della Rete di Firenze nel 1979, assuma la veste attuale nel 1985 e la prima Marcia della Giustizia di Quarrata si tenga nel 1994. Scri-vere, ragionare, discutere, scendere per strada.

Sono strumenti obsoleti, ricordi di un’altra epoca?

Non credo. Personalmente li vedo come mezzi di resilienza e di testimonianza, rispetto ad una realtà che tutti sentiamo arida ed insoddisfacente.

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Purtroppo, Antonio Vermigli, che di Marcia e Rivista è stato il principale animatore, ci ha lasciato lo scorso luglio. I figli Tommaso e Adele ci hanno cercato, per chiederci di aiutarli a proseguire la sua opera. Con la visione profetica che, evidentemente, hanno ereditato dal padre (Antonio era anche una persona scomoda, spigolosa, ma tutti i profeti lo sono), desiderano che entrambe continuino nell’alveo della Rete e, soprattutto, che non si risolvano in un mausoleo del padre, ma guardino al futuro cam-biando, se occorre, pelle e linguaggio. Hanno in mente un lavoro collegiale, a molte mani, aperto an-che a collaborazioni esterne.

La Rete ha aderito all’invito.

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La Marcia si è tenuta regolarmente il 9 settembre. Secondo l’impianto originariamente voluto da Antonio, ha avuto a tema i cent’anni dalla nascita di Don Milani: “L’obbedienza non è più una virtù”. Antonio è stato ricordato, ma, come certamente avrebbe voluto, la Marcia è stata un momento politi-co, non una sua commemorazione. Sono intervenuti Mario Lancisi (biografo di Don Milani), Erri De Luca, Rosy Bindi (ora Presidente del Comitato per il Centenario), Padre Alex Zanotelli e Don Luigi Ciotti. Hanno parlato a una piazza piena, come non accadeva da anni, presenti molti rappresentati delle Reti Locali.

Lo sforzo organizzativo di Tommaso, Adele e di tutta la Rete di Quarrata, per supplire alla mancanza di Antonio, è stato enorme. Ora si tratterà di capire, con loro, come andare avanti.

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Per la Rivista, si è invece creato un gruppo di lavoro informale, che comprende la Segreteria, altri membri della Rete, alcuni giovani ed alcuni giornalisti, amici di Antonio. Da esso dovrebbe nascere la nuova redazione, che affiancherà il nuovo direttore responsabile nella realizzazione dei prossimi numeri.

Per il momento, si è deciso di realizzare un numero doppio, a chiusura dell’annata 2023, contenente il ricordo di Antonio da parte dei principali collaboratori della Rivista (anche il Presidente Lula ha inviato un messaggio), gli interventi dei relatori alla Marcia della Giustizia e gli atti del Convegno Nazionale della Rete, che, come noto, si terrà alla Cittadella di Assisi, nei giorni 20, 21 e 22 ottobre. Salvo imprevisti, dovrebbe essere inviato a tutti gli abbonati, con le consuete modalità, prima di Na-tale.

Ovviamente, lo scopo è quello di proseguire le pubblicazioni anche negli anni a venire. A questo pro-posito, il gruppo di lavoro, una volta ultimata la pubblicazione in corso, si occuperà di predisporre la proposta per la nuova linea editoriale, che sarà sottoposta al prossimo Coordinamento.

Il gruppo di lavoro si sta occupando anche degli aspetti burocratici: nuova registrazione, gestione dei costi di pubblicazione e spedizione postale, verifica del pagamento degli abbonamenti. A questo pro-posito, segnalo che, per chi dovesse ancora provvedere al versamento per l’anno in corso, l’unico conto attualmente attivo, su cui effettuare i pagamenti, è quello bancario:

IT42M0892270500000000004665 – Intestato a Notiziario della Rete Radié Resch

Marco Rete di Varese

CIRCOLARE NAZIONALE RETE RADIÉ RESCH settembre 2023 a cura della Segreteria

Che cos’è un rito? chiede il Piccolo Principe nel celebre libro di Antoine de Saint–Exupéry. E la volpe gli risponde: È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora diversa dalle altre. I riti, civili o religiosi che siano, vorrebbero quindi dare significato e “sapore” alla nostra vita. Ma è sempre così? Quanti riti perdono la loro “forza” e diventano vuoti, stereotipati! In questo periodo ci siamo chiesti se anche il Convegno nella vita della Rete non stia rischiando di perdere la sua forza propulsiva, di ridursi ad un rito vuoto. Siamo partiti dalle solite domande: tre giorni o due giorni soltanto? Tre, abbiamo risposto, ripercorrendo i Convegni precedenti. Ma Rimini 2021? Un mini Convegno! E poi, perché in autunno 2023 se nel 2024 celebreremo i 60 anni di vita della nostra Associazione? Potevamo aspettare? E così via, tante domande e ognuno aveva la proprie risposte.

Noi riteniamo che il rito del Convegno possa avere ancora la sua forza propulsiva alla luce di tre parole chiave che proviamo a declinare.

La prima parola è relazione. La Carta della Rete, che è il frutto della nostra riflessione condivisa, al numero 7 recita testualmente: La relazione è uno dei valori fondanti della Rete. Rappresenta l’alternativa al diffuso individualismo che genera logiche di chiusura verso “l’altro da sé”. Una relazione intesa come tensione verso l’altro, che includa non solo l’essere umano, ma ogni essere vivente e ogni differente visione del mondo, nella convinzione che la Terra sia il luogo che accoglie e lega tra loro tutte le creature che la abitano. Il Convegno è un’opportunità per incontrarci, visto che la maggior parte di noi non partecipa, se non saltuariamente, ai Coordinamenti, è un’opportunità di dialogo, di ascolto, di uscita da noi stessi, per riscoprirci in un “progetto insieme”, in una storia e in una memoria condivisa.

Non siamo esperti di comunità trasformative, ma non si può pensare di trasformare o di avere una visione “integrale” della società senza fare rete con altri, senza tessere relazioni. Non ci appassionano molto i dibattiti sul futuro della nostra associazione, ma riteniamo doveroso parlare di continuità e fecondità delle esperienze e dei valori veicolati nel corso della nostra storia. Perché vivano e diano frutto siamo chiamati a fare “rete” con coloro che condividono una piattaforma di valori e di lotte comuni.

La seconda parola è politica. Sempre la Carta della Rete al numero 8 recita: La Rete Radiè Resch pone l’attività politica al centro della propria azione. Se a livello di Reti locali riteniamo che si possa affermare che tante e varie sono le esperienze in tal senso che ci vedono impegnati, a livello nazionale il discorso è più “complesso”: pensiamo alle Campagne ICE e alla nostra difficoltà di farle proprie a livello nazionale; all’idea, non realizzata, della segreteria precedente di trovare un tema comune sul quale lavorare tutti insieme; alla Circolare recente della Rete di Empoli che esprime la disillusione sul mancato raggiungimento dell’esito referendario contro le armi e per la sanità pubblica; a una certa difficoltà di parlare e confrontarci sulla politica “locale”, ma anche alla tendenza di occuparci più dell’aspetto economico che della valenza politica delle nostre Operazioni…

Per il prossimo Convegno di Assisi stiamo cercando di “costruire” un sabato pomeriggio tutto all’insegna dei laboratori: conosceremo esperienze trasformative “istituzionali”, esperienze di mutualismo solidale, esperienze di recupero del rapporto con la terra, esperienze di “ecologia integrale”. Crediamo che incontrarle sarà un momento di confronto stimolante perché con modalità diverse pongono la “politica” al centro delle loro prassi: politica come lotta per cambiare questa società, a cominciare dal locale per arrivare ad un livello globale.

La terza parola è giovani. Non potremo scoprire la vita nelle crepe della realtà, come dice il titolo del nostro convegno, se non rimaniamo giovani nel cuore, capaci di meraviglia, se non osiamo sperare, contro ogni speranza, che l’ultima parola non sarà la morte, ma la vita. E qui pensiamo a tanti/e giovani e giovani-adulti che portano sulle spalle il peso del futuro loro e delle loro famiglie e che emigrano alla ricerca di una vita dignitosa che gli è negata a casa loro: non saranno il filo spinato, gli apparati militari-polizieschi, le minacce legislative che riusciranno a fermarli… Questi/e migranti vengono da Paesi “giovani” dove la voglia di riscatto, di liberazione, di dignità è grande, come viene dimostrato anche nelle esperienze delle Operazioni che accompagniamo in giro per il mondo. E nel nostro Convegno qualche voce giovane l’avremo…

Oltre al Convegno, in questo tempo estivo ci stiamo occupando anche della ricca ed impegnativa eredità di Antonio Vermigli, che ci ha lasciati il 12 luglio. Antonio ha lavorato fino all’ultimo all’organizzazione della Marcia per la Giustizia di Quarrata del 9 settembre, alla quale vi invitiamo calorosamente. Rimane un grande punto interrogativo sul futuro della Rivista “In dialogo”, per il quale alcuni di noi si stanno già concretamente impegnando in sinergia con Adele e Tommaso, figli di Antonio, e con la Rete di Quarrata. Noi riteniamo che lavorare alla rivista possa costituire un’opportunità a condizione di creare una redazione allargata e “giovane”, capace di parlare ad un pubblico più vasto degli storici appartenenti alla RRR. Stiamo andando in questa direzione, convinti dell’importanza di condividere con persone giovani uno sguardo coraggioso e creativo sul futuro, alla ricerca di “vita nella crepe” che dia speranza.

E allora, il nostro rito del Convegno? Lo considereremo riuscito se l’ospitalità sarà di nostro gradimento, se i tempi saranno rispettati, se gli interventi dei relatori saranno soddisfacenti? Be’, anche, certo, ma sarà riuscito soprattutto se il paradigma da «padroni a ospiti della Terra» decostruirà un pochino le nostre identità e le nostre certezze per fare spazio in noi all’incontro con “l’Altro”: altri uomini e altre donne, altri paesi e altre comunità, altre terre e altre acque, altre speranze, altri sogni.

Vi salutiamo caramente con le parole a nostro parere laicissime di don Mattia Ferrari, cappellano dell’ong Mediterranea, la cui nave Mare Jonio naviga nel Mediterraneo per salvare vite: Sembra che il mondo che nasce continueranno a costruirlo i potenti, secondo le loro logiche di dominio. C’è però un modo per spezzare questo dominio: amare visceralmente e così dare carne radicalmente, con i nostri corpi e le nostre relazioni, alla fraternità. Perché amando visceralmente ci salviamo insieme.

La segreteria

“Ti possono uccidere, o possono farti di peggio  – dice un celebre aforisma – :  ti possono ignorare”.

Così è stato per la campagna dei Referendum  indetti da Generazioni future e dal comitato Ripudia la guerra sui temi dell’invio di armi in Ucraina e sulle decisioni del Parlamento relative alla deroga sul divieto di esportazioni di armi, più uno sulla Sanità pubblica.

In 80 giorni sono state raccolte 370 mila firme (di cui solo 20 mila on line, poche nei Comuni,le altre tutte ai banchini autorganizzati), nell’oscuramento più totale da parte di tutti i media, pubblici e non. 

Anche la  stampa, a parte qualche articolo de “Il fatto quotidiano”, NON ha mai parlato dei referendum. Non capisco perchè;  nemmeno Il Manifesto, nemmeno Avvenire. Per non parlare del silenzio assordante di associazioni come Arci, Anpi, Emergency … grande assente anche la CGIL. Eppure si tratta di realtà che si sono dichiarate contrarie all’ invio di armi, all’escalation della guerra, alla alimentazione costante del conflitto che giova solo ai mercanti di morte. Ipotizzo motivi di equilibrio con il PD, partito ormai ( e lo dico con tanta amarezza e rammarico) bellicista e atlantista oltre misura. 

Sono state fatte proteste presso le sedi RAI: del tutto ignorate, poichè i rapporti di forza sono sbilanciati. Ancora una volta c’è stato oscuramento.

Tra i partiti, solo i 5 Stelle, e senza la necessaria convinzione e impegno  (sì, Giuseppe Conte ha firmato, la consigliera dei 5 Stelle di Empoli è venuta qualche volta ai nostri banchetti come garante… non è poco rispetto a tutti gli altri, ma non era abbastanza, si percepiva subito..) , hanno appoggiato le campagne referendarie.

 Anche Michele Santoro e la ‘sua’ associazione denominata Servizio Pubblico  – la chat nazionale creata dopo la bella Staffetta per la pace di questa primavera, con lo scopo di unire dalle Alpi alla Sicilia il popolo della pace*1) –  ha ignorato i referendum.

Non ho ben chiaro come e se ci siamo mossi in quanto Rete: di sicuro non c’è stato dibattito, né il tema è stato posto (poi potrei sbagliarmi, forse mi è sfuggito…), molti di noi hanno firmato, certo, ma senza volontà di coinvolgere, di promuovere.

La nostra stessa Tenda per la Pace di Empoli, di cui vi ho parlato in altra circolare, che ha come PRIMO punto tra i suoi obiettivi il NO all’INVIO di ARMI e che resiste, pur ‘acciaccata’ e a volte un po’ frustrata, ha visto al suo interno (siamo una trentina di aderenti attivi) qualche defezione. Abbiamo costituito comunque un Comitato e raccolto le firme anche presso la Tenda.

 Tanti i segnali che non c’era sufficiente motivazione. E non capisco perchè, visti  – appunto-  gli obiettivi.

 Provo  a capire:

– non piacevano i promotori, per altro divisi a loro volta e questa è storia che si ripete e non fa onore, proprio per niente. Soprattutto danneggia altamente la causa per cui si dice di lottare…

– i  ‘puri’ dei vari movimenti Non violenti, disarmo ecc. non si sono sentiti abbastanza coinvolti (!!), ma che vuol dire? bastava coinvolgersi!!!  E ci risiamo con le primogeniture e su ‘QUANTO’ conta il MIO (o il nostro) movimento

– Il referendum non era  la forma giusta per far pesare le nostre idee di pace e di No alla guerra  (eppure le abbiamo fatte tutte: marce, fiaccolate, staffette, digiuni, silenzi e grida, comunicati stampa, incontri coi parlamentari che hanno accettato di confrontarsi sul tema del No  alle armi, che è tabù, consigli comunali straordinari, incontri con esperti e pacifisti di ogni genere, personalità autorevoli e non, ecc, ecc.  NULLA, assolutamente  NULLA  ha smosso  di una virgola la politica che conta e decide. Questo dopo quasi DUE anni di guerra in Europa, di carneficine reciproche, di bugie, di morti, di inquinamento e di rischio di guerra atomica…)

L’obiettivo richiesto delle 500 mila firme non è stato raggiunto, la consultazione referendaria non ci sarà. La gente non sarà  chiamata ad esprimersi su dove la politica spenderà i nostri soldi .

 Un’altra occasione persa per dare voce al popolo della pace, che resta diviso, disperso, frammentato, senza voce. 

Noi ci siamo impegnati in questa campagna perchè ci sembrava coerente con tutto il resto che abbiamo sempre fatto, e ancora di più dopo il 24 febbraio 2022.

Abbiamo guardato due SOLE  cose:

– l’obiettivo  del NO all’invio di armi e di  come la politica decide su questi temi vitali in totale assenza di democrazia

 – la possibilità che si offriva di parlare con la gente della Pace in concreto, vista la censura in atto sul tema

Così è stato: una gran fatica a essere nei mercati e nelle piazze, pochi autenticatori  e – poveretti-  sempre gli stessi/e , boicottaggio velato, ma non troppo, per partecipare  alla raccolta durante i vari  e affollati eventi locali  indetti dalle  amministrazioni (tutte PD), solito, vergognoso silenzio stampa.

Quindi abbiamo dato assoluta priorità all’obiettivo e scartato tutto il resto. Troppo semplicisti?  Del resto chi ha fatto faticosi e pesanti distinguo non ci sta portando ugualmente da nessuna parte.

Con la gente abbiamo parlato, abbiamo avvicinato  tante persone, non le solite èlite ( brave, per carità), ricevuto diniego,  indifferenza, contrarietà, consenso. Non so se siamo riusciti a catalizzare davvero l’attenzione e risvegliato un po’ di consapevolezza  sulla tragedia che stiamo vivendo, sull’escalation in corso circa i rischi di questo e di tutti i conflitti in atto. Ci abbiamo provato e la raccolta firme almeno ce ne ha fornito l’occasione. Hanno firmato  due categorie di persone: i pacifisti convinti e tante persone semplici di ogni estrazione sociale, che fanno i conti e capiscono il rapporto deleterio tra spese per gli armamenti e spese sociali (sanità , scuola, servizi…). 

E’ emerso chiaramente , e già lo sapevamo,  che NON esiste un fronte unito contro la guerra. Questa è la nostra vera fragilità e impotenza.

E’ indispensabile che ogni proposta che verrà fatta su pace/guerra/armamenti e non solo, sia valutata e accolta o no, SOLO nello specifico contenuto, nel bene che può fare e produrre, NON sulla base di chi la fa*2) .

NOTE *1) Incontro on line del 2 agosto  con Santoro e SP:  gruppi regionali consultati dopo la Staffetta della Pace., nel ns caso quello del Centro Italia, con una sessantina di partecipanti.

Dal dibattito emergono due linee:

–  necessità di costituire un Movimento trasversale sulla Pace  (proposta di Raniero La Valle)

– creazione di un ‘motore aggregativo’ (sic) sempre sul tema Pace, che poi sarebbe un partito…ma con il dubbio se lavorare con i partiti che già ci sono tentando di metterli insieme , o creare una ‘cosa nuova’.

Decisione e ulteriore dibattito rimandato al 22/23 settembre, assemblea a Firenze in presenza (Articolo 1, Santoro, SP, ecc).

*2) Qualcuno non ha firmato perché i promotori erano NO VAX (!!!), la consigliera dei Comunisti Italiani di un ns Comune non ha voluto autenticare perché i referendum erano stati firmati da Alemanno (!!!). Non mi pare un modo politico (=bene comune) di ragionare

Padova Luglio 2023

Perché mi uccidete?”

Ma come! non dimorate dall’altra parte del fiume?

Amico, se dimoraste da questa parte, io sarei un assassino

e sarebbe ingiusto uccidervi in questo modo;

ma dal momento che dimorate dall’altra parte,

io sono un coraggioso e la mia azione è giusta”.

(pensieri di B. Pascal)

Un iniziale “caldo” saluto, a tutte e tutti.

Non possiamo iniziare questa ns mensile comunicazione senza il ricordo per p. Ezechiele Ramin – Lele.

Ezechiele è stato ucciso il 24 luglio 1985 a 32 anni con tanti sogni e speranze: “Ho la passione di chi segue un sogno ( … ) camminare su strade che non hanno arrivo, che non hanno un cielo dove sento soltanto la piccola gioia cavata fuori con una fatica tremenda”.

Faremo memoria di padre Ezechiele con i Comboniani alla parrocchia di san Giuseppe, Padova, lunedì 24 luglio alle 19.00. Chi può venga a cantare il suo ricordo.

Fatica, sogni e speranze anche per Haiti, come ci scrivono Jean e Martine , con le loro ultime e preoccupanti lettere, scritte con costanza e fiducia a Francesco e a suor Gabriella.

Ciao Cesco, noi a volte in Cabaret, a volte in Arcahaie.
Perché i gruppi armati sono molto vicini al Centro di Cabaret, per questo stiamo molto attenti.
Ma la strada per andare a Port au Prince è controllata dai banditi.
Gli interventi della polizia haitiana sono inefficaci al punto che alcuni settori della società sono del parere per l’intervento di una forza straniera.
Questa situazione rende ancora più difficile la vita ad Haiti, che era già molto complicata. Molte persone lasciano il paese per vivere in Canada e negli Stati Uniti; il programma di Biden offre agli haitiani che vivono negli Stati Uniti l’opportunità di fare domanda per i propri cari ad Haiti.
Martine ed io, per il momento non vogliamo lasciare Haiti, perché il nostro lavoro è molto importante per FDDPA e per le comunità, soprattutto in termini di salute e istruzione.
Quindi, ora stiamo lavorando anche con
Balansè (agronomo e politico di Verrettes, collabora attivamente nella formazione contadina) che combatte contro i gruppi armati nell’Artibonite e stiamo iniziando a vederne i risultati.
Vi farò sapere di più la prossima settimana.
Ciao, ciao… buona giornata

Cara suor Gabriella, siamo molto felici di sentirti.

Questa settimana si riparte timidamente con la scuola, ma la maggior parte dei genitori ha paura di mandare i propri figli, è normale con questo clima di insicurezza che si preoccupino. I nostri figli sono tornati tutti nelle loro scuole.

Sì, il trasporto è sempre più difficile, ma Jean continua ad andare a lavorare con i mezzi pubblici.

Organizziamo una clinica mobile una o due volte al mese a Fondol e la scuola funziona bene tutti i giorni a Fondol.

La scuola di mio fratello ora funziona ma chiuderà i battenti a giugno perché pochi genitori mandano i propri figli. La mia famiglia ti ringrazia per la tua grande gentilezza nei loro confronti, ne avevano un grande bisogno.

Sì, ci stiamo preparando per il campo estivo a Fondol ma sarà molto difficile perché non potremo andare a prendere food for the poor (cibo della ONU) a causa delle bande che occupano le strade. Per questo avremo bisogno di soldi per il cibo dei bambini che saranno un centinaio.

Restiamo a casa di Dubuisson a pregare la nostra sé Dadoue.

Per la festa della mamma abbiamo organizzato cliniche mobili per tutte le donne: è stato un grande successo.

Abbiamo installato un altro laboratorio a Saint Médard, Arcahaie e lavora tutti i giorni, mentre quello di Cabaret lavora al rallentatore data l’insicurezza che vi regna.

Ciao a tutti, un bacione

Guterres: una missione ad Haiti «per scacciare l’incubo ad occhi aperti»

Avvenire – Lucia Capuzzi venerdì 7 luglio 2023

Nella notte tra giovedì e ieri, una ventina di uomini armati ha fatto irruzione nell’ospedale di Medici senza frontiere (Msf) di Tabarre, quartiere di Port-au-Prince. Una volta entrati, si sono introdotti in sala operatoria e hanno portato via il giovane ancora sotto anestesia al termine di un intervento per varie ferite di proiettili, ricoverato il giorno precedente. L’Ong-Premio Nobel è stata costretta a fermare temporaneamente le attività nella clinica. «Come possiamo continuare a curare le persone in un simile contesto?», ha tuonato Mahaman Bachard, responsabile di Msf ad Haiti, dove si simili episodi sono quotidiani. Letteralmente «un incubo ad occhi aperti», come ha detto António Guterres. Dal Palazzo di Vetro, ieri, ha voluto lanciare un ennesimo grido d’allarme per l’isola da cui è appena rientrato. Il segretario generale ha deciso stavolta di muoversi in prima persona per cercare di convincere la recalcitrante comunità internazionale a «creare le condizioni per schierare una forza multinazionale» nel Paese più povero e ormai più violento dell’Occidente. «Non parlo di una missione militare o politica dell’Onu – ha aggiunto, a scanso di equivoci ­–. Ma di un consistente dispiegamento da parte degli Stati membri di forze di sicurezza che lavorino insieme alla polizia nazionale haitiana per smantellare le gang e restaurare la sicurezza». Almeno un minimo.

Sono trascorsi esattamente due anni – ieri – dall’omicidio mai chiarito di Jovenal Moïse. Un presidente controverso. La sua smania di restare al potere gli ha alienato il consenso di una parte della stessa élite che lo aveva scelto. Soprattutto, però, Moïse ha reso endemico il “tradizionale” ricorso alle bande da parte dei politici per cooptare il consenso. Fino a perderne totalmente il controllo. Ormai ben armate, queste ultime hanno dato vita a un conflitto del tutti contro tutti per accaparrarsi brandelli di Port-au-Prince da cui estrarre risorse – umane, cioè soldati da reclutare con la forza – e materiali, con sequestri ed estorsioni. Oltre l’80 per cento della capitale è nelle loro mani cruente. Il terrore – con massacri, esecuzioni extragiudiziali, stupri di massa – è lo strumento principale con cui ottengono l’obbedienza di quanti non riescono a fuggire, aggiungendosi al fiume già enorme di 128mila sfollati interni nella sola capitale. Abusi documentati fin nei più macabri dettagli dalla missione Onu nel Paese (Binuh), da numerose Ong, dalla Chiesa. Da aprile il contesto si è ulteriormente complicato con la comparsa di milizie di cittadini armati responsabili – secondo la speciale rappresentante Onu per Haiti, María Isabel Salvador – della morte di 265 persone sospettate di essere parte delle gang. Molti di questi sono stati linciati per strada. La guerra, invisibile all’opinione pubblica occidentale quanto reale, ha trasformato l’emergenza umanitaria cronica in catastrofe: 5,2 milioni di abitanti, di cui tre milioni sono bambini, hanno necessità di assistenza per sopravvivere.


A dargliela non può essere lo Stato che si è letteralmente liquefatto dal 2021: nel Paese non c’è più alcun rappresentante eletto, il potere giudiziario è bloccato mentre l’autorità del premier, Ariel Henry – subentrato al presidente assassinato – è poco più che nominale. Il Consiglio di transizione, instaurato alla fine del 2022 su pressione della comunità internazionale, nonostante le buone intenzioni, non riesce a incidere. «È facile capire perché oltre il 90 per cento della popolazione, in questa situazione, sia favorevole a un intervento delle Nazioni Unite, nonostante gli errori del passato», racconta suor Paesie, al secolo Claire Joelle Phillipe, residente ad Haiti dal 1999 dove ha fondato la Famiglia Kizito per la tutela dell’infanzia. Dopo quasi un anno di stallo, dopo il viaggio di Guterres, l’ipotesi della missione sembra riprendere quota. Henry, al ritorno dal vertice di Trinidad e Tobago dove ha incontrato il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha parlato di «una soluzione più vicina per la sicurezza». Nel frattempo i combattimenti proseguono, concentrati soprattutto nell’ovest della capitale, a Gran Ravine e Carrefour. Cité Soleil, invece, è incredibilmente pacifica dal 28 giugno, dopo settimane di battaglia.

Per la prima volta dopo oltre un anno, le persone possono perfino passare le “frontiere” tra le aree controllate dalla banda di G9 e quelle “appartenenti” a Gpep. «L’ho fatto anche io e quasi non ci credevo – aggiunge –. Le vedette delle gang sono ancora al loro posto. Ma non sparano». Pierre Esperance, noto attivista per i diritti umani, sostiene che l’artefice della tregua – ben remunerata – sia l’ex presidente ed ex patron di Moïse, Micheal Martelly, nella speranza di vedersi alleggerire le sanzioni comminate nei suoi confronti dal Canada. Una pace cosmetica, dunque, tragicamente precaria. Quella vera deve ancora attendere.

CIRCOLARE DI GIUGNO – RETE DI TORINO & DINTORNI

Noi della Rete Radiè Resch spesso parliamo di un “qui “e di un “là” rischiando a volte di chiuderci in categorie che in questo nostro mondo fluido sono ormai anacronistiche.

Credo che questa dimensione fluida del nostro esistere abbia anche una connotazione positiva: infatti esprime anche movimento, cambiamento, dinamicità, aspetti che caratterizzano le società in cui viviamo, le nostre famiglie, le nostre storie personali.

I popoli si muovono – come sempre è stato – in molte direzioni. Siamo un po’ tutti migranti: chi per fuggire dalle guerre, dalla povertà, dalle persecuzioni; chi in cerca di un impiego dopo un percorso di studi che non trova sbocco nel proprio paese, oppure per la propria attività lavorativa, o ancora perché desidera vivere nuove avventure in un posto sconosciuto.

Capita però di mettersi in movimento, di cambiare qualcosa nella propria vita pur rimanendo a casa, nella propria città, nel proprio Paese.

È ciò che stiamo vivendo noi da quando Turky è entrato nella nostra famiglia, circa un anno e mezzo fa.

Turky aveva 17 anni quando è arrivato in Italia nell’ottobre 2021 grazie a” Pagelle in tasca” un progetto realizzato da Intersos e che che descrivo brevemente qui sotto trascrivendo dal sito dell’organizzazione:

Il progetto “PAGELLA IN TASCA – Canali di studio per minori rifugiati” è un progetto pilota che ha l’obiettivo di promuovere l’ingresso con un visto per studio di 35 minori non accompagnati attualmente rifugiati in Niger, affinché possano avere l’opportunità di venire in Italia a studiare senza dover rischiare la vita su un barcone nel Mediterraneo.

Si tratta della prima sperimentazione a livello internazionale di un complementary pathway per minori non accompagnati, un nuovo canale di ingresso regolare e sicuro fortemente innovativo rispetto ai canali ad oggi attivi, in quanto:

  • è dedicato specificamente alla protezione dei minori non accompagnati, attualmente esclusi dai corridoi umanitari da paesi extra-UE e dalla maggior parte degli altri canali di ingresso;

  • è finalizzato alla promozione del diritto allo studio ed è fondato sul rilascio di un visto di ingresso per studio non universitario, previsto dalla legge italiana per minorenni tra i 15 e i 17 anni, ma ad oggi mai utilizzato per promuovere l’ingresso di minori rifugiati;

  • prevede che i ragazzi vengano accolti da famiglie affidatarie, a differenza di quanto accade alla quasi totalità dei minori non accompagnati presenti in Italia, che sono accolti in strutture per minori. Si tratta di un meccanismo di community sponsorship, che prevede, al fianco delle famiglie, anche il coinvolgimento di tutori volontari e organizzazioni del privato sociale, con un ruolo centrale dei Comuni e delle scuole.

Mi piace sottolineare che questo progetto ha il pregio di aver usufruito di una legge già in vigore ma mai applicata a minori stranieri non accompagnati.

Trovo molto interessante che dall’incontro di leggi istituzionali e organizzazioni attente ed illuminate possano nascere iniziative capaci di creare nuovi percorsi per chi realizza il progetto stesso e nuove prospettive per chi ne beneficia.

Purtroppo spesso risorse e opportunità messe in campo anche in ambito istituzionale e progetti realizzati negli stessi ambiti che beneficerebbero di esse viaggiano su binari paralleli rendendo vana la possibilità di creare sinergie e collaborazioni.

Per rendere realizzabile questo progetto di affido di minori stranieri non accompagnati è stato fondamentale unire diverse forze, istituzionali e non, diventando perfino un modello a cui anche altri paesi si stanno ispirando.

Diventare famiglia affidataria per noi significava dare a Turky l’opportunità di realizzare il suo sogno di studiare. Ciò che ci ha spiazzati è stato accorgerci che Turky è un ragazzo che, come tutti gli altri ragazzi arrivati con lui, vive nella contraddizione di cercare da un lato di diventare come “noi” e dall’altro di conservare e difendere la sua identità. Vediamo in lui la volontà di identificarsi nel modello nord-euro-occidentale soprattutto nei suoi aspetti peggiori: la ricerca della ricchezza, il consumismo, l’individualismo. Allo stesso tempo però percepiamo il suo orgoglio di appartenere ad una cultura che, per alcuni aspetti considera “migliore” della nostra e che lo autorizza a criticare il nostro modo di vivere.

Relazionarci con Turky è come guardarsi in uno specchio: in lui vediamo le contraddizioni del nostro “qui” ma al tempo stesso vediamo anche quelle del suo “là”.

Appartenere al “qui” o al “là” non è più, quindi una questione geografica, ma di senso della vita, di valori, di riferimenti.

L’unico modo per superare questo dualismo è contaminarsi, modificarsi, essere disposti a cambiare prospettive, paradigmi

Quando due mondi si incontrano, inevitabilmente gli equilibri cambiano, si iniziano a percorrere nuove strade. Ci si rende conto che i registri comunicativi sono diversi, come anche il modo di intendere le relazioni reciproche. Il significato stesso e il valore di realtà come famiglia, casa, tempo, sono differenti. Parole come rispetto, fiducia, affetto, possono esprimere concetti diversi.

Tutti ci siamo messi in movimento: imparando a cucinare e a mangiare cibi nuovi; modificando quegli atteggiamenti che potrebbero essere fraintesi e provocare sofferenza; modificando alcune abitudini; imparando a conoscere le nostre reciproche culture e individuandone ricchezze e limiti.

Inizialmente pensavamo che le difficoltà sarebbero state abituarsi a relazionarsi con un ragazzo che ha una cultura diversa, che ha abitudini differenti. Invece la sfida più grande per noi è cercare di aiutarlo a prendere coscienza dell’iniquità del modello nord-euro-occidentale che sembra capace di fagocitare anche le menti e i cuori di chi ha vissuto su di sé gli effetti di tale modello: l’ingiustizia, la povertà, il sopruso, la violenza,

Quando parliamo di valori, così cari alla Rete come la giustizia, la difesa dei diritti nei confronti dei più fragili e di chi non ha voce, la solidarietà, la cura dell’ambiente, la gratuità, ci rendiamo conto che Turky fa fatica a riconoscersi in essi. Aver vissuto il dramma della guerra in Sudan, essere dovuto scappare a 9 anni con la mamma in Libia, essersi separato da lei a causa della prigionia, essere scappato da solo per ritrovarsi prima in Niger e poi in Algeria; essere nuovamente catturato e rimandato in un campo profughi in Niger prima di riuscire ad aderire al progetto di Pagelle in tasca, sicuramente gli ha insegnato che ognuno deve combattere la propria battaglia da solo per sopravvivere.

Per tutto ciò sentiamo forte la responsabilità di essere il più possibile coerenti con i valori che vogliamo testimoniare, sia nelle piccole che nelle grandi scelte quotidiane: è in gioco la nostra credibilità.

Certo non sempre è semplice vivere questa esperienza, perché è un continuo ridefinirsi, rimettere tutto in discussione, rivedere punti di vista. Nonostante ciò sono contenta di aver intrapreso questo cammino perché mi ha permesso di scoprire nuovi mondi: mondi propri di un’altra cultura, mondi nascosti nel cuore di un ragazzo che è dovuto fuggire dalla sua terra, dalla sua famiglia, dalla sua storia, ma soprattutto ho scoperto una parte di mondo che era dentro di me e che ancora non conoscevo.

Desideravo condividere con voi tutti questa nostra esperienza perché la considero una grande ricchezza, un grande dono e, come tale, ha valore solo se condiviso.

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