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Seminario nazionale della Rete Radié Resch – Rimini 13-14 Novembre 2021

IL SOGNO DELLA RETE: UN LEGAME CON IL FUTURO

SINTESI:

Introduzione di Lucia Capriglione

Presenta Filomeno Lopes, originario della Guinea Bissau, in Italia dal 1986, lettore di notiziari in lingua portoghese presso la radio vaticana, laureato presso la Gregoriana, giornalista e autore di libri sulla differenza culturale.

Compito di Filomeno: ascolto e relazione finale

Maria Picotti legge la lettera inviata da Carla Grandi

Video di Matteo Mennini

La Rete non è diventata FBO, è rimasta fedele alle sue radici (nello stesso periodo Focsiv e Mani Tese si sono “professionalizzate”

Il tema delle fondamenta nel rapporto con la terra e con la storia: le lettere di Masina

La nostra coscienza e la nostra discendenza

  • Bisogno di riconciliazione (con la nostra storia e con la nostra fede)
  • Assunzione delle violenze del sistema (le cause strutturali)
  • L’ascolto degli oppressi

Ercole Ongaro

La Rete nasce da un incontro (Masina e Gauthier). Incontro come valore fondante

  • Una condivisione continuativa: l’autotassazione
  • La libertà organizzativa dei gruppi e l’assenza di istituzionalizzazione. I gruppi hanno la libertà e la leggerezza dei movimenti spontanei.
  • I momenti comuni del seminario e del convegno biennale.

La valenza politica: innescare forme di cambiamento in cui i poveri fossero parte attiva

Mettersi periodicamente in discussione

Luci e ombre: nascita e morte di tanti gruppi locali

  • Non siamo attraenti in una società che predilige la breve durata
  • Siamo carenti di visibilità e di efficienza (ma può essere un valore)

Una associazione vive se c’è chi la fa vivere. Il mondo si è evoluto in modo diverso

Filomeno Lopes

Rileggere la Rete senza paura e senza nostalgia. Quando è buio non temere di tornare indietro. La sfida intergenerazionale: nel discorso non è ancora uscita la parola futuro. Nella mia cultura il futuro sono i nipoti, più che i figli. Il rito di iniziazione (in Mali?).

La Rete nasce da un incontro per ricordare che la vita sono gli altri

Contro la globalizzazione dell’indifferenza

  • Il peso della storia: l’assunzione delle responsabilità coloniali (tra parentesi: l’Italia fa più fatica a riconoscersi come potenza coloniale)
  • L’ascolto degli oppressi come strumento di riconciliazione: la parola è vita ed è come il sangue o l’acqua, non si può raccogliere una volta emessa.

Pietro Masina (associato di Storia e istituzioni dell’Asia a Napoli, già ricercatore di Fondazione Rothschild, esperto di sud-est asiatico, in particolare di Vietnam)

La Cina è un paese emergente (supererà l’economia USA entro 10 anni, già oggi molti indici sono superiori), con venature di revanchismo rispetto alla sconfitta militare e alla penetrazione commerciale imposta a partire da fine ‘700 (guerra dell’oppio 1839-1842)

  • Il governo di Pechino viene riconosciuto dall’ONU solo nel 1971 (in precedenza la Cina era Taiwan)
  • L’egemonia cinese ignora il modello occidentale della creazione del consenso
  • Il sud-est asiatico come luogo di confronto fra le due egemonie

Il timore del gruppo dirigente cinese: la frammentazione, gli autonomismi e i conflitti interni (la memoria storica degli “stati combattenti”, V-III sec. a.C.)

  • La questione del Tibet e la rivolta del 1959 (fomentata dalla CIA)
  • Le popolazioni turcofone (uiguri) nel Xinjiang
  • La repressione dei movimenti millenaristi, come il Falun Gong

Il confucianesimo di Meng-Tzu (370-289): l’animo umano è fondamentalmente buono, ma deve essere educato. In seguito prevale la tesi della cattiveria umana che necessita di norme, su queste basi si è fondata la riunificazione della Cina su base legalistica durante la dinastia Qing.

Sesto plenum del PCC, Xi Jing Ping proclamato “grande leader” per la terza volta, sulle orme di Mao e di Deng. Nella sua relazione si vanta di aver sottratto alla povertà 850 milioni di persone (100 milioni durante il suo mandato). Fra gli obiettivi l’aumento dei salari e la delocalizzazione, mantenendo le produzioni di maggior valore aggiunto.

  • Dal 1997 la Cina fa parte del WTO, in pratica accetta la logica del capitalismo
  • La povertà assoluta si è ridotta, ma è aumentata la disuguaglianza
  • Migrazione interna non permanente di lavoratori molto giovani

Nel dibattito intervengono:

Gianni Pettenella: la tensione politica locale

Paolo Guglielminetti: valore dei progetti; relazioni con associazioni giovanili

Caterina Perata: difficoltà nell’incontrare i giovani, hanno linguaggi propri

Laura (Torino): i giovani si esprimono con le immagini dei social più che con le parole

Lucia Capriglione: si trasmette con la testimonianza; il web crea situazioni-bolla

Pier Pertino: far conoscere un diverso modo di incontrare la realtà

Nadia Zamberlan: i giovani sono molto diversi fra loro, non è possibile parlare a tutti

Ludovica (Celle): le esperienze hanno sempre funzionato, manca la continuità

Antonio Vermigli: i problemi hanno un perché, gli impoveriti della storia

Sergio (Quarrata): essere di esempio, sentirsi responsabili

Pietro Masina: i giovani sono bravi a trovare risposte, occorre insegnare a fare le domande giuste. Dare un senso è il compito della Rete

mattina 14 novembre

Testimonianze a partire da alcuni interrogativi: la Rete è mai stata colonialista?

Video del collettivo SE a partire dal progetto in Repubblica Centrafricana

Intervista a Richard Kitienge, riportata da Nadia

  • La profondità del “senso delle cose” come identità culturale resiliente alle mutazioni della “agency”

Video di Josè Nain sulla situazione dei Mapuche in Cile

  • Gli accordi con la corona spagnola (i trattati che preservavano l’autonomia mapuche)
  • Le forme di identità attraverso la festa e i simboli cosmici (la bandiera “cosmica” dei Mapuche, l’albero sacro, il gioco collettivo del palin, la casa comunitaria)

La situazione di Haiti (da un filmato)

Discussione sul “konbit”, termine haitiano-creolo per indicare una forma tradizionale di lavoro cooperativo comunitario, ritmato da canti, tramite il quale tutti le persone di una comunità si aiutano reciprocamente a preparare i loro campi.

Antonio Olivieri, Associazione “Verso il Kurdistan”

Come è nata l’associazione: Incontro con Ocalan e con Dino Frisullo (che per la sua solidarietà aveva sperimentato le carceri turche)

  • 40 milioni di abitanti sparsi in 5-6 stati. Unica cultura medio-orientale che offra uno spazio significativo alle donne
  • La richiesta dei curdi non è più indipendenza politica, ma autonomia reale e riconoscimento della lingua
  • Il ruolo del colonialismo: ad esempio il confine turco-siriano corrisponde al tracciato della ferrovia Konya-Bagdad, costruita dai tedeschi. Cizre è un nodo strategico di questa ferrovia e spiega i bombardamenti ai danni di questa città abitata da curdi (uno dei progetti dell’associazione riguarda proprio Cizre, oggi semi-distrutta e sotto il controllo delle truppe turche)
  • Altri progetti: adozione a distanza di famiglie di detenuti politici
    • Progetto Berfin (bucaneve) per il sostegno scolastico delle ragazze
    • Ospedale nel territorio degli Yazidi

Per concludere un saluto curdo: “ti porto sugli occhi” (“ser cha ua”)

La lotta dei braccianti di Castelnuovo Scrivia

Problema locale di sfruttamento di braccianti marocchini, uso del caporalato da parte della proprietà, presidio di 74 giorni con tenda ai bordi della strada.

  • ma anche problema strutturale: riguarda l’intera filiera agro-alimentare

Il problema dell’emergenza abitativa (pur in presenza di case confiscate alla mafia, in questo momento inutilizzate)

Antonio Vermigli

Il movimento Sem Terra, intervento di Joao Pedro Stèdile (in portoghese)

Dall’accampamento all’assentamento (organizzazione più stabile di occupazione della terra, con produzioni agricole e sistema di vendita al dettaglio a costi accessibili per le popolazioni più povere)

  • La scuola del movimento Sem Terra
  • La politica da sola non basta: i movimenti popolari sono essenziali alla crescita della società, perché arricchiscono il dibattito di idee.
  • I “santi” di riferimento: Antonio Gramsci e papa Francesco

Pietro Masina

Occorre fare attenzione ed evitare idealizzazioni, la ricerca di una identità non ha sempre un valore positivo, talvolta è alla radice dei nazionalismi. In tutte le tradizioni popolari ci sono meccanismi di esclusione (spesso di marginalizzazione delle donne). Incontrare le comunità locali spesso significa incontrare i capi (maschi) della tribù dominante. Stedile ci ricorda che dobbiamo anche fare un’analisi di classe dei movimenti popolari.

Filomeno Lopes, conclusioni in due riprese, intervallate da un dibattito

Le grandi sfide sono oggi quelle delle idee. Le identità tradizionali che sono sopravvissute hanno accettato la sfida del confronto con le idee dei colonizzatori ed hanno assorbito una parte della cultura occidentale, mettendosi in dialogo/contrapposizione.

  • Abbiamo troppa fretta di parlare
  • Sentirsi parte integrante di quello che si sta dicendo
  • Desidera il benessere del tuo vicino prima che i suoi lamenti ti impediscano di dormire” (proverbio dei Bambara del Mali)
  • La mano che riceve sta sempre sotto
  • La luna cala e cresce: una civiltà non può essere sempre crescente. Così anche i movimenti come la Rete. Occorre accettare la ciclicità
  • La cultura occidentale è stata grande quando ha avuto un sogno
  • Gli europei bianchi sono gli unici a ritenersi nella storia: importanza di proporre diversamente la storia a scuola.

Al dibattito hanno offerto un contributo (difficile da sintetizzare in poche righe):

Monica Armetta, Paolo Guglielminetti, Fabiano Ramin, Teresa Gavazza

Caterina Perata, Antonio Vermigli, Giovanni Esposito (per voce di Marco Zamberlan)

Ercole Ongaro, Maria Picotti, Pier Pertino, Clotilde Masina

 

MATERIALI:

Come si specchiano nell’oggi e nel domani i valori fondanti della Rete?

Carla Grandi   Lettera

Ercole Ongaro   Relazione

Matteo Mennini   Video

Filomeno Lopez   Video

 

Visione della realtà globale e nuove frontiere geopolitiche

Pietro Masina   Video

Colonialismo e de-colonialismo

Caterina Perata   Video

Josè Nain   Video

Situazione di Haiti   Video

 

Ascolto dei movimenti

VideoAntonio Olivieri   Relazione

Josè Pedro Stèdile    Video     Traduzione

 

Conclusioni a cura di Filomeno Lopes

Audio parte 1

Audio parte 2

L’INFORMAZIONE AI TEMPI DEL WEB – TRA LIBERTA’ E CONTROLLO

STEFANO DRAGHI

1. GLI SVILUPPI DELLE NUOVE TECNOLOGIE DELL’INFORMAZIONE E DELLA COMUNICAZIONE

Da 70 anni è in corso una rivoluzione microelettronica che ha miniaturizzato i circuiti elettronici e moltiplicato la velocità di elaborazione dei computer. Secondo la celebre legge di Moore, negli ultimi 50 anni la velocità dei microprocessori è raddoppiata ogni 18 mesi. Un tasso di sviluppo formidabile che negli ultimi anni si è avvalso anche del calcolo parallelo. Una tecnologia fino a poco tempo fa riservata ai grandi computer per uso scientifico e militare, oggi disponibile in tutti gli smartphone.

Anche nel campo delle reti di comunicazione, la crescita è stata spettacolare soprattutto con l’introduzione delle reti digitali a pacchetto che hanno sostituto le reti (analogiche) a commutazione di circuito. Internet, la rete delle reti, è basata su questa tecnologia. Fibra ottica e reti mobili digitali hanno coperto l’intero globo con una trama connettiva con velocità e affidabilità impensabili fino a poco tempo fa.

La digitalizzazione delle informazioni, prima numeri e testi, poi suono e immagini, ha riunito nella tecnologia informatica settori industriali prima separati, come editoria, musica, fotografia, cinema e televisione. E ha indotto forti cambiamenti di tipo organizzativo in tutti i settori economici. Questo processo, noto come convergenza digitale, ha cambiato in profondità gli equilibri economici, anche internazionali, e determinato una forte concentrazione di potere nelle nuove grandi aziende high-tech.

Lo smartphone è il simbolo perfetto di questo sviluppo. E’, come ha detto A. Greenfield, “un impressionante capolavoro tecnico racchiuso in un involucro di appena qualche millimetro di spessore”. In virtù di ciò che è in grado di fare e degli oggetti che è in grado di sostituire e rendere superflui, non può che essere considerato come qualcosa di assolutamente stupefacente. Non solo, nella misura in cui – in linea di principio – può connettere tra loro miliardi di persone e tutta l’intelligenza collettiva del genere umano, esso incarna qualcosa che è dell’ordine dell’utopia.

La società della conoscenza, che questi sviluppi hanno contribuito a far crescere, reclama lavoratori e cittadini che quelle tecnologie sappiano utilizzare e manipolare. È sotto gli occhi di tutti il ritardo del nostro sistema scolastico, con conseguenze pesanti sul futuro dei giovani e dell’intero sistema Paese.

Sviluppi ancor più recenti hanno ulteriormente arricchito e reso più complesso lo scenario delle tecnologie disponibili.

a) I Big Data, o il “nuovo petrolio”, come sono stati chiamati. Ognuno di noi, usando un qualsiasi apparato elettronico, produce ogni giorno una grande quantità di informazioni. Tutto ciò che facciamo viene registrato e monitorato e alimenta il software che ci profila come utenti, consumatori e cittadini. Questo enorme patrimonio di dati è la risorsa di base del nuovo “capitalismo di sorveglianza” i cui protagonisti sono i giganti del web.

b) L’intelligenza artificiale (IA). L’informatica tradizionale è in grado di risolvere problemi anche molto complessi di cui però deve essere noto l’algoritmo risolutivo. L’IA va oltre e cerca soluzioni a problemi non traducibili in procedure predeterminate e ha sviluppato metodologie per trovare soluzioni anche non “programmate”. L’apprendimento automatico è una delle tecniche di IA che hanno fatto più progressi in questi ultimi anni. Alimentato dalla grande quantità di dati disponibili, il machine learning addestra la macchina a risolvere problemi di cui non esiste una soluzione algoritmica. Famosi sono gli esempi di Watson, il sistema IBM che ha battuto tutti i più grandi maestri di scacchi, e di AlphaGo, il programma di DeepMind (Alphabet) anch’esso diventato campione assoluto e incontrastato nel gioco del Go. L’IA è dunque in grado di riprodurre in maniera sempre più affidabile e verosimile molti dei comportamenti tipicamente umani, non solo in ambiti governati dalla logica e dalla razionalità, ma anche in settori in cui creatività, cultura e esperienza dell’uomo sembravano al riparo da ogni tentativo di riproducibilità. La robotica, umanoide e non, è il campo in cui più visibili sono gli sviluppi dell’IA, e maggiori le preoccupazioni per le conseguenze nel mondo del lavoro. E i progressi sono stati e saranno assai rapidi proprio perché le macchine sono in grado di imparare molto più velocemente dell’uomo.

c) Internet delle cose (IoT). Le nuove connessioni di rete (ad es. il 5G) permetteranno di far dialogare tra loro gli oggetti. Molti oggetti che abbiamo in casa saranno dotati di microchip, parleranno fra di loro e governeranno gran parte delle nostre azioni quotidiane. Dovremo abituarci a pensare agli oggetti come computer. E già ora possiamo pensare a un’auto come a un computer con delle ruote, che parla con tutti i suoi “simili” che incontra per strada. O a un frigorifero come a un computer che tiene in fresco il cibo. Con l’IoT non solo gli oggetticomunicheranno tra loro, ma invieranno informazioni alle grandi centrali di raccolta, alimentando e facendo crescere ancor più i big-data. Così la colonizzazione della nostra vita quotidiana sarà pressoché completa. Anche per questo è urgente che ai nostri ragazzi sia fornita una adeguata capacità critica sulle nostre azioni quotidiane.

d) Le tecnologie immersive (realtà virtuale) che permettono di avere esperienze quasi dirette indossando opportuni visori che isolano l’utente dal resto del mondo e la realtà aumentata (come i Google Glass) che arricchisce ciò che ci circonda con tutte le informazioni disponibili in rete. Ma chi garantisce che quello che vedo attraverso la visione virtuale sia una visione realistica di ciò voglio vedere?

e) La blockchain: una tecnologia informatica che sostituisce i registri centralizzati con registri distribuiti per garantire la sicurezza dei dati. Un solo registro è molto più vulnerabile. Moltiplicando i registri, a migliaia, si rende praticamente impossibile manipolare i dati.

f) La stampa 3D, ovvero la possibilità di ognuno di fabbricare da sé gli oggetti che desidera, confezionandoli in modo originale o personalizzando modelli già disponibili. Sarebbe davvero una grande rivoluzione, sia nel mondo della produzione che in quello della distribuzione. Un processo che però diversi fattori (tra cui in primo luogo i costi) hanno contribuito a frenare, nonostante un vivace movimento di “makers” e la disponibilità online di molti già in forma digitale e pronti per la stampa 3D.

2. SPERANZE E PROMESSE

Come altre tecnologie anche quelle digitali hanno fatto promesse e creato speranze.

  1. Il mito della tele-democrazia. Nasce negli USA negli anni ‘50 con la TV via cavo, prima tecnologia interattiva che permetteva il dialogo tra emittente e ricevente e apriva dunque le porte con lo sviluppo delle reti digitali alla partecipazione dei cittadini alla vita della comunità. Prometteva la riduzione della distanza tra governati e governanti, un’amministrazione più trasparente, meno intermediazioni e un governo più collaborativo. Qui ha le sue radici il mito della partecipazione diretta individuale e poi della democrazia diretta, mito denominato scherzosamente di “Lochness” per ricordare che di democrazia diretta tutti ne parlano da tempo, ma nessuno l’ha mai vista. Molti ancora ci credono, ma la sua realizzazione appare assai problematica, anche con le moderne piattaforme software per la partecipazione.

3. L’utopia della Silicon Valley. Nasce negli anni ‘60 con le prime contestazioni studentesche in California, per superare il vecchio sistema accademico e quello delle relazioni interpersonali. Gli studenti e il Free Speech Movement (FSM) rivendicavano il diritto alla libertà di espressione e alla libertà accademica e c’era tra loro chi pensava che le nuove tecnologie dovessero essere messe a disposizione di tutti come fonte di libertà e di benessere per tutti. Sulle sue orme il Free Software Movement ha fatto una grande battaglia per il software aperto e gratuito (open source) che ha avuto grandi meriti e successi, ma non è riuscito a ostacolare la concentrazione in poche grandi imprese monopolistiche del mercato delle tecnologie e della comunicazione digitale.

4. La comunicazione globale. Come ha detto uno dei fondatori di Twitter (cito a memoria), “pensavamo che permettere a tutti di parlare con tutti facesse superare le barriere tra culture, etnie e religioni … la gente si confronterà e si capirà e il mondo sarà migliore. Non è andata così”.

5. La Rete ha però avuto un ruolo molto importante: è stata la rete dell’indignazione (come diceva Manuel Castel, un importante sociologo spagnolo), della protesta e della speranza. Ricordiamo tutti le primavere arabe, nel 2010-2011, quando, grazie alle nuove tecnologie da poco introdotte in quei paesi, i giovani si riunivano nelle piazze per chiedere la fine dei regimi, del dispotismo, della corruzione, più libertà, più democrazia, ecc. E’ stata la prova del contributo che le nuove tecnologie della comunicazione avrebbero potuto dare ai processi democratici. La storia non è andata come quei giovani speravano, in Siria, in Libia, in Tunisia, nello Yemen, in Algeria, in Egitto. Se pensiamo a quante promesse quelle nuove tecnologie portavano con sé e alle attuali condizioni di quei paesi, il raffronto è impietoso.

3. GLI EFFETTI POLITICI

C’è una vasta letteratura sugli effetti perversi delle nuove tecnologie. Gli effetti positivi li conosciamo tutti, i vantaggi della rapidità delle comunicazioni sono ad esempio straordinari. Ma vorrei soffermarmi qui sugli effetti negativi soprattutto di tipo politico, che negli ultimi anni hanno creato grande preoccupazione.

Come già visto in precedenza, le tecnologie interattive non hanno affatto aumentato la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica. Cerchiamo di capire perché. Innanzitutto perché le reti ed i mezzi di comunicazione hanno aggravato il fenomeno preesistente della delegittimazione della classe politica, un processo che va avanti da molti decenni perché anche prima dell’avvento delle nuove tecnologie, il livello di prestigio della classe politica andava lentamente scemando. I sessantottini sono stati la prima grande generazione che non andava a votare perché rifiutava già la casta che faceva i suoi interessi e non quelli dei cittadini.

La democrazia rappresentativa si è indebolita perché c’è stato un forte processo di disintermediazione. I cittadini pensavano che, grazie a queste nuove tecnologie potessero direttamente decidere sulle grandi questioni del paese. Il mito della democrazia diretta in cui ogni cittadino dice cosa vuole fare (la TAV, i vaccini…) perché ormai autorizzato a pensare quello che vuole e fare come crede, senza intermediazioni, dunque senza l’autorità e la mediazione del pensiero competente. Pensiamo al caso recente del medico ucciso perché il marito della paziente deceduta aveva letto su internet che la terapia decisa dal medico era sbagliata.

La democrazia diretta è anche alla base del populismo e questo mito porta la gente a pensare di poter decidere anche su questioni molto complicate pur non avendo alcuna competenza. Alcune forze politiche si avvantaggiano del populismo grazie all’uso spregiudicato dei mezzi di informazione. I social network non hanno dunque incrementato le occasioni di dialogo informato, piuttosto hanno diviso e segmentato le opinioni pubbliche in tanti piccoli sottogruppi, divisi uno dall’altro, ognuno diviso nella sua bubble, in cui ognuno incontra e parla solo con coloro che la pensano come lui, ed hanno disimparato a confrontarsi con i fatti ed in marniera informata sulle grandi questioni.

L’opinione pubblica tende a radicalizzarsi, come mostrano ad esempio le ricerche americane sulle opinioni politiche dei democratici e dei repubblicani. Nel 1994 lo spazio comune, d’intesa, tra elettori democratici e repubblicani era ancora piuttosto esteso, con un’area di sovrapposizione che rappresentava la base delle possibilità di dialogo e di confronto pacato. Vent’anni dopo, nel 2014, quell’area si è fortemente ristretta ed i due elettorati ora sono quasi completamente divisi. Questo effetto di radicalizzazione è in gran parte dovuto al fenomeno della chiusura nella bolla individuale propria dei social network, dove ognuno continua a parlare solo con chi la pensa nello stesso modo. Meno capacità di compromesso e di sintesi: gli individui non sono più in grado di fare sintesi ma solo di più contrapposizioni, più odio. Questo è un elemento che mina alla base la democrazia perché senza una sintesi tra opinioni diverse non c’è più governo, ma c’è un litigio perenne tra le forze politiche.

Uno dei pilastri della democrazia, l’opinione pubblica, viene progressivamente demolita e i cosiddetti watch dog (cani da guardia), cioè gli organi che avrebbero dovuto controllare ed essere portavoce delle opinioni dei cittadini (la stampa, le agenzie indipendenti, i centri di ricerca, le commissioni di garanzia), tutti coloro che avrebbero dovuto svolgere una funzione di controllo del potere, sono diventati dei lap dog, cioè dei cani da grembo, da compagnia, e soggiacciono docilmente ai grandi poteri economici e politici.

L’infiltrazione del processo fondamentale delle democrazie, la campagna elettorale. I social media violano continuamente le regole delle campagne elettorali e costituiscono una delle più grandi “entità criminali” che agiscono senza controllo per determinare l’esito delle elezioni. Lo ha dimostrato in modo impeccabile Carole Cadwalladr, la bravissima giornalista inglese, che ha spiegato come Facebook abbia influito sulla vittoria del sì alla Brexit. E non è difficile ipotizzare che operazioni simili siano state condotte in Italia in occasione del referendum del 2016, delle elezioni politiche del 2018 e forse in altre occasioni. Le infiltrazioni russe nella campagna per le presidenziali americane o il caso Cambridge Analytica sono altri due esempi molto noti di contaminazione della campagna elettorale.

3. COSA SI PUO’ FARE

Si può fare qualcosa, ma le soluzioni non possono essere solo tecniche. Non si può combattere la dittatura dell’algoritmo e dei social network solo con piattaforme e algoritmi più sofisticati, in base a una sorta di feticismo tecnologico secondo cui “se c’è un problema ci sarà un’app capace di risolverlo”. Vediamo in breve cosa si potrebbe fare.

1. E’ una stupidaggine pensare di risolvere tutto semplicemente chiudendo internet. Non si eliminano le automobili perché inquinano, si usa meno l’auto e si producono auto ecologiche. Bisogna cambiare regole e qualcosa sta già cambiando nella comunità europea. Per esempio il nuovo regolamento di recente entrato in vigore (GDPR) va in questa direzione. Altro che sovranismo. Per fortuna che c’è l’Europa.

  1. Combattere il falso con la verità. Quando le cose non sono vere è necessario che anche i protagonisti dell’informazione dicano che non sono vere. L’imparzialità è la prima condizione per sventare la falsità. E poi partire dalla realtà. Come è stato ben detto e ricordato più volte, se qualcuno sostiene che sta piovendo e altri dicono che non è vero, c’è un solo modo per un giornalista di appurare la verità: aprire la finestra e vedere se fuori piove. Oppure pensate ai titoli dei giornali e dei Tg il giorno dopo una manifestazione di piazza. Il numero di partecipanti varia clamorosamente a seconda dei promotori e dei loro sostenitori politici, dei loro oppositori, delle forze dell’ordine e così via. Eppure stimare con buona precisione il numero di partecipanti è molto facile con le foto e con Google Maps.

In democrazia la verità è un diritto, perché la democrazia, come dicevano gli antichi, è verità al potere. E dunque l’eclissi della verità è eclissi della democrazia (ma sappiamo anche che in politica, da Machiavelli in poi, la menzogna può far parte dei mezzi per arrivare ad un fine utile). Lo ribadisce la ricerca, come quella condotta due colleghi dell’Università di Milano, Franca D’Agostini e Maurizio Ferrera, che sono arrivati a definire sei “diritti aletici” (dal greco aletheia=verità), di cui ognuno di noi è titolare solo perché fa parte di una società democratica. Questa battaglia per la verità è il cuore della guerra contro la destra populista e pre-fascista, che della menzogna fa un uso massiccio e spregiudicato.

  1. I diritti della rete sono veri e propri diritti. C’è una carta dei diritti (Stefano Rodotà) preparata dal nostro Parlamento e c’è un arcobaleno dei diritti che spettano ad ogni cittadino per il fatto di essere in rete. All’università di Milano il corso di Tecnocivismo (tenuto da Fiorella De Cindio e Andrea Trentini) insegna a comprendere e esercitare questi diritti: 1. Diritto all’accesso; 2. Diritto al servizio universale; 3. Diritto ad un’educazione consapevole su come si usa la rete; 4. Diritto ad usufruire di servizi pubblici e privati; 5. Diritto alla trasparenza 6. Diritto ad essere informati; 7. Diritto ad essere ascoltati e consultati in tutte le decisioni che ci riguardano; 8. Diritto alla partecipazione e ad un coinvolgimento attivo nelle scelte politiche e amministrative.

L’inventore del Web, Tim Berners Lee, uno scienziato inglese del CERN di Ginevra, ha capito che la sua creatura svolge ben altre funzioni rispetto a quella originaria per la quale l’aveva progettata, cioè permettere a tutti i computer del mondo di collegarsi fra di loro. E’ nata così l’idea di sviluppare un progetto che si chiama SOLID, l’idea di una rete nuova che restituirà a tutti i singoli cittadini la proprietà dei loro dati e riconoscerà a ad ognuno i diritti che gli spettano in quanto cittadino di una rete democratica. Spetta a noi il compito di sostenere la battaglia che l’inventore del web sta conducendo per limitare i guasti che il modello di business che domina la rete sta producendo.

4. Bisogna superare il dogma della gratuità dei dati: gran parte della comunicazione è inutile ed odiosa ed è necessario tornare a pagare l’uso del web (l’e-mail, le ricerche su google ecc.) ed i soldi ricavati da chi può permettersi di pagare, potrebbero essere utilizzati per sostenere progetti come quello di Tim Berners Lee che permettono agli utenti di riappropriarsi, con la proprietà dei dati, delle loro stesse identità.

5.Difendersi dagli algoritmi e rompere i monopoli dei giganti digitali. Non significa chiudere Facebook, ma dividerlo in tanti pezzi in modo che non sia più un monopolio. Bisogna che i grandi player del mondo digitale siano semplicemente responsabili, cosa che oggi non sono o sono solo in parte, come dimostra la storia di Facebook. E’ necessario che le funzioni pubbliche tornino sotto il controllo di soggetti pubblici. E non come avviene adesso che la censura, ad esempio, su ciò che può essere o non essere pubblicato su Facebook venga deciso dal team di Facebook, secondo regole e criteri stabiliti di volta in volta da un’azienda privata.

6. Va dunque cambiato il modello di business dei social network, l’uso dei dati va retribuito, va combattuto l’anonimato, internet va regolamentata, il web decentralizzato, vanno separate Facebook, Google e tutte le loro controllate, così come a suo tempo sono stati divisi i monopoli telefonici negli USA. Roosevelt dichiarò illegali 146 monopoli ed eravamo nell’America democratica. Così come sono state divise le più grandi compagnie petrolifere, con grande scandalo della destra. Le radio e televisioni oggi vivono di concessioni governative e dunque sono obbligate, in qualche modo, a rispettare regole stabilite dall’autorità pubblica e svolgere anche una funzione di tipo pubblico. Perché i social network non sono soggetti ad alcuna concessione governativa, pur occupando uno spazio pubblico enorme?

La sinistra e tutte le forze progressiste non hanno trovato ancora una loro modalità di stare in rete. La destra invece ha messo in campo una grande quantità di attori digitali e di troll che creano disinformazione, aizzano i progressisti gli uni contro gli altri, generano conflitti, ostacolano il dialogo alimentando quella guerra di cui Putin è il comandante in capo, e il suo cavallo di battaglia lo smembramento dell’Europa. Solo nella campagna americana del 2016 sono stati creati 10 milioni di tweet finti, 1000 video su youtube, 100 mila foto su instagram, 60 mila foto su facebook, creati ad arte da troll russi. Ecco come ha vinto Trump, il candidato anti-europeista che serviva a Putin.

Non è chiaro perché non abbiamo saputo reagire per tempo a tutto questo. Mentre nessuno, in Italia, ha pensato di organizzare il nuovo partito digitale della sinistra. La sinistra ha con la rete un rapporto molto particolare e cioè, come si dice, “usa la coda lunga”: sta in rete per sopravvivere, non per diventare l’esercito che combatte la battaglia per la democrazia, la libertà, la giustizia. La sinistra si accontenta di sopravvivere, vendendo le sue idee ad una nicchia del mercato politico digitale, mentre il suo avversario ha un esercito, molto ben organizzato e dotato di armi potenti, capace di parlare a vaste platee popolari.

La sinistra dovrebbe imparare a parlare ai milioni di “pollicini”, come li ha definiti Michel Serres in un delizioso libretto. Sono i tanti ragazzi e i tantissimi adulti che hanno sotto i loro pollici – che sfiorano il touchscreen dello smartphone – il più grande patrimonio di informazioni che mai l’umanità abbia avuto. Sono loro, ma soprattutto le pollicine, i soggetti della terza grande rivoluzione pacifica, quella, dopo la scrittura e la stampa, del digitale. Il compito della sinistra è insieme semplice e gigantesco: trasformare quella infinita palude di informazioni in dati e conoscenza utile per cambiare il mondo.

GRUPPI DI LAVORO – SINTESI GRUPPO 1 (COORDINATO DA FULVIO GARDUMI)

Come introduzione al lavoro di gruppo viene letta una pagina del libro di Alessandro Baricco “The Game” (Einaudi, 2018), in cui l’autore sintetizza in 8 punti le criticità del “sistema” nato dalle tecnologie digitali unite all’intelligenza artificiale, alla robotica e alla telefonia cellulare e satellitare, quello che lui appunto chiama “Game” (videogioco). Baricco elenca queste criticità per poi contestarle, ma la sintesi è ritenuta molto buona e centrata:

  1. Nato come un campo aperto capace di redistribuire il potere, il Game è diventato preda di pochissimi “giocatori”, che praticamente ingoiano tutto, sovente alleandosi (Google, Facebook, Amazon, Microsoft, Apple…)
  2. Più diventano ricchi, più questi “giocatori” sono in grado di comprarsi tutto, in un circolo vizioso che è destinato a farne delle potenze smisurate. La cosa più rischiosa è che si stanno comprando tutta l’innovazione, cioè il futuro: fanno incetta di brevetti e sono gli unici che hanno le risorse finanziarie enormi che servono per investire sull’intelligenza artificiale
  3. Parte di questi profitti sono originati da un uso disinvolto e forse astutamente consapevole dei dati che noi lasciamo in rete: la violazione della privacy pare sistematica, e sembra essere il prezzo da pagare per i servizi che quei “giocatori” ci mettono a disposizione gratuitamente. A quanto pare la regola è questa: quando è gratis, quello che stanno vendendo sei tu
  4. Un’altra parte di questi profitti è data da un semplicissimo meccanismo: quelli non pagano le tasse. O almeno: non tutte quelle che dovrebbero
  5. C’è un traffico di idee, di notizie e di verità che è diventato un mercato vero e proprio e che nel Game patisce il monopolio di pochi “giocatori” particolari: il sospetto è che se volessero orientare le nostre convinzioni non avrebbero poi così tanti problemi. Probabilmente già lo fanno
  6. Qualunque fosse l’intenzione originaria, quel che poi il Game ha prodotto è un’immensa frattura tra adatti e meno adatti, ricchi e poveri, forti e deboli. Forse nemmeno il capitalismo classico, nella sua epoca d’oro, aveva distribuito ricchezza in modo così asimmetrico, ingiusto e insostenibile
  7. A furia di distribuire contenuti a prezzi irrisori, se non gratuitamente, il Game finisce per realizzare un genocidio degli autori, dei talenti, perfino delle professioni: il lavoro di un giornalista, di un musicista, di uno scrittore, diventa merce che vaga nel Game producendo profitti che però non tornano indietro all’autore, ma spariscono per strada. Chi guadagna non è chi crea, ma chi distribuisce. Fallo per un bel po’ di anni, e per trovare un creativo dovrai andare a cercarlo in capo al mondo
  8. A furia di perfezionarsi nel confezionare giochi che risolvono problemi, c’è da chiedersi se non si sia generato un vago effetto narcotico, con cui il Game tiene buoni soprattutto i più deboli, instupidendoli quel tanto che basta per non fargli registrare la loro condizione sostanzialmente servile.

Gli interventi dei partecipanti al gruppo sono numerosi (tutti intervengono) e toccano diversi aspetti del tema del Seminario, in base alle relazioni ascoltate nei due giorni di lavori.

A. Considerazioni sul tema in relazione alla nostra attività di Solidarietà internazionale

Occasioni come questo Seminario ci fanno riscoprire la solidarietà internazionale tramite il web. Quando abbiamo incontrato Freire che ci ha presentato la pedagogia degli oppressi, o Zanotelli che ci parlava di Korogocho, abbiamo messo in pratica i loro insegnamenti con la controinformazione, i boicottaggi, le raccolte di firme, gli incontri, i convegni. E abbiamo avuto dei risultati. Dobbiamo continuare a farlo, utilizzando i “loro” strumenti, come dice la Zuboff. Lo abbiamo sempre fatto ma a partire da oggi lo possiamo fare in modo forse più competente.

Dobbiamo re-imparare a essere umani dalle popolazioni che lottano per la loro liberazione, con metodi che possono insegnare molto anche a noi.

Anche molte reti locali, se non avessero ad esempio Whatsapp, non potrebbero avere contatti con i referenti dei vari progetti in paesi con cui è difficile comunicare. Spesso questo è l’unico modo per mantenersi in relazione.

C’è però un grosso problema con i referenti di progetti in corso in paesi dominati da dittature, perché possiamo metterli a rischio. E’ necessario proteggere anche loro. E’ successo anche con un progetto (in Congo): sono stati rubati i cellulari dei referenti e chi li ha rubati ha potuto avere accesso a tutto quello che avevano scritto, ai contatti, agli incontri, alle informazioni.

B. Considerazioni sulla relazione di Giorgio Gallo “Capitalismo della sorveglianza”

Il “Basta” invocato da Soshana Zuboff alle degenerazioni del sistema come lo diciamo? Con quali strumenti, in che modo? Uno dei modi possibili per reagire a certe derive del controllo sarebbe forse quello di introdurre forme di pagamento dei contenuti attualmente veicolati gratis. Se è tutto gratis, vengono usati i nostri dati come pagamento. Ma chi può costringere questi colossi del web a far pagare i contenuti? Il vero problema è che manca il controllo di qualsiasi autorità in grado di intervenire. E poi è difficile far pagare i contenuti: chi li pagherebbe? La gente è contenta che sia tutto gratis.

In realtà un tentativo è stato fatto a livello europeo con l’approvazione recente (26 marzo 2019) da parte del parlamento europeo e poi del Consiglio dell’Ue (15 aprile 2019) di una “Direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale”, che prevede, tra l’altro, la possibilità per gli editori di chiedere il pagamento per l’uso di brevi frammenti di testo che i siti web a scopo di lucro utilizzano. La Direttiva è stata molto controversa: 145 organizzazioni nei settori dei diritti umani e digitali, della libertà dei media, dell’editoria, delle biblioteche, delle istituzioni educative, degli sviluppatori di software e dei fornitori di servizi internet hanno firmato una lettera di opposizione a questa proposta, ritenendola lesiva della libertà di parola online. Una petizione su Change.org ha raccolto 5 milioni di firme. Invece favorevoli alla Direttiva erano: editori e case discografiche, società degli autori, creatori ed artisti. Le multinazionali del web, in particolare Google, hanno speso milioni di dollari in attività di lobbying in Europa contro questa legge. Gli eurodeputati sono stati sommersi da maree di mail. Qualcuno ha anche denunciato minacce esplicite. In Italia, favorevoli alla legge sono stati anche i sindacati Cgil-Cisl e Uil e il sindacato dei giornalisti Fnsi, contrari allo sfruttamento economico dei lavori creativi operato dalle piattaforme multinazionali. Tra i partiti italiani, favorevoli alla legge il Pd e Forza Italia, contrari il M5S. Ora il problema principale sarà la conversione in legge di tale direttiva da parte dei vari governi dei Paesi membri dell’Ue.

Molti interventi si richiamano all’invito della Zuboff a recuperare le relazioni umane. Nei nostri rapporti con gli altri, occorre rivalutare la dimensione umana, il riconoscimento dell’altro, le relazioni interpersonali, che spesso non coltiviamo più, neanche tra amici, parenti, vicini. Oggi si tende a scontrarsi spesso sul poco che ci divide anziché valorizzare quello che ci unisce.

Questo sistema, questa “rete”, non la possiamo battere sul suo terreno. Dobbiamo lavorare su un altro terreno, quello delle relazioni umane. E’ importante usarli questi strumenti: ci sono campi in cui non ci possono controllare. C’è un candidato alle Europee nel Veneto che si presenta con un unico slogan: “per una Europa umana”. Dobbiamo recuperare i rapporti tra le persone, anche se sembra che si stia tentando di chiudere le stalle quando i buoi sono ormai scappati. Con queste nuove tecnologie il rapporto umano sparisce. Fa piacere che la Rete abbia deciso di approfondire questo tema.

Una nota positiva: un gruppo parrocchiale sta cercando di “ricostruire comunità”, non solo tra i parrocchiani, ma con tutti. E’ stata chiamata una docente dell’Università di Firenze a parlare di come i ragazzi utilizzano i nuovi strumenti tecnologici. Lo smartphone è la loro terza mano: il compromesso è utilizzare bene questa terza mano. Questi incontri che puntano a ricostruire comunità attraverso i rapporti umani diretti e a superare la comunicazione fatta solo attraverso i social è l’unica strada per tentare di reagire all’omologazione.

E’ importante incontrarsi fisicamente, di persona, ma anche saper usare la rete. Bisogna ricucire, ad esempio, le lacerazioni che ci sono state in passato con altri gruppi con cui collaboravamo. Non può essere fatto tutto attraverso il web. E poi occorre vincere le paure, che ci rendono più manipolabili. Anche nella nostra Rete ci sono tante persone che un tempo erano molto attive mentre oggi tendono a isolarsi. Dobbiamo sforzarci di tornare agli incontri. E’ vero che spesso c’è poco tempo, soprattutto per chi lavora. Ma è importante trovare il tempo per cercare la verità.

B. Considerazioni generali sul tema da parte del gruppo

Questo Seminario è stato molto utile per aiutarci a capire. Le soluzioni non sono né facili né a portata di mano. Si possono creare gruppi di persone competenti che aiutino gli utenti a diventare critici.

Dobbiamo auto-educarci continuamente sul discorso della critica al sistema, come abbiamo fatto negli anni ’70. Questo passaggio epocale è un’altra occasione per togliere libertà e democrazia ai cittadini, solo che questo avviene con strumenti nuovi e molto potenti. Il problema è come reagire. Occorre acquisire consapevolezza. E poi lavorare, fare controinformazione con gli strumenti che abbiamo, creare gruppi critici.

Questo lavoro di controinformazione e di critica lo possiamo fare assieme ad altri gruppi con cui come Rete collaboriamo.

Al termine di questi due giorni di Seminario da una parte ci sentiamo un po’ sollevati perché abbiamo avuto più informazioni, dall’altra è aumentata la preoccupazione per la consapevolezza delle manipolazioni cui siamo sottoposti. E’ importante informare su quello che sta accadendo per compiere un primo passo sulla via della consapevolezza e della ripresa di potere. La democrazia sembra compromessa. Come si può ricostruire? Ci sono cose da fare subito, altre da proseguire nel tempo, con costanza. La prima è la denuncia di quello che succede, facendo informazione, educazione, con particolare attenzione ai giovani, che passano da un social all’altro con grande velocità ma con poca capacità di riflessione. Fa piacere vedere i giovani attivi per il clima, ma sarebbe bene se si attivassero anche su questi temi. Dobbiamo costruire anche reti web di informazioni attendibili per far loro capire la differenza tra reti credibili e no. Dobbiamo allargarci e costruire reti a livello nazionale e internazionale.

Bisogna cercare di recuperare informazioni in rete, ad esempio su Pandora Tv, che però non è sempre affidabile, per cui è importante trovare fonti serie alternative. Nella sua relazione Orlowski ci ha detto che può aiutare la nostra Rete ad avere informazioni corrette, ad esempio utilizzando #facciamorete.

Bisogna ricostruire reti di “lillipuziani”, di tanti piccoli utenti della rete che messi insieme possono fare la differenza. Ad esempio, anche Banca Etica ti indirizza alle casse automatiche, che sono la negazione dei rapporti umani interpersonali. Si deve allargare l’opposizione a questa schiavitù delle macchine, che sembrano fatte per semplificarti la vita, mentre invece alla fine ti controllano e inaridiscono le relazioni umane. Le nostre Reti hanno rapporti diretti con i propri referenti: è una cosa fondamentale.

Non tutti hanno il cellulare e questo rischia di isolarti. Ad un recente incontro con il presidente del Commercio Equo internazionale erano presenti solo 15 persone, invitate attraverso i canali classici. Invece alla presentazione del libro di una scrittrice palestinese c’erano 200 persone, perché la libraia aveva diffuso l’invito attraverso Facebook. Demonizzare questi strumenti non serve, dobbiamo utilizzarli, come è stato fatto nelle “primavere arabe”, che senza questi mezzi non ci sarebbero state. Durante il fascismo e il nazismo non c’erano questi strumenti, ma c’erano altre forme di propaganda, molto efficaci, come ad esempio il cinema.

Anche la politica ormai fa le campagne elettorali attraverso i telefonini: per questo chi non ha il telefonino non riceve alcuna informazione.

Infine è stata avanzata la richiesta di una sintesi di quanto emerso in questo Seminario da diffondere a tutta la Rete, in modo da poterci lavorare sopra ed arrivare al prossimo Coordinamento con qualcosa di propositivo.

GRUPPI DI LAVORO – SINTESI GRUPPO 2 (COORDINATO DA PIERPAOLO PERTINO)

La generale sensazione è uno “sconforto e smarrimento diffuso” ma il tema del Seminario è risultato essere assolutamente centrato e fondamentale per la consapevolezza e conoscenza della comunicazione con strumenti digitali.

La profilazione non è una novità del nostro tempo. Tutti i “non allineati al sistema” sono stati da sempre, in qualche modo, segnalati e schedati.

Siamo in un sistema comunque totalitario ma, rispetto al passato, oggi è difficile dare un volto al dittatore. E’ tutto molto meno delineato e tutto più sfuggente.

Il nome, senza volto, del dittatore dei nostri tempi è il “Mercato”, un nemico subdolo difficile da combattere [ne nasce una discussione sulla attuale efficacia di mercato equo – solidale, consumo critico e boicottaggi mirati].

Considerazioni sul tema in relazione alla nostra attività di Solidarietà Internazionale :

  1. Miglioramento della comunicazione con i nostri referenti locali.
    Con le nuove tecnologie digitali è possibile far circolare informazioni, praticamente, in tempo reale. Oltre al tema della sensibilizzazione e della informazione reale con la frequentemente quotidiana ne guadagna anche condivisione e relazione con referenti locali e tutti coloro che lottano per la realizzazione di un loro progetto.

  2. Il problema della sicurezza di dati e informazioni e della sicurezza della persona in relazione ai nostri referenti locali.

Sulla base delle profilazioni e di quanto ascoltato in questo seminario ci si pone il problema della sicurezza fisica delle persone che svolgono un certo tipo di attività. Alle nostre latitudini il problema non è considerata a rischio la nostra incolumità fisica quanto piuttosto “credibilità e reputazione “. Attraverso l’uso di fake news e false informazioni è letteralmente possibile fare a pezzi una persona. Es. la campagna di discredito mirata su Padre Mussie Zerai, ns testimone al Convegno 2016 della Rete ma in generale ciò che sta avvenendo oggi nei confronti del mondo del volontariato e delle ONG.
Per i nostri testimoni e referenti locali (almeno in certi luoghi ad es. l’Africa) c’è invece un concreto rischio di sicurezza fisico della persona.

Considerazioni generali sul tema da parte del gruppo :

1. Strumenti possibili di contro – informazione per opporsi alla circolazione di eventuali false informazioni e fake news
Nessuno del gruppo è in grado di dare una risposta ma viene comunque auspicata la realizzazione di giornate come questa che formino e coscientizzino su ciò che sta accadendo. Altra possibile via è la cura della qualità della relazione interpersonale. La conoscenza diretta difficilmente può essere incrinata da fake news generiche circolanti.

2. Come identificare le fake news e come reperire informazioni certe dal web. Esigenza emersa in varie fasi del confronto. Da tenersi in considerazione come argomento per eventuali altri incontri.


3. I contenuti di questo Seminario devono arrivare ai giovani.
I giovani sono la categoria che maggiormente usa strumenti digitali perciò quella che andrebbe maggiormente sensibilizzata agli effetti collaterali degli stessi. In questo senso il lavoro nelle scuole e nelle università è fondamentale. Si auspica la formazione di una equipe, formata e competente che possa veicolare con maggiore facilità contenuti di questo tipo. E’ fondamentale sostenere le nuove generazioni e fargli respirare un clima di fiducia e collaborazione in contro tendenza ai cupi scenari di paura e puro individualismo sostenuti in questo periodo. Il miglior servizio che possiamo render loro è:

Renderli consapevoli del proprio percorso nel loro tempo

4. “Come mai le destre stanno maggiormente usando per comunicare l’uso degli strumenti digitali”.
Difficile rispondere a questa domanda. Vengono riportate alcune impressioni di Draghi, ascoltate ad un Seminario a Milano, in cui veniva ribadito che la sinistra non ha riconosciuta la priorità del tema della comunicazione digitale ed è abissalmente indietro rispetto all’utilizzo che ne fanno le estreme destre. Quella digitale è considerata una vera e propria battaglia in cui ogni spazio concesso risulta esser una sconfitta. Discredito e fake news sono uso comune. Non è facile combatterle ed orientare l’opinione pubblica con sistemi legali e metodi etici.

GRUPPI DI LAVORO – SINTESI GRUPPO 3 (COORDINATO DA GIORGIO GALLO)

Il gruppo era formato da persone provenienti da diverse reti locali, età media abbastanza alta ma con qualche presenza (relativamente) giovane. La valutazione del Seminario da parte di tutti i componenti del gruppo, anche se con qualche distinguo, è stata molto positiva: argomento interessante e stimolante che ci ha messi di fronte a una realtà di cui non si aveva tutti consapevolezza.

Sono emersi diversi temi che riportiamo sinteticamente.

Riprendendo anche le parole del libro di S. Zuboff, che sono state molto apprezzate, si è detto che bisogna impegnarsi a livello locale per creare reti di vera amicizia e vere comunità; questo vale soprattutto con riferimento ai giovani. Sempre su questa linea si è insistito sul fatto che il lavoro nelle scuole deve essere prioritario per la Rete. In questo si inseriscono i seminari giovani che andrebbero ripresi. Si è parlato anche della necessità di lavorare con le famiglie: le reti familiari possono aiutare i giovani sempre più inseriti nel mondo dei social. C’è il rischio, è stato detto, di essere trasformati antropologicamente.

E’ importante non lasciare cadere il discorso affrontato nel Seminario, riprendendo e approfondendo ulteriormente le ricadute politiche di quanto abbiamo visto, e in particolare, qualcuno ha aggiunto, i rapporti tra internet, democrazia e pace.

E’ stata molto sostenuta la necessità di contribuire a diffondere e sviluppare lo spirito critico: informarsi bene, ma anche leggere i messaggi e le notizie fino alla fine, non fermandosi alle prime righe, e sviluppare l’autonomia di pensiero.

E’ stato detto che è importante partecipare a iniziative che non organizziamo noi, collaborando con altri gruppi. Va accettato il fatto che non sarà necessariamente possibile avere un ricambio generazionale.

Arrivano troppe informazioni si è detto: come fare? Ricordare sempre che troppa informazione equivale a nessuna informazione; da qui l’importanza di imparare a usare in modo sobrio le diverse chat alle quali partecipiamo.

Il più giovane del gruppo ha detto che questa era la sua prima esperienza con la Rete e l’ha trovata molto interessante. Ha invitato a far emergere una generazione di attivisti digitali che combattano le fake news e a stare molto attenti a chi controlla i nostri dati.

Ad esempio ha ricordato che l’INPS ha affidato, con regolare appalto, a un privato come l’IBM la gestione di tutti i nostri dati. Altri hanno parlato dell’importanza di lottare contro la privatizzazione della rete promovendo sistemi/piattaforme pubbliche per accedere al web e raccogliere dati.

GRUPPI DI LAVORO – SINTESI GRUPPO 4 (COORDINATO DA MARCO ZAMBERLAN E MARIA MINNITI)

Per rompere il ghiaccio abbiamo fatto prima un giro di presentazioni con prime impressioni a caldo.

Stella di Associazione Sportiva e Cultura di Vicenza ci ha riportato una sua esperienza di un viaggio recente a Roraima in Brasile, raccontandoci di quanto i giovani indios fossero influenzati dalle politiche di Bolsonaro veicolate attraverso il cellulare che è presente anche in quelle realtà ai margini della foresta, e di quanto credessero a quelle politiche ancorché a loro sfavorevoli.

Ci si è soffermati cosi sul senso di impotenza e depressione di fronte allo strapotere delle notizie non controllabili alle fonti, ribadendo quanto sia importante la conoscenza, non ritirarsi ma approfondire. Stupisce questa inesistenza del peso della Politica alta, anche delle politiche di sinistra che non riescono a dare risposte serie ed unitarie alla manipolazione economica e sociale in atto. Ci si interroga anche sulla possibilità di conoscere più approfonditamente la legislazione italiana in merito, anche se purtroppo i movimenti e le notizie dei social sono transnazionale e non rispondono in maniera diretta alle leggi nazionali.

Persino in carcere dove i social non sono presenti perché i cellulari non sono ammessi, e la televisione è l’unico canale di informazione transitano le false notizie.

Francesca ci sollecita però a diffondere il bello. Soprattutto come RRR a tenere vivo il nostro sito, aggiornarlo, magari a rendere partecipi altre persone attraverso il canale Youtube…Ci ricorda che i giovani vivono con senso di passività tutta la vita politica, che il singolo non ha la sensazione di incidere nel mondo, si sente depotenziato dalla rete anche se collegato all’universo intero.

Ma come incidere e dare continuità in questo mondo social? Spesso usato solo per recuperare vecchie amicizie o crearne di nuove, sembra non avere alcun appoggio nella vita politica reale, anzi c’è anche la possibilità che veniamo tracciati, registrati e schedati per ogni opinione espressa. È preoccupante. Soprattutto perché i luoghi di incontro tra persone diminuiscono, le stesse biblioteche un tempo teatro di scambio di cultura sono ormai in dismissione, la ricerca di un argomento non è più un percorso personale tra i libri ma digitale e pilotato dai grandi gruppi di informazione, spesso attraverso algoritmi di interesse.

Tutto è legato alla velocità di fruizione, tutto è accelerato. Cosi anche la fiducia è stata esasperata e distorta, perché tutto è pubblico, il senso di intimità e di privato tende a scomparire, così come la libertà di scegliere. Le informazioni su di noi, sul nostro modo di vivere, diventano il nuovo petrolio, venduto alle multinazionali per pubblicità spesso non richieste ed invasive. Quindi è importante mantenere un atteggiamento diffidente ed una formazione critica sulle fonti, perché il rischio è l’omologazione.

Ecco quindi la necessità di creare degli anticorpi capaci di resistere con il pensiero e la rielaborazione alla facile manipolazione mediatica, cambiare l’atteggiamento verso il modo di apprendere, perché la realtà è dispersiva. C’è bisogno di mantenere le relazioni tra persone e la capacità di dialogo perché questa modalità possa rimanere e diventare di nuovo voce e stimolo per una nuova politica.

 

 

Convegno nazionale 2018

La solidarietà non è reato: reSIstiamo umani

INTERVENTO DI GHERARDO COLOMBO

Chissà quanto ci sarebbe da dire sul tema della solidarietà! Secondo me è un tema che o si risolve in due parole o c’è bisogno di un trattato. Cominciamo dalla definizione. Sappiamo di cosa parliamo quando parliamo di solidarietà? Intendo proprio la definizione della parola. Che cos’è la solidarietà?

Pubblico: Aiutare il prossimo.

E qui si pone subito il problema: chi è il prossimo?

P: E’ l’umanità.

E chi ci sta nell’umanità?

P: Io non sono d’accordo sulla parola “aiutare”.

Perché?

P: Io sono d’accordo con la parola ”condivisione”, con la parola “scambio”. La parola “aiuto” mi fa pensare a qualcuno che dà e qualcuno che riceve; sono d’accordo con “condivisione”, “scambio” di quello che ciascuno ha da dare all’altro.

Condivisione, solidarietà: sì, certo, ci sta! Andiamo un pochino oltre. Solidali con chi? Secondo me questo è il problema. Per riuscire a capirci: solidarietà è reato; può esistere un reato di solidarietà? Il nostro codice penale, per esempio, prevede un reato di solidarietà. Il favoreggiamento personale unisce chi è solidale nei confronti di chi ha commesso un reato. Chi aiuta chi ha commesso un reato è solidale o no? Compie un gesto di solidarietà o no?

P: No!

Perché no? Attenzione, le parole sono importanti!

P: La solidarietà con gli ebrei!

Dopo le leggi razziali del 1938 chi ha aiutato gli ebrei commetteva reato o no?

P: Era la legge del tempo!

La legge del tempo, la legge di oggi… Attenzione! Se Lei fosse oggi negli Stati Uniti d’America e si trovasse a decidere se consegnare alla giustizia una persona già condannata alla pena di morte, la consegnerebbe perché venga eseguita o avrebbe dei problemi a farlo? Eppure è una legge di oggi. Il fatto è che noi dobbiamo stare un pochino attenti a distinguere la legalità dalla giustizia.

P: In Italia c’è il reato di omessa solidarietà. Ad esempio, in caso di una persona travolta per strada…

Si chiama omissione di soccorso. E attenzione, non ci è chiesto di soccorrere solo chi è vittima, siamo tenuti a soccorrere chiunque, anche chi ha provocato l’incidente, anche chi ha torto. O pensiamo che la solidarietà sia un dovere soltanto nei confronti di chi ha un comportamento che condividiamo? Per parlare del reato di solidarietà in realtà bastano due parole: solidarietà e riconoscimento. Se io sono solidale solo con chi riconosco, be’ allora… io sono solidale col mio prossimo, ma chi è il mio prossimo lo decido io! Basta, non c’è più niente da dire, tutti hanno ragione: hanno ragione quelli che dicono: “Ma guarda quello lì che dà da mangiare a chiunque viene qua!”, così come ha ragione quello che dice che si deve dare da mangiare a tutti. Si tratta appunto della dimensione del riconoscimento. Quanto più riconosco, tanto più si allarga lo spettro della solidarietà, nel senso della misura della solidarietà. Quanto meno riconosco, tanto più si riduce la misura della solidarietà. Attenzione perché è una cosa nuova, nuovissima quella che è scritta nell’articolo 2 della nostra Costituzione (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo“), perché il mondo è andato avanti sempre a solidarietà estremamente ristretta. Pensiamo ad esempio alla solidarietà tra maschio e femmina, ancora adesso! Allora, io penso che questo tema “la solidarietà non è reato” sia un tema che non riguardi tanto gli altri, ma che riguardi noi, ciascuno di noi. Siamo abituati a dire: “Guarda quelli come sono disgraziati, non sanno essere solidali!”, ma guardiamo piuttosto in quale misura noi stessi siamo disposti ad essere accoglienti, altrimenti non facciamo nemmeno mezzo passo avanti. Usiamo il paradigma del nemico: io posso essere solidale nei confronti del mio amico, ma non sono solidale, anzi sono aggressivo e respingente nei confronti del mio nemico. E’ esattamente la logica di chi dice: “Ma perché dai da mangiare a quello lì?”. E’ dentro di noi la questione della solidarietà: quanto più riconosciamo, tanto più siamo solidali. Ma facciamo fatica! Riconosciamo il migrante, sì, certo, ma riconosciamo un po’ meno il migrante che per sopravvivere fa dei piccoli furti. Se poi per sopravvivere entra per rubare in casa nostra, comincia a essere diverso. Non abbiamo tutti quanti una scala di solidarietà? Questo sì, questo un po’ meno, questo ancora meno. Non è con l’essere umano che siamo solidali, ma con quell’essere umano, e va a finire che lo decidiamo noi con quale essere solidali. Più che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è la nostra Costituzione che se ne è curata, chi l’ha scritta, magari con qualche incertezza, con qualche titubanza, ma ha pensato a questo. E che l’ha pensato lo capiamo proprio se guardiamo alla Costituzione come sistema. Comincia dall’articolo 1, ma sotto il profilo del contenuto comincia dall’articolo 3, e precisamente da quella parte dell’articolo 3 che noi generalmente dimentichiamo: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”, cioè tutte le persone, per il fatto che sono persone, sono degne. Attenzione, tutte sono degne, tutte. Qui c’è già tutta la Costituzione, o no? Sarebbe interessante andare a vedere la 12^ disposizione di attuazione della Costituzione: “E’ vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48 sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista”. Ciò significa che oggi questi limiti al diritto di voto e alla eleggibilità non ci sono più perché tutti i cittadini hanno pari dignità sociale. Capite a cosa arriva? Questa è una rivoluzione, assolutamente pacifica, ma è una rivoluzione rispetto a ciò che esisteva prima. Articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Le discriminazioni ci sono ancora oggi. Pensiamo alla discriminazione di genere, a quella religiosa. Pensiamo alla discriminazione politica: chi ha scritto la Costituzione alla 12^ disposizione dice “5 anni”, poi basta. E chi è in prigione? Quante persone sono convinte che chi ha commesso un reato debba essere degradato! Perché obbligare alla sofferenza vuol dire degradare. La Costituzione rovescia il modo di stare insieme. Ma la Costituzione ha 70 anni, li ha compiuti l’1 gennaio, e 70 anni rispetto alla storia dell’umanità che cosa sono? Niente! E allora fa di più la storia di millenni rispetto a quello che fa la storia degli ultimi 70 anni! Ma attenzione, fa di più anche per noi, che per autodefinizione facciamo parte dei buoni. E’ da questo punto di partenza che deriva tutto il resto, reato di solidarietà, la solidarietà è bene o è male: tutto deriva dalla considerazione che abbiamo per chi non è d’accordo, dalla considerazione dell’altro inteso proprio come colui che non ha la stessa appartenenza, sotto tutti i profili, genere, etnia, religione. E lì è dove si fa fatica. Siamo un pochino tutti colpevoli di reato di solidarietà nel momento in cui non accettiamo le persone con le quali non siamo d’accordo. E allora facciamo a meno di scandalizzarci che altri commettano reati di solidarietà perché la differenza sta nello stare da questa parte piuttosto che dall’altra. Quanta solidarietà esiste con coloro che escludono l’altro? Pensiamo alla nostra storia, noi siamo diventati stato in questo modo, al prezzo dell’esclusione dell’altro. E allora bisogna riuscire a capirla questa Costituzione, perché se riusciamo a capirla entriamo in un’ottica che ci mette sulla strada del lavorare su noi stessi per riuscire a testimoniarla: è una cosa difficile per ciascuno di noi, perché la cultura è cultura, quello che abbiamo dentro ci è stato tramandato praticamente da sempre. Non si tratta di genomi, non si tratta di DNA, si tratta proprio di educazione. Pensiamo com’era l’Italia 40, 50 anni fa, e vediamo come la solidarietà e la Costituzione c’entravano poco con la mentalità corrente. Pensiamo ai disabili: non erano “visibili”, andavano tenuti “nascosti” perché diversi, e c’era collegato a questo un qualche calvinistico senso di colpa, erano il segno della lontananza da Dio.

P: La legge sull’integrazione scolastica dei disabili è del 1977.

Solo negli anni ‘70 sono state fatte la riforma del diritto di famiglia, la riforma dell’ordinamento penitenziario. E si è arrivati fino ad un certo punto, poi è prevalsa la cultura e si è tornati un po’ indietro. La legge può esistere, ma poi può essere applicata o può non essere applicata. Esistono delle leggi che sono applicate ed esistono delle leggi che non sono applicate. E abbiamo proprio l’esempio clamoroso della nostra Costituzione, che esiste e non è applicata, dal cittadino molto spesso, però a volte anche dalla magistratura. Perché tutte le volte che esiste conflitto fra la cultura e la legge, a perdere è la legge. Non c’è niente da fare, tutte le volte che il sentire comune dei cittadini non coincide con la legge, la legge non trova applicazione. Hai voglia a dire che tutti hanno uguali dignità, e poi scopri che una donna che svolge le stesse mansioni lavorative di un uomo guadagna anche il 30% in meno. Fino al 1975 il Codice Civile sotto la rubrica “autorità maritale”, e il titolo già la dice lunga, diceva che il marito è il capo della famiglia: altro che articolo 3 della Costituzione!

P: Don Rito cosa faceva di fronte alle ordinanze del sindaco che vietavano di dar cibo e ospitalità ai migranti a Ventimiglia? Non le osservava.

Di fronte ad un conflitto si hanno due possibilità: o si obbedisce alla legge mettendo da parte il proprio senso di giustizia oppure si obbedisce al proprio senso di giustizia e ci si assume la responsabilità di non osservare la legge. Come si è giunti in Italia all’abrogazione del servizio di leva obbligatorio? Ha cominciato qualcuno a dire che si rifiutava di fare il servizio militare perché per lui ammazzare una persona sarebbe stata la cosa peggiore che potesse succedergli e fare il servizio militare senza imparare ad ammazzare le persone è impossibile. Ma non fare il servizio militare era reato, perciò quella persona andava in prigione. E quando usciva dopo un paio d’anni, siccome la chiamata alla leva era valida, mi pare, fino ai 45 anni d’età, quella persona subiva un altro processo e andava in prigione un’altra volta. Questo fintanto che non si sono decisi e accanto al servizio militare hanno introdotto il servizio civile. Per introdurre il servizio civile è stato necessario che cambiasse la finalità del servizio. Pensate a don Milani, pochi anni prima soltanto era stato processato per la sua lettera ai cappellani militari.

P: Abbiamo sempre bisogno di martiri?

Abbiamo bisogno di testimoni, e i martiri sono i testimoni. Siamo noi che cambiamo le cose; nella vita, se vogliamo andare avanti, le cose dobbiamo farle. Ma perché possiamo fare le cose è necessario anche che abbiamo le idee chiare. E non si dica che la solidarietà è una bella cosa, però con chi sono solidale, chi riconosco, lo decido io! E il nostro paese, poveretto, è in difficoltà sotto questo punto di vista, basta vedere il numero dei partiti politici che abbiamo, ci si distingue anche solo per una virgola: ciò dimostra l’esistenza di un’estrema difficoltà a riconoscersi. Nonostante la Costituzione, anzi, direi a dispetto della Costituzione, siamo molto più disponibili a non riconoscerci piuttosto che a riconoscerci. La Costituzione dà l’idea del riconoscimento universale, mi chiede di riconoscere che tutti i cittadini hanno pari dignità, e tutti i cittadini vuol dire tutte le persone, e poi vi riferisco il meccanismo attraverso il quale io posso sostenere che qui cittadini vuol dire persone.

P: Ma ci sono limiti rispetto a chi devo riconoscere dignità? Quando la dignità umana può essere ridotta?

Mai, mai! Quella persona che in Norvegia ha sterminato più di 70 giovani sta in carcere, non per tutta la vita, e sta in un carcere nel quale la sua dignità è rispettata. Mai! Questo è un principio che non può essere messo in discussione. Per la verità la Costituzione in un articolo, il 22, lo mette in discussione quando dice che “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”. Questo implica che nome e cittadinanza per motivi non politici possono essere persi, cancellati. E’ una particolarità non in linea con tutto il resto della Costituzione, però c’è.

P: Nel caso dell’articolo 2, secondo il quale la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, possiamo certamente dire che la legge è più avanti della cultura. Come dobbiamo comportarci nei confronti di coloro che non rispettano l’articolo 2? Noi sappiamo che stanno per essere elette persone che non rispettano l’articolo 2, abbiamo il diritto di opporci?

Abbiamo il diritto di opporci, abbiamo tutta una serie di diritti, ma questi diritti vanno esercitati tenendo conto che chiunque va rispettato.

P: Come si fa a perdere il nome?

Fino alla riforma del 1975 i detenuti erano chiamati per numero; credo che negli Stati Uniti d’America succeda ancora così. E pensiamo ai malati in ospedale, o peggio ai campi di sterminio. In Italia ci sono diversi pensieri sul tema dei diritti: provate a pensare qui dentro, tra di voi, che pure costituite un’assemblea di persone solidali perché appartenete tutti alla Rete, quanti opinioni diverse ci possono essere sul tema della fine vita. C’è sicuramente tra voi chi pensa che è giusto che uno decida sulla propria fine vita, e c’è sicuramente anche chi invece pensa che sia da vietare che uno decida in ordine alla propria vita. Sono cose serie. Torniamo alla dignità. Dignità vuol dire riconoscibilità, vuol dire identificazione dell’altro nella stessa natura di sé. Siccome noi in genere ci consideriamo degni, ci piace essere rispettati, ci sentiamo importanti, banalizzando possiamo dire che tutti i cittadini sono importanti tanto quanto me.

P: Per quanto riguarda il diritto al lavoro ci sono vari modi di interpretare la legge. C’è chi si permette di licenziare, chi nella stessa situazione riammette al lavoro…

La Costituzione è un sistema, tutto è legato naturalmente, perciò andiamo all’articolo 4 che dice che “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Cosa vuol dire? Che il diritto al lavoro non si ha naturalmente, è complesso, ha bisogno che esistano le condizioni grazie alle quali la gente trovi da lavorare, è necessario che ci si attivi per fare in modo che esista il lavoro. Problema non semplice, in nessun paese al mondo credo ci sia l’occupazione piena, 0% di disoccupazione. La Costituzione si preoccupa anche di non essere eccessivamente teorica, tiene conto delle situazioni concrete. Torniamo infatti all’articolo 3, che afferma che tutti hanno pari dignità e le loro peculiarità (genere, lingua, religione…) non possono essere causa di discriminazione: poiché esiste tutta una serie di ostacoli che si oppongono a rendere vero ciò che è detto nella prima parte dell’articolo, si aggiunge che è compito della repubblica, cioè di tutti noi, di ciascuno di noi, rimuovere quegli ostacoli. E’ importante che giungiamo a condividere la Costituzione, perché in realtà la condividiamo fino ad un certo punto: siamo disposti ad essere solidali sì, ma solo con chi ci piace, non con tutti, cioè non riconosciamo tutti come degni allo stesso modo. Ad esempio fatichiamo a riconoscere la dignità di chi commette reati odiosi, di chi ha idee sociali estremamente diverse dalle nostre, e così via. Dunque, dicevo, per condividere la Costituzione chiediamoci perché l’hanno scritta ancor prima della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, perché a chi l’ha scritta è venuto in mente di rovesciare una direzione millenaria, ultramillenaria, che aveva avuto peraltro delle affermazioni di una pesantezza eccezionale. Pensiamo alle leggi razziali, che in Italia sono state scritte nel 1938: neanche 8 anni dopo hanno cominciato a scrivere la Costituzione. Non tutti si erano indignati per le leggi razziali, tanti ne hanno tratto vantaggi, anche qualche padre della patria, della democrazia era stato contento di guadagnarci una cattedra universitaria prima occupata da un ebreo.

P: Solidarietà verso chi? L’articolo 3 parla di tutti i cittadini. E i non cittadini? Nella percezione comune cittadino è solo chi ha la cittadinanza.

La percezione comune va resa meno superficiale. Per la Costituzione cittadini sono tutte le persone. Andiamo coi piedi di piombo: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, dice l’articolo 3, ma subito prima l’articolo 2 aveva detto che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, non del cittadino, dell’uomo.

P: Non la donna!

Di questa precisazione linguistica allora ancora non ci si curava. 11 mesi dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, scritta in inglese, parla di essere umano. Se noi scrivessimo la Costituzione oggi al posto di “tutti i cittadini” metteremmo “tutti gli esseri umani” o “tutte le persone”. Nella Costituzione stessa, comunque, ci sono altri passi che confermano che il senso da dare alla parola “cittadini” è quello di “persone”. All’articolo 13 si dice che la libertà personale è inviolabile, non la libertà dei cittadini; al 14 che il domicilio è inviolabile, non il domicilio dei cittadini; al 15 che la corrispondenza è inviolabile, e poi al 32 che la tutela della salute è fondamentale diritto dell’individuo, e al 43 che la scuola è aperta a tutti. Le differenze riguardano pochissime cose, la più evidente riguarda il voto. Facendo un bilancio complessivo vediamo che “cittadino” corrisponde a “persona”. Nell’articolo 10 è scritto che “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Capite come non esiste differenza: se lo straniero a casa sua ha tutti gli stessi diritti che abbiamo qui, è uguale al cittadino; se per caso a casa sua non ha gli stessi diritti, lo accogliamo, ha il diritto di essere accolto. Tutto questo conferma che per cittadino si intende persona, essere umano.

Torniamo indietro: ci stavamo chiedendo perché chi ha scritto la Costituzione si è permesso di rovesciare il sistema che ha sempre retto il mondo, compreso quando hanno fatto la rivoluzione francese. E’ stato un guardare al passato e insieme un guardare al futuro. Nel giro degli ultimi 20, 30 anni c’erano state due guerre mondiali, quanti milioni di morti, e quanti invalidi, quanti senza lavoro, quante case distrutte, e che fame! Certo, anche la Shoah, ma io credo che ad impressionare maggiormente le persone che vivevano a quel tempo sia stata la bomba atomica. A quasi tutti noi la bomba atomica non ha cambiato la vita, quando sono nato la bomba atomica c’ era già. Noi sentiamo di tante morti terribili dovute a siccità, maremoti, vulcani, carestie, e la bomba atomica è una disgrazia come ce ne sono molte altre. Alle persone di quel tempo invece la bomba atomica ha cambiato il futuro: prima non c’era, all’improvviso invece si scopre che esiste un’arma talmente potente da fare quello che nessun’arma fino ad allora aveva saputo fare. Per quanto impegno ci abbiano messo gli Alleati a lanciare bombe su Berlino, se andate ora a Berlino trovate edifici costruiti prima della guerra ancora in piedi, e quanti berlinesi si sono salvati! A Hiroshima e Nagasaki invece… Nel Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani si dice che essa è stata scritta anche considerando che “il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità”. Essa poi inizia con una specie di parafrasi dell’articolo 3 della Costituzione Italiana. La nostra Costituzione, a parte quel dettaglio che vi ho citato dell’articolo 22, ha una coerenza estrema al suo interno. Per esempio, l’articolo 27, a proposito del riconoscimento della dignità di tutti, dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Alla luce di questo articolo io personalmente ho qualche perplessità sul regime carcerario 41 bis, ma certamente altri hanno perplessità contrarie e adducono esigenze di sicurezza; io però dico che queste esigenze di sicurezza devono essere contemperate. L’articolo 13, che esordisce dicendo che “la libertà personale è inviolabile”, aggiunge che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”: violenza fisica e psicologica, la parola violenza viene usata qui per la prima e unica volta in tutto il testo della Costituzione. Allora capite come sia importante, quando si parla di solidarietà, uscire da degli schemi limitati, altrimenti continuiamo ad opporci e non riusciamo a trovare una soluzione. La soluzione secondo me si trova attraverso un cammino necessariamente di mediazione, ed è lì il problema, quello di essere capaci di uscire dalla logica secondo cui solidarietà va insieme con la parola “parte”. Solidarietà non ha limiti, però i limiti glieli mettiamo noi. Pensiamo a Gesù che va in casa di Zaccheo, il più odiato da tutti. Ancora noi ci misuriamo coi lavoratori dell’ultima ora…

P: Come faccio ad essere solidale con una persona che ha commesso crimini odiosi ed è stata condannata? Come faccio a essere solidale con Riina?

Io sono di quest’idea anche nei confronti di Riina, ma lei può pensare quello che vuole, io non la giudico, ho passato la mia vita ad emettere sentenze. Se la logica è quella di cui abbiamo parlato, io non posso dire che siccome Riina nella sua vita ha commesso le più grandi nefandezze lui in carcere ci muore. Nel momento in cui le sue condizioni di salute sono tali per cui non è più pericoloso, devo rispettare la sua dignità. Ci sono due articoli del codice penale che prevedono la sospensione obbligatoria e la sospensione facoltativa della detenzione.

P: Concordo su ciò che ci siamo detti, che legalità e giustizia sono due concetti che non sempre vanno d’accordo, che la solidarietà non deve avere limiti, ma io vorrei che non si uscisse da questa stanza senza dire che il fascismo non è un’opinione, e quindi lì un limite lo poniamo.

Una cosa secondo me essenziale è separare i fatti dalle persone: il fascismo è una cosa terribile, però le persone che sono state fasciste continuano ad essere persone. Martin Buber, ebreo, si è battuto chissà quanto perché Ben Gurion commutasse la pena di morte inflitta ad Eichmann in ergastolo. Questo significa distinguere il fatto da chi l’ha commesso, indipendentemente dalla circostanza che chi ha commesso il fatto si sia ravveduto. Ma Eichmann è stato condannato a morte. Io, Gherardo Colombo, non posso dire: “Sono contrario alla pena di morte, ma…”, dico: “Sono contrario alla pena di morte” e basta! Perché la dignità della persona sta qui.

Don Rito Alvarez

Per chi a Ventimiglia si occupa un po’ anche di dare una mano a passare una persona che ti chiede, tu diventi davvero uno che fa un reato.

E’ bello il titolo del convegno, ma vi dico una piccola cosa: se io andassi nella comunità?????? indigena in Colombia e dicessi: “Il reato di solidarietà…”, mi direbbero: ” Ci spieghi cosa vuol dire! Ma la solidarietà é una cosa buona! Come é possibile che diventi un reato una cosa buona che tu fai perché tu sei un umano? Perché tu hai una coscienza e perché tu ti rendi conto quando fai una cosa per l’altro, quando quell’altro é tuo fratello, chiunque esso sia… ma mi spieghi questo concetto!”

Badate che noi in questo momento dobbiamo elaborare nuovi concetti, perché se avessimo detto, a mio nonno, a mia nonna, “il reato di solidarietà…”; a casa mia, dove le porte erano sempre aperte a chiunque passasse, e siccome noi abbiamo sempre vissuto in prima persona proprio questa situazione, noi a casa nostra abbiamo aiutato chiunque; a chiunque passava davamo da mangiare a dei guerriglieri, da bere, se necessitava davamo un angolo dove dormire. Una volta é arrivato l’esercito regolare ed ha portato via mio padre, perché avevamo dato da mangiare a dei guerriglieri, ma noi non sapevamo che erano guerriglieri! L’hanno portato via tre giorni e volevano metterlo in galera. Perciò già da un po’ di tempo comincio a capire. In questo mondo in cui viviamo, dove i grandi poteri e la mancanza di buon senso, perché oggi io davvero vorrei parlarvi di coscienza, di umanità e di buon senso. ma quando noi parliamo di reato subito pensiamo che stiamo andando contro la legge e che stiamo facendo una cosa gravissima.

Pensa che noi con la Caritas il 31 Maggio 2016, vedendo centinaia di persone che erano centoottanta quella sera, che abbiamo aperto la Chiesa. Non avevano dormire e dove mangiare, la polizia li stava perseguitando, perché erano sotto un ponte, però il sindaco aveva fatto un’ordinanza di sgombero e quindi in un primo momento un sacerdote aveva aperto il salone parrocchiale ma poi non li poteva tenere lì e così la popolazione ha cominciato proprio a ribellarsi. Andavano a nascondersi di quà e di là come i topi e la polizia li inseguiva. A un certo punto si sono rifugiati anche nel cortile della caritas, dove abbiamo uno spazio molto piccolo. Mi chiama Maurizio, il responsabile della Caritas: ” Don, cosa facciamo?” Io gli ho risposto, guarda a pochi metro dal ?????? c’é la chiesa di San Bertoldo, ho degli spazi, ho due tre bagni e una cucina: accogliamoli. Quella sera del 31 Maggio abbiamo aperto le porte, ma con questo gesto di solidarietà io sono diventato un criminale per tanti della popolazione, anzi, per tanto dei miei parrocchiani, che venivano a Messa, io non sono stato più il loro parroco, ma uno che stava facendo delle cose brutte e che meritava di essere cacciato via da Ventimiglia, perché… E io non dovevo comportarmi in questo modo, anzi altri mi dicevano che avevo fatto un sacrilegio, perché mai avevo pensato di aprire gli spazi della Chiesa anche per dei musulmani. Pensate che da quel giorno che abbiamo aperto questa chiesa cominciano dei problemi seri. La prima settimana di giugno pioveva tutti i giorni, non avevano dove dormire, dormivano sul campo, nei saloni, sul sagrato, però a un certo punto ho detto.- facciamo una cosa un po’ fuori dal diritto; io tolgo il Santissimo, lo metto da parte, offro la Chiesa e faccio dormire in Chiesa almeno i bambini, le donne, i minori. Tra questi c’era anche una signora incinta che ha partorito dopo tre giorni ed un bambino di 3 anni e così via dicendo… Apriti cielo! me ne hanno detto di tutti i colori. Pensate che un giorno passava di lì una signora che di solito veniva a cantare nel coro e che veniva spesso con sua figlia e me ne ha detto di tutti i colori: -Don Rito, io spero che ti venga qualche malanno o che il Vescovo ti mandi da qualche parte, perché hai rovinato la nostra parrocchia ed hai consegnato la Chiesa ai musulmani. Ed hanno messo le voci cattive che io avevo tolto tutti i segni sacri dalla chiesa. Ed allora ho detto:- Ma perché nessuno é venuto a chiedermi chi erano quelle persone? Presentavo ???????, che aveva 3 anni, la sorella che era incinta ed ha partorito dopo tre giorni, l’altra bambina e l’altra donna, gli altri… perché per noi l’esperienza che abbiamo vissuto a Ventimiglia é stata quella; perché io pensavo: – i migranti, che a volte tu ti fermi a guardare i social, ti fermi, guardi quello che la gente scrive e cominci a pensare davvero ci sono situazioni cattive, che qualcuno sta per invaderti, che magari qualcuno uccide, qualcuno ti toglierà???????????

Quando invece ho cominciato a conoscere le persone per me non erano più migranti , erano i nomi, quando cominci a conoscere queste persone, la storia di queste persone, ti rendi conto che non é un problema, che non siamo più umani, che non abbiamo più una coscienza e allora ho cominciato ad accoglier tutti, in un momento in cui le istituzioni erano completamente assenti, quindi i migranti non avevano nessuna assistenza. Abbiamo iniziato e sono arrivate tante persone volontarie, sono arrivate tantissime persone che sono venute ad aiutarci, a chiederci di cosa avete bisogno?????????, per cominciare a raccogliere viveri. Dopo un po’ di tempo, il 15 Luglio la Prefettura ha deciso di aprire un luogo dove accogliere questi migranti, un campo, anche se ci sono dei passaggi molto particolari. A un certo punto io non ce la facevo più, é arrivata l’ASL che ha fatto un verbale che non finiva più, dicendo che io non ero in regola, che quelle aule del catechismo non erano adatte per accogliere queste persone, che c’erano pochi bagni, ecc.. Io ho detto, ci vuole proprio l’ASL per capire che nello spazio della parrocchia non possono stare mille persone e che stiamo facendo veramente i miracoli. Dopo il verbale dell’ASL mi arriva anche il verbale del comune, dicendo che io ero veramente fuori regola, che stavo violando le regole e che mi stavo comportando davvero come un cattivo cittadino. E allora tutto questo ha portato all’apertura del campo della Croce Rossa, una cosa molto bella , però per andarci occorreva fare 4 km a piedi, attraversano una superstrada senza passaggio a livello, dove dopo un po’ purtroppo alcuni sono finiti sotto le macchine, ci sono stati 3 morti. Noi abbiamo protestato. Io nella chiesa, a seguito di accordi con la Prefettura potevo accogliere le donne, i bambini, i minori non accompagnati ed i malati Tutti gli altri dovevano andare nel campo. però alcuni non volevano andare, perché vicino alla chiesa c’era la stazione ed anche l’inizio dei sentieri. Perché capite che uno che poi deve farsi 4 km per trovare qualcuno che lo passa o qualcuno che gli indica la strada. Ed allora la gente si é organizzata ed hanno detto:- Siccome ci sono alcune persone che stanno fuori, qui ci sono alcuni solidali noi andiamo a dargli da mangiare a queste persone, fuori, gli diamo dell’acqua, qualcosa da mangiare. Un giorno hanno fatto delle foto a questi che mangiavano, li hanno cariato su facebook dicendo:- guardate come i migranti hanno distrutto la nostra città. Pochi giorni dopo l’ordinanza del Sindaco: ” Reato dar da mangiare a chiunque per strada e dare da bere a chiunque”. Mi viene da piangere. Una volta sono arrivati i solidali, é arrivata la polizia ed ha fatto il verbale a tutti quanti, tutti quanti avevano violato la legge, perché avevano dato da mangiare a delle persone che avevano fame. Guardate che certe cose dovremo cercare di distinguerle e capirle bene. Tu rimani là pensare:- ma da quanto é reato dar da mangiare al povero?

Ed il Vangelo dice “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere…”

Ma la cosa più triste é vedere le persone, anche quelle che venivano a messa , dalle finestre e dai balconi gioire, oppure chiamare la polizia “Guardate che là, in quell’angolo ci sono due che stanno dando da mangiare. Ragazzi, non abbiamo coscienza, ma c’é qualcosa che non funziona, c’é qualcosa che non va nel nostro cuore, nella nostra mente e nella nostra società. Noi dobbiamo muoverci, fare qualcosa, ma questo non é normale, questo é un mondo inumano, un mondo dove non possiamo assolutamente capire!

Pensiamo che vicino alla chiesa a un certo punto io potevo accogliere quelle persone, ma dovevo dare da mangiare a quelli oltre il cancello, ma non potevo dare neanche una bottiglia d’acqua. Pensate che più di una volta ho fatto la spedizione, la polizia, perché avevano scoperto che noi, alcuni dei miei volontari avevano dato delle coperte o una bottiglia d’acqua o avevano passato un pacchettino da mangiare o magari la signora lì o però il fratello e qualcun altro era fuori, per cui di nascosto dal cancello e consegnava un pacchettino…; però il giorno dopo il comitato di quartiere : ” Don Rito, ti dobbiamo parlare. – Cosa é successo? Ieri sera guarda che i tuoi volontari hanno dato delle bottiglie d’acqua, hanno dato da mangiare ai migranti quà e là. Oh ragazzi! io dicevo.-sì. é vero, era una cosa grave? ma non sai dell’ordinanza del sindaco? Ed alla fine, cosa vuoi rispondere a queste persone? Non c’é niente da rispondere, c’é solo da metterti a piangere. E allora i solidali hanno organizzato , c’era un tubo, vi hanno piazzato un rubinetto vicino a questo posto di fortuna che hanno organizzato i solidali, dove dormivano sotto i tunnel, ferrovia e così via dicendo, noi di nascosto sempre violando la legge, davamo i sacchi a pelo, qualche materassino, ma sempre di nascosto, in sacchi neri, facendo finta che era della spazzatura, e poi loro venivano, la prendevano e potevano dormire. Pensate, se qualcuno ci sentisse e non sanno di cosa parliamo…..

E allora ecco che in tutto questo ti rendi conto che davvero la situazione é complessa. Io poi nei prossimi giorni avrò l’occasione di condividere con voi la mia esperienza, vi potrei raccontare mille cose. Ma quando tu sei dentro e cominci a conoscere le persone a conoscere queste situazioni, in italiano si direbbe “mi piange il cuore”, di rendermi conto di in quale mondo si vive. Io come sacerdote per me é una sofferenza, poi come alcune delle persone fedelissime, che venivano a messa non mi hanno parlato più perché avevo fatto una cosa grave ed ancora oggi io devo essere mandato via da Ventimiglia perché sono una persona che causa tanti danni a Ventimiglia perché incentivo la popolazione ad aiutare i migranti.

Solidarity Watch

[Chiara Pettenella]

Buongiorno a tutte e a tutti. È vero, il sito alla fine non è ancora online, ma non tarderemo. Vorremmo ringraziarvi non solo per averci invitato questo fine settimana, ma anche per la fiducia che si è espressa nei nostri scambi di questi mesi via mail, e del vostro sostegno non solo spirituale…ma anche economico.

Ci presentiamo un po’. Solidarity Watch è una squadra di quattro persone, ci manca la quarta collega, che è rimasta a Marsiglia, che è il nostro campo-base. [Solidarity watch nasce] lì, nell’estate del 2017. Siamo tutte ricercatrici, le [colleghe] francesi, e io, che sono il lato italiano. Stiamo facendo tutte un dottorato di scienze politiche all’università di Aix-en Provence, che si trova appunto vicino a Marsiglia. Il lavoro che proponiamo con Solidarity watch è un lavoro di riflessione. Perché? Perché è un lavoro in cui mettiamo in gioco le competenze che ci vengono dalla ricerca, e il fatto di essere delle persone mobili. Contrariamente a molte e molti di voi che sono attive e attivi in modo molto concreto su dei territori – locali o internazionali, non importa -, noi ci troviamo ad essere per forza di cose poco legate a un territorio in particolare. Ci spostiamo attraverso il territorio, e questa è la nostra dimensione. Queste sono le competenze che mettiamo in gioco nella costituzione di questo progetto di Solidarity watch.

Partiamo dall’inizio, dal momento in cui ci siamo ritrovate a lavorare insieme. Era il novembre del 2016. Eravamo, tanto per cambiare, una in Turchia, una a Bruxelles, le altre in Francia…quindi cominciamo a lavorare insieme via skype e via mail. Succede che un collega, ricercatore dell’università di Nizza, Pierre-Alain Mannoni, viene incriminato per aver trasportato nella sua macchina delle persone migranti, senza documenti, alla frontiera franco-italiana. Circola questa voce nelle mailing-list universitarie, e ci ritroviamo ad agire, di fronte a questa cosa: scriviamo una lettera aperta che raccoglie, nel giro di pochi giorni, più di settecentocinquanta firme, mandiamo questa lettera alla presidenza della repubblica francese, al primo ministro e al ministro degli interni francesi, per denunciare la criminalizzazione di questa persona. Per la cronaca, Pierre-Alain Mannoni è stato assolto in primo grado, poi condannato in appello a due mesi con condizionale ed è attualmente in attesa del giudizio in cassazione.

Quello che capiamo immediatamente nel novembre del 2016 è che non si tratta di un caso non è isolato, e che questa storia che si svolge alla frontiera franco-italiana ricorda storie simili che si stanno svolgendo nel nord della Francia, a Calais, in Italia, e a molte altre frontiere dell’Europa. E la moltiplicazione di questi casi ci spinge a porci due domande: la prima, molto semplicemente, quanti ne stanno succedendo di questi casi; e la seconda, che cosa questi casi di criminalizzazione di persone che hanno fatto degli atti di solidarietà nei confronti dei migranti, che cosa questi casi ci dicono della società in cui viviamo. E nasce Solidarity watch per cercare di dare una risposta a queste domande. E quello che osserviamo quasi subito è che quello che questi casi di criminalizzazione ci dicono va molto al di là della “semplice” criminalizzazione di atti di solidarietà nei confronti dei migranti, perché fanno vedere che l’attacco dei diritti delle persone, la criminalizzazione di pratiche solidali, si producono in spazi molto diversi e colpisce pratiche molto diverse: dai militanti ecologisti [mobilitati] per la difesa di certe regioni, di certe zone, al lavoro di informazione – c’è un fotografo che, poco dopo il caso del nostro collega ricercatore, è stato anche lui messo sotto processo mentre stava documentando quello che succedeva alla frontiera; [le manifestazioni in opposizione alle] violenze della polizia, agli abusi di potere… A partire da questa prima osservazione, la necessità che diventa centrale nel nostro progetto di pensare in modo desettorizzato. Se non fossimo arrivate a questa prima conclusione…il rischio era quello di riprodurre e rinforzare il discorso pro- o anti-migranti, cioè, avremmo fatto il gruppo pro-migranti, riproducendo il discorso che fa molto comodo alle destre xenofobe.

Quindi, il nostro lavoro è di ripensare la solidarietà come parola, come valore sociale, come pratica di resistenza. Ed è un lavoro che richiede una dimensione politica, che si fa in una dimensione politica. Ed è un lavoro indispensabile. Quello che diciamo noi è che una società solidale è un pleonasmo. Che cosa vuol dire? Dire “società solidale” è usare un’espressione sovrabbondante, che si forma con l’aggiunta di una parola o di un concetto che è già presente: la società è solidale, la società è legame. Diceva il sociologo francese Durkheim che la solidarietà corrisponde “a quei legami invisibili che legano tra di loro gli individui e che fanno in modo che la società resti unita”. Diceva che la solidarietà è il “cemento della società”.

Quindi parleremo, nel tempo che ci è dato, di solidarietà cercando di ricontestualizzare questa parola in modo storico; della solidarietà come pratica – quindi facendo una riflessione sull’organizzazione della solidarietà: che cosa vuol dire concretamente essere solidali nel 2018, nel mondo, nella società in cui viviamo; e poi avremo ovviamente il tempo di raccontarvi qualcosa in più proprio sulle tappe molto concrete del progetto di Solidarity watch che stiamo costruendo.

Il primo punto, dicevo, è un tentativo di ricontestualizzare la nozione, la parola solidarietà, in una prospettiva un po’ più storica, un po’ più lunga, per capire che cosa vuol dire oggi, nel 2018. Facciamo una premessa. Dicevo prima, siamo quattro ricercatrici, e stiamo facendo un dottorato in scienze politiche su temi diversi, però, ognuna di noi in realtà sta studiando – a partire da punti di vista lontani – i processi di costruzione di categorie di popolazione che dividono, creano delle frontiere all’accesso di questo o quell’altro gruppo di popolazione a determinati diritti, e sul ruolo che i governi e le istituzioni svolgano nella produzione e nella messa in atto, nella concretizzazione di queste frontiere giuridiche e amministrative. Dico questa cosa perché, per presentare la nostra riflessione, il nostro lavoro sulla solidarietà, dobbiamo per forza mostrare il legame tra queste due nozioni: “categoria” e “solidarietà”.

Allora, un pochino di storia, veramente una goccia. Guardiamo la questione dal punto di vista dello stato: la solidarietà dello stato, la solidarietà istituzionale. Lo stato sociale, nella sua costruzione, nasce come strumento che ha per obiettivo di mantenere lo status quo ed evitare le manifestazioni più estreme di disuguaglianza sociale. Il concetto di “assurance universelle” in francese – di garanzia universale – mira proprio a mantenere sotto un certo livello di rischio le disuguaglianze sociali, ridistribuendo determinate risorse. Questo ha funzionato, più o meno, finché c’è stata un’idea di stato sociale. E poi, poi arrivano le cosiddette crisi economiche, lo stato sociale si ripiega, e questa nozione di garanzia universale viene sostituita dall’idea, dalla nozione di assistenza selettiva. Perché? Perché in questo contesto, in particolare a partire dagli anni novanta, di ripiegamento dello stato sociale e di crisi economica – cioè del potere che si giustifica attraverso il discorso della crisi economica – è il modello del cosiddetto new public management che si impone nella gestione dello stato. Che cosa vuol dire? I teorici di questa teoria del new public management dicono che lo stato deve comportarsi come un’impresa privata, deve fare profitto. E quindi si comincia a selezionare sempre di più quei gruppi di persone che avranno un diritto. E si diffonde sempre di più, in parallelo – dinamica fondamentale per capire quello che diremo dopo -, si diffonde sempre di più un sistema fondato sul sospetto che queste popolazioni a cui accordiamo un certo diritto siano degli approfittatori. Visto che il new public management dice che lo stato deve fare profitto, bisogna stare attenti a distribuire il budget, queste risorse, solo a chi ne ha veramente bisogno, e quindi si va a selezionare sempre di più, sempre di più, sempre di più, delle parti sempre più fini e sottili di popolazione a cui attribuiremo queste risorse. E quindi si sospetta che i richiedenti asilo siano dei falsi richiedenti asilo – per no parlare di migranti, che in realtà sono sempre migranti economici che ne approfittano -, ma si sospetta anche che i disoccupati siano dei finti disoccupati, che chi chiede un aiuto per pagare la casa sia in realtà un approfittatore, eccetera eccetera.

Io ho detto prima che stiamo facendo di tutto, nel nostro progetto di Solidarity watch, per non restare ancorate a questa divisione pro/anti migranti. Adesso mi ritrovo a parlare di migranti: dicevo, i falsi e veri richiedenti asilo, eccetera. C’è un senso, se si parte da qui. C’è un senso perché c’è una specificità dei migranti, o meglio, c’è una specificità delle politiche migratorie. Qual è questa specificità? Le politiche migratorie sono un laboratorio, molto semplicemente, delle politiche neoliberali, delle politiche di sicurezza, delle politiche di restrizione o di negazione di diritti fondamentali, sociali, politici. Perché? Perché i migranti, come categorie che non ha voce, per definizione – pensate semplicemente al diritto di voto – sono la categoria di popolazione più facilmente attaccabile, la categoria sulla quale si possono testare delle pratiche liberticide, delle politiche liberticide. Quindi attenzione, quando si parla di politiche liberticide nei confronti dei migranti, questa cosa è uno specchio di quello che succede nelle nostre società a un livello molto più generale. La cosiddetta “crisi dei migranti” – questo non lo diciamo noi, lo dicono in tanti e in tante – è chiaramente una crisi delle nostre società.

L’ultimo punto, prima di dare la parola a Sarah. Parliamo di criminalizzazione di persone solidali, giusto? Quello che succede è che, se si pensa che delle persone assistite, che hanno – avrebbero – diritto, che hanno bisogno dell’aiuto dello stato, se si pensa che queste persone, secondo la logica del sospetto, approfittano del sistema, per forza di cosa, chi si mostra solidale con queste persone, cerca di aiutarle ad avere accesso a questi diritti è considerato come qualcuno che contribuisce a approfittare di queste poche risorse che lo stato dichiara di avere. E quindi c’è un legame molto chiaro e diretto tra la delegittimazione delle persone che chiedono l’aiuto dello stato – ancora una volta, non solo i migranti, i richiedenti asilo [, ma anche] i disoccupati, le persone che hanno bisogno di aiuto per la casa, eccetera – e la delegittimazione delle persone che si muovono, con gesti solidali di vario tipo per aiutare chi è delegittimato, chi [dovrebbe essere] aiutato dallo stato. E su questa nozione di delegittimazione e di criminalizzazione è Sarah che continua.

[Sarah Sajn]

Buongiorno. Il mio italiano non è buono, devo leggere un testo che abbimo scritto.

La questione della criminalizzazione della solidarietà, e quindi della delegittimazione di certe forme di solidarietà, solleva la questione della definizione e della forma dominante dell’organizzazione della solidarietà nei nostri paesi europei. Questa questione è profondamente politica. Ma spesso viene trattata in termini umanitari, e in modo molto settorizzato, in particolare perché ci sono delle figure professionali, dei ministeri, delle linee budgetarie, degli strumenti particolari…in funzione dei settori d’intervento dello Stato e delle categorie: migrazioni, sicurezza, ambiente, questioni sociali…

Ma è il funzionamento stesso della nostra società che è rimesso in questione, come diceva Chiara prima. Non è una questione di aspetti marginali, di settori particolari, o delle categorie di persone, perché la criminalizzazione della solidarietà tocca direttamente le regole e i criteri del nostro vivere insieme.

Per rispondere a questa sfida è quindi necessario uscire dalle categorie imposte.

È in particolar modo situandosi ai margini di ciò che è legittimo per lo stato che possiamo trovare delle forme di solidarietà che sono in rottura con le categorie imposte [e] che tendono a escludere le forme primarie di solidarietà, piuttosto che a includerle.

Alcune forme di solidarietà resistono, esistendo ai margini del riconoscimento da parte dello stato e costituiscono il terreno dove possiamo ripensare il nostro sistema di vita in comune. Ma attenzione perché si tende a pensare che delle forme individuali, auto-gestite, di solidarietà [pre-esistono] ai margini della solidarietà legittima definita dallo stato. In realtà, lo stato resta la forma più importante di organizzazione politica in Europa e continua ad avere il monopolio della violenza legittima. Questo è un punto importante della riflessione, perché lo stato controlla queste forme di solidarietà, di fatto, e ha il potere di distruggerle usando la violenza. Quello che vediamo in Francia in questi giorni è un uso disproporzionato della forza per reprimere dei movimenti sociali che tendono a convergere e a rimettere in causa le categorie [d’azione e di selezione delleapopolazione] usate dallo stato. Abbiamo studenti, degli operai; abbiamo la questione di questo aeroporto – non so se conoscete – Notre Dame de Landes [comune a 30 km dalla città di Nantes che vede una forte mobilitazione contro la costruzione di un nuovo aeroporto e in difesa della regione e dell’ambiente, violentemente repressa da parte forze dell’ordine.] Abbiamo molte forme di solidarietà che convergono e questo sembra essere un problema per lo stato.

Riprendendo le parole e la definizione di Gherardo Colombo che abbiamo ascoltato all’inizio di questo congresso: lui diceva che la solidarietà funziona su una comunità ristretta, e [attraverso l’identificazione di] un nemico; un Noi e un Loro. Dunque ci sono dei criteri per includere e escludere le persone, per definire chi merita di essere [incluso nei legami di] solidarietà. Ora, se torniamo alla questione degli “assistés” – delle persone assistite – dobbiamo chiederci chi abusa di questi legami [sociali]. Chi prende senza dare? Chi si serve delle risorse comuni per il suo proprio interesse? Chi approfitta delle risorse comuni per arricchirsi personalmente? E se guardiamo bene, non sono i più poveri, loro beneficiano – in proporzione, in volume, in euro, diciamo – poco della solidarietà. Quelli che sono i veri assistiti sono in realtà gli evasori fiscali e le multinazionali che beneficiano di tanto aiuto da parte dello stato e quindi della comunità. Ecco perché dobbiamo riappropriarci la solidarietà come nozione, come valore; ma anche riappropriarci i criteri che la definiscono. Non posso sviluppare, ma c’è sicuramente [in gioco] una questione di democrazia, alla fine. Chi decide di questi criteri?

Il nostro progetto richiede ambizione ma anche modestia. Evidentemente non pensiamo di essere le prime a pensare queste questioni, di essere più rivoluzionarie, di partire da zero. Abbiamo molti strumenti sviluppati dalla sociologia, dai partiti, sindacati, organizzazioni come la Rete…Sono in molti ad aver riflettuto sulla questione della solidarietà.

Oggi, quello che constatiamo non è facile[, ma deve farci reagire]. Le idee fasciste e le forme di solidarietà che queste idee propongono guadagnano terreno. Lo stiamo vedendo in tante elezioni in giro per l’Europa: le idee fasciste stanno ridefinendo la solidarietà, la sua organizzazione politica, i criteri identitari sui quali si fonda, cioè l’identità di gruppo. Per esempio, a marzo a Marsiglia ha aperto un centro che si chiama Bastione sociale, che si ispira all’esperienza italiana di Casapound e che propone un’azione di solidarietà nei confronti delle persone francesi, solo francesi, di cui lo stato non si occupa, in nome di quella che in francese viene chiamata la “priorità nazionale”. Usano il linguaggio umanitario che sentiamo usare dalle ONG e se non si fa attenzione, se non siamo vigilanti, sembrerebbe un discorso semplicemente umanitario.

Allora abbiamo un problema: qualcosa non ha funzionato [nelle idee] di sinistra.

Come diceva il filosofo Walter Benjamin, “dietro ogni fascismo, c’è una rivoluzione fallita”. Il fascismo si avvicina, stiamo attenti a non mancare il tempo della rivoluzione!

[Chiara Pettenella]

Concludo con due informazioni sull’evoluzione del nostro progetto.

L’idea è molto semplice. Sarebbe quella di legare le emozioni , il sentimento di ingiustizia quotidiano che tante persone vivono, a una riflessione politica [collettiva]. Questo è quello che vogliamo fare sul nostro sito di Soidarity watch che sarà ben presto online.

Come vogliamo farlo? Il fatto di cominciare dall’idea della criminalizzazione della solidarietà nei confronti migranti – anche se abbiamo detto che vogliamo uscire da questa logica di [opposizione tra] aiutare i migranti/non aiutare i migranti -, il fatto di cominciare da questo fatto, ci permetti di rimettere al centro delle cose un po’ essenziali come il diritto a mangiare, dormire, non avere freddo; poter partorire in un luogo normale anziché in mezzo alla neve attraversando le montagne; mangiare del cibo sano, bere dell’acqua pulita senza aver paura di ammalarci… I principi di base della vita! Ed è da lì che bisogna ripartire, chiaramente, per ricostruire i legami che uniscono tra di loro gli esseri umani che vivono su uno stesso territorio, che è la nostra definizione di società, indipendentemente da dove vengono. Quindi per rispondere alle domande che sollevava Sarah sull’organizzazione della solidarietà.

Sul sito, concretamente: partire dalla criminalizzazione della solidarietà significa, prima di tutto contare le persone che sono confrontate a questa delegittimazione, renderle visibili, anche per prendere coscienza del nostro potenziale di cambiamento rispetto a questi fenomeni di criminalizzazione della solidarietà – lo diceva Sarah -[, ristabilendo] dei criteri di solidarietà che non sono necessariamente quelli imposti dallo stato e che funzionano per categorie sempre più strette, sempre più sottili. Quindi ci sono tre cose che facciamo sul sito: la prima, è la costruzione di un database in cui raccogliamo nel modo più ampio possibile su scala europea i casi di criminalizzazione delle solidarietà; seconda cosa, raccogliamo testimonianze, cioè facciamo in modo di ricordare che questi fenomeni sono le storie di persone – dare dei volti e delle voci: quindi video, audio, racconti, immagini…; terza e ultima cosa, vogliamo proporre su questo sito delle analisi più concettuali, o più globali, con contributi di ricercatori, esperti, militanti, associazioni…che possono avere una visione più astratte e politica di queste problematiche.

E su questo ultimo punto concludo dicendo che vi ringraziamo tantissimo del vostro sostegno e del vostro aiuto anche economico, e che vorremmo chiedervi di partecipare. Cioè, questo lavoro che stiamo lanciando è un lavoro fatto collettivamente, [che si costruisce ]attraverso contributi – a partire da tanti punti di vista: militanti, politici, eccetera – che devono incontrarsi sul nostro sito per ridefinire la solidarietà come parola, coma valore sociale e come pratica. Abbiamo degli obiettivi grandissimi, l’utopia è la nostra parola d’ordine, e abbiamo tante piccole cose da fare. Per esempio, permettere a tante persone di tanti paesi europei di poter utilizzare la nostra piattaforma, e quindi un lavoro di traduzione di testi, di ricerca di testi in altre lingue – tutte le lingue dell’Europa… [Questo] spazio di scambio che esiterà solo se arriveranno contributi dalle persone più varie, compresi voi, quindi sentitevi assolutamente chiamati in causa.

Saremo molto felici di avere le vostre domande e commenti e vi ringraziamo molto.

Intervista a Cedric Herrou VIDEO

Cimitero di Mentone VIDEO

Migranti oltre l’accoglienza. Donne e Uomini in cammino verso l’inedito
Introduzione agli atti a cura del coordinamento
Il 26° convegno della Rete, che quest’anno si è svolto a Trevi con la partecipazione di quasi 300 persone, ha segnato un passaggio importante per la Rete, non solo per la scelta del luogo. Abbiamo infatti capito che in questo tempo fare solidarietà significa incrociare le rotte dei migranti.
Il tentativo è stato quello di assumere una prospettiva che andasse oltre la logica emergenziale, dove le parole “oltre” e “inedito”, proposte nel titolo, fossero la cifra e la chiave di lettura dei tre giorni di convegno,abbandonando così lo stereotipo che dipinge i migranti esclusivamente come vittime in balia di eventi decisi da altri. Il loro mettersi in movimento, pur in situazioni drammatiche o addirittura disperate – la ricerca di un lavoro, la fame, la povertà, la guerra – è il risultato di decisioni prese da persone che prima di tutto sono determinate a vivere: il loro spostarsi, le loro marce o il loro attraversamento del mare è prima di tutto un desiderio di vita. Per questo una delle novità più riuscite del convegno è stata quella dei lavori di gruppo del sabato pomeriggio che hanno lasciato spazio all’incontro con tutta una serie di realtà come, per esempio, la cooperativa romana Barikamà, che significa resistente in lingua bambarà, creata da giovani africani impegnati con successo nella produzione di yogurt per i proprio autosostentamento; la cooperativa pugliese Sfrutta Zero che ha messo insieme migranti e italiani per realizzare una filiera pulita del pomodoro, che restituisce dignità al lavoro agricolo, unendo alla produzione di salsa di pomodoro biologica una paga giusta per tutti; SOS Rosarno, che affianca i braccianti nella loro lotta contro lo sfruttamento, siano essi italiani o stranieri; i giovani e le giovani della Caritas di Savona, impegnati nel progetto “Un rifugiato a casa mia”, dove relazioni autentiche di ascolto e rispetto reciproco costituiscono il fondamento di un’accoglienza che va oltre ogni normativa.
Da queste testimonianze così ricche e intense è emerso con evidenza che siamo davvero tutti nella stessa barca, senza distinzione tra noi e “loro”, i migranti – del resto questo ha voluto significare il bel manifesto realizzato per il convegno – e che solo da quella barca possiamo provare insieme a immaginare e a far nascer qualcosa di inedito. E a darci misura del fatto che si possono già vedere le prime forme concrete di questo inedito sono stati proprio questi giovani e queste giovani, italiani e stranieri insieme, che si stanno assumendo la responsabilità di dar vita ad una società nuova. Per questo possiamo annoverarli a pieno titolo tra i nostri testimoni, se per testimoni intendiamo chi ci aiuta a leggere la storia da altre prospettive.
Sono state molto ricche anche le relazioni, pubblicate qui negli atti, che ci hanno aiutato ad approfondire, sotto diverse angolature, cosa significhi essere uomini e donne in cammino, dai tanti là, ma anche nel qui dove viviamo. Abbiamo ascoltato con interesse l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo, coordinatore della Clinica legale per i diritti umani, CLEDU, e presidente dell’associazione Diritti e Frontiere, che ha affrontato il tema del rapporto tra legalità e democrazia, in relazione a quanto sta accadendo con i migranti; p. Mussie Zerai, fondatore dell’ Agenzia Habeshia e candidato al Nobel per la pace per l’incessante sostegno ai richiedenti asilo e la coraggiosa denuncia delle efferatezze del regime eritreo; Ozlem Tanrikulu, membro del Congresso Nazionale del Kurdistan che battendosi per i diritti del suo popolo ha affermato con forza che saranno i popoli dal basso a ridisegnare le forme della democrazia; la giornalista palestinese Wafa’ Abdel Rahman, che ha sottolineato l’importanza di mobilitare la società civile, in particolare le giovani, e di assumere la prospettiva femminile perché le donne possono fare la differenza nella gestione del conflitto
israelo-palestinese e non solo; l’attore e scrittore Mohamed Ba, che dell’incontro tra le culture fa la sua ragione di vita; la deputata europea Cecile Kyenge, impegnata nella messa a punto di leggi e normative europee più adeguate per quanto riguarda i migranti e di cui abbiamo raccolto, tra l’altro, l’invito a non perdere la speranza.
Naturalmente non ci sono state risposte preconfezionate e tanto meno sono state prospettate soluzioni. E’ stato importante, però, renderci conto che questa congiuntura storica può essere davvero l’occasione di un nuovo inizio per tutti: noi che stiamo già qui e “loro” che qui cercano una vita più vivibile o, più semplicemente, cercano di continuare a vivere. Solo stando fianco a fianco sarà possibile realizzare un cammino di liberazione: italiani e stranieri insieme dovremo assumerci la responsabilità aprire strade nuove dove l’emigrazione sia considerata condizione naturale; dove l’auto organizzazione e la dignità del lavoro siano alla base di relazioni paritarie che rompano la distinzione tra migranti non migranti.
Evidentemente questo cammino non possiamo compierlo da soli: al contrario dobbiamo sostenerci tra noi e soprattutto fare rete con tutte quelle persone e quelle realtà che hanno assunto questa prospettiva e vogliono prendere posizione con scelte concrete sul piano personale e politico.
Per questo è stato prezioso il tempo del convegno, perché ci ha offerto la possibilità di un ampio scambio di idee, di pensieri, soprattutto di domande, ma anche di relazioni profonde per dirci cosa ci sta a cuore e su cosa vogliamo tenere gli occhi ben aperti, se vogliamo diventare anche noi parte di questo inedito: del resto la Rete ci ha sempre spinto verso questo tipo di percorsi. In molti di noi sono risuonate le parole che tante volte ci ha ripetuto Arturo Paoli: “Il cammino si fa camminando”.Allora non rifugiati né migranti, non più vittime, ma attori di cambiamento, come si diceva aprendo il convegno: questa è la sfida che la Rete vuole fare propria proseguendo e rinnovando il proprio cammino, sempre attenta ai segni che la storia le mette davanti.
FULVIO VASSALLO PALEOLOGO
Questa è l’occasione di riflettere con voi su un fatto epocale che sicuramente in questi giorni, in queste settimane, chiama fortemente in causa la nostra capacità di valutazione e intervento: la prossimità delle persone che arrivano ci costringe a fare delle scelte.
C’è chi si interpone, chi si oppone, chi assiste, chi sta a guardare, chi è indifferente. È importante, in un momento così difficile per i migranti – ma anche per gli europei, con la crisi economica devastante e con un’Unione Europea incapace in politica estera – potere parlare del tema e scambiare punti di vista.
Riguardo all’informazione, invito tutti a diventare “produttori e condivisori” di quanto accade. Produrre informazione a livelli minimi. Faccio un esempio: in merito alla chiusura del Brennero, l’Austria sostiene che nessuno dei migranti detenga la qualità di richiedente asilo. Tuttavia la commissione di Ginevra non vieta a nessuno di fare richiesta d’asilo. Anche la nostra costituzione – art.10 – prevede possa essere richiesto da tutti, indipendentemente dal paese d’origine. È un diritto fondamentale, e come tutti i diritti fondamentali della persona umana va riconosciuto a tutte le persone; non può essere negato a priori l’accesso alla procedura, né a priori l’accesso al territorio.
Stiamo attraversando una fase molto critica di disinformazione – che passa anche attraverso i discorsi diffusi da alcuni governi, come quello italiano secondo il quale chi arriva sulle nostre coste dall’Africa è migrante economico, senza diritto di chiedere asilo.
Dalle statistiche che diffonde il Ministero dell’Interno vediamo che coloro che sono arrivati lo scorso anno (e che continuano ad arrivare anche nel 2016) non sono più in prevalenza siriani, come invece accadeva nel 2014, prima dell’apertura della rotta balcanica.
I siriani che provenivano dalla Libia nel 2014 arrivavano in aereo da Damasco, qualcuno arrivava anche a Malta. Si imbarcavano soltanto per l’ultimo tratto per poi giungere in Italia. Fino a Tripoli viaggiavano con i loro documenti.
Quando la Libia è collassata, l’aeroporto della capitale è stato bombardato e i voli sospesi, alcuni hanno tentato l’avventura via terra, o attraverso l’Egitto, dove hanno subito arresti, oppure attraverso le isole greche, o dalla Turchia verso la Bulgaria, risalendo lungo la rotta balcanica verso la Slovenia , l’Austria e l’Ungheria.
Opero in Sicilia, osservo gli sbarchi, sono in contatto con associazioni, avvocati, Croce rossa, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), e con varie associazioni che intervengono concretamente all’arrivo di queste persone: le nazionalità delle persone che approdano sulle nostre coste sono ancora in gran parte verosimilmente aventi diritto all’asilo.
Non sono solo nordafricani, come ritiene l’Austria: la percentuale di nordafricani che arriva è estremamente bassa. Se si tratta di cittadini tunisini, poi, quasi in tempo reale (in uno o due giorni) per una percentuale che sfiora il 60% vengono riportati in Tunisia grazie a un accordo di riammissione che semplifica le procedure (a differenza di altri accordi di riammissione con altri paesi).
Gran parte dei tunisini in arrivo viene separata dal resto delle persone appena arrivate e portata in centri di prima accoglienza o di detenzione sorvegliati dalla polizia. In media 20-30-40 persone la settimana ripartono verso Tunisi.
Confrontando dati ufficiali provenienti da fonti certe, da rapporti che periodicamente emana il Ministero dell’Interno (che tramite le Prefetture e le Questure raccoglie dati attendibili) e dai dossier della Caritas e del Centro Studi e Ricerche IDOS, la prima considerazione è che esiste un forte scarto tra le cifre reali dei richiedenti asilo e dell’immigrazione in generale per motivi economici e le cifre percepite. Cioè indagini scientifiche dimostrano lo scarto tra ciò che gli italiani avvertono come fenomeno immigratorio e i dati veri dello stesso. Spesso si crede ad esempio che le persone che chiedono asilo siano la maggioranza perché si parla soltanto di loro. Mentre molti giungono in Italia con visto turistico e con passaporto, a volte falso, ma comunque non sui barconi. Sui barconi entra una parte ridotta dei migranti.
L’Italia, come molti Paesi europei, rilascia alcune centinaia di migliaia di visti Schengen, che consentono per tre mesi di muoversi liberamente sul territorio. Chi entra con il visto turistico per invito, anche per motivi religiosi o di visita, può circolare nello spazio Schengen. Alla scadenza, c’è chi resta, di fatto irregolarmente.
Negli anni dopo la legge Martelli, dal ’90 a oggi, si calcola che il 70% dei cinque milioni di immigrati regolarmente presenti in Italia si sia regolarizzata, dopo avere percorso un tratto temporale di irregolarità, mediante sanatorie o con il decreto flussi. Entrati, quindi, mediante visto e passaporto, queste persone sono rimaste fino alla regolarizzazione.
Oggi, con i canali legali fortemente circoscritti, una delle modalità consistenti è quella del ricongiungimento familiare, anche in attuazione di principi costituzionali e norme di convenzioni internazionali che privilegiano l’unità del nucleo familiare. In Italia sottoponiamo questo diritto all’unità familiare a requisiti di reddito moltoseveri, fatto che costringe alcune famiglie a far arrivare i figli soli, minorenni e non accompagnati perché non riescono a far approvare alla Questura quel reddito di 15.000 euro che è richiesto all’anno per far arrivare.
Normalmente si tratta di famiglie numerose, quindi il ricongiungimento diventa una chimera, ma rimane comunque un canale di ingresso molto utilizzato.
Il problema non sono i 170.000 arrivati nel 2014 per chiedere asilo perché di queste persone solo 70.000 sono rimaste in Italia, mentre le altre hanno proseguito il loro viaggio. Il problema non dovrebbero essere nemmeno i 150.000 arrivati lo scorso anno, molti dei quali in solo transito, diretti verso Paesi dove c’è più lavoro. Fino a qualche anno fa in Italia dopo sei mesi dalla perdita del contratto di lavoro si diventava irregolari, si poteva essere anche espulsi. Ora il termine è di un anno. Se non ci si procura un altro contratto, si perde il diritto di stare nel nostro paese. Questo accade talvolta a persone che hanno figli nati in Italia: l’ottenimento della cittadinanza è regolato dalla peggiore delle leggi d’Europa con termini di tempo spropositati. Così abbiamo persone da vent’anni in Italia, con figli di 18 anni nati qui, eppure senza cittadinanza, col rischio di essere espulsi.
L’immigrazione è in molti casi femminile: siamo passati al 15% del totale di donne che arrivano, mentre in precedenza sui barconi si trovavano molto più di frequente gli uomini. Oggi sempre più spesso arrivano anche minori non accompagnati. Talvolta questi ragazzi vengono inseriti in un progetto positivo di accoglienza, ma altre volte i minori non trovano una sistemazione adeguata, sono sottoposti a controlli di polizia molto severi. Vi sono maggiorenni che passano per minori o minorenni che vengono espulsi.
Inoltre, vorrei dire che qui non si tratta di un fenomeno di emergenza: sono almeno 25 anni che abbiamo a che fare con flussi migratori consistenti. L’accordo tra Unione Europea e Turchia, Asia, Medio Oriente e Africa sul tema migrazioni è molto complesso, ma davvero sembra che ci sia chi vuole estorcere soldi all’Europa, in cambio di una supposta capacità di fermare le partenze dal proprio Paese (tutta da dimostrare).
Invito ad andare a cercare il Rapporto sull’accoglienza del Ministero dell’Interno del novembre 2015: è una fotografia fedelissima di tutti gli immigrati dell’Unione Europea e non. Migranti economici, richiedenti asilo, si forniscono informazioni sulla loro consistenza numerica e sulle norme che regolano la condizione giuridica dello straniero.
E difatti avere il quadro normativo completo (che è poi quello che stabilisce la condizione giuridica delle persone ed il rapporto tra le persone e lo Stato), è molto difficile: i contenziosi sono in crescita, si impugnano provvedimenti di diniego d’asilo e di espulsione. Al riguardo la giurisprudenza è abbastanza rassicurante: se si pensa alla legge Bossi Fini del 2002, una decina di sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale (dal 2004 al 2011) ha demolito l’impianto sanzionatorio e penalistico che introduceva. Quindi nell’evoluzione normativa un ruolo importante è quello delle Corti. Gli immigrati, poi, hanno enorme difficoltà ad avere accesso a un trattamento giusto, anche nel caso di reati lievi. Per gli italiani scattano normalmente gli arresti domiciliari, mentre per gli immigrati senza residenza stabile scatta l’arresto. Il numero di reati commessi da immigrati non è maggiore di quelli commessi da residenti, ma la loro forte presenza numerica nelle carceri spesso deriva dal non poter presentare ricorso alle misure alternative alla pena, alla liberazione anticipata, al lavoro socialmente utile o agli arresti domiciliari. Anche per questo aspetto l’impressione che si ha del fenomeno migratorio è distante dalla realtà.
Degli ultimi mesi è stato l’accordo fra UE e Turchia: la Turchia incasserebbe 6 miliardi di euro e dovrebbe riprendere dalla Grecia, attraverso i rimpatri –cioè le deportazioni- chi ha fatto la traversata. Ma le persone riportate in Turchia non sono turche, bensì pachistane, afgane, sono somale, sudanesi, nigeriane. Quindi non si parla di rimpatri ma di riconsegna, riammissione di persone che sono entrate irregolarmente in un paese che poi li ritrasferisce all’ultimo paese dal quale sono transitate, ma non le riporta in patria.
Secondo questo schema dovrebbe essere la Turchia che li riporta in patria. Per fare questo ci vogliono soldi, e la Turchia li chiede all’Europa. L’Europa aveva promesso soldi anche in occasione della strage di Lampedusa del 2010, ma non li ha versati. L’Europa ha promesso 6 miliardi di euro a Erdogan, ma c’è scontro su come debba essere ripartito questo fardello economico a livello europeo: ci sono paesi come Lettonia, Estonia, Finlandia che non vogliono contribuire. Si rifiutano di dare fondi per la crisi economica e non perché la Turchia, come l’Egitto (altro partner potenziale dell’Unione Europea sui rimpatri), notoriamente non garantisce il rispetto dei diritti umani, ad esempio coi respingimenti. Come avvocati, in alcuni casi, siamo riusciti a dimostrare l’illegalità di respingimenti svolti da altri paesi come l’Italia (nel 2012 abbiamo ottenuto la condanna dell’Italia alla Corte Europea per i diritti dell’Uomo per i respingimenti verso la Libia avvenuti nel 2009, affidati alla guardia di Finanza, che dopo avere bloccato un serie di imbarcazioni ricondusse gli occupanti a Tripoli consegnandoli alle autorità di polizia libiche. Molte di queste persone furono incarcerate e subirono abusi; nel processo svoltosi presso la Corte Europea negli anni successivi questo emerse chiaramente ).
E ancora, i respingimenti di massa che negano il diritto di asilo sono stati oggetto di un’altra condanna per l’Italia, subita nel 2014 per i respingimenti verso la Grecia, paese ritenuto sicuro, paese che in realtà riportava profughi afghani in Turchia, che a sua volta li riportava in Afghanistan: sui ricorsi fatti da alcuni pachistani ed afgani, minori, abbiamo fatto ricorso insieme agli avvocati greci (che poi si ritirarono perché minacciati dal Governo). Si riuscì a portare il caso alla Corte di Strasburgo, che condannò Italia e Grecia.La macchina espulsiva, nel suo orientarsi verso una pletora enorme di persone, fallisce sistematicamente.
Non è mirata su soggetti pericolosi, categorie ben definite, numero ristretto di persone. L’automatismo del meccanismo espulsivo per fortuna ora è attenuato. l’Unione Europea di fatto ha reso ineseguibile l’espulsione. I centri di identificazione e di espulsione sono luoghi chiusi, quasi carceri, dove si realizza una detenzione amministrativa. Sono finalizzati a contenere le persone da espellere, ma le politiche espulsive puramente repressive hanno, nell’arco di 25 anni, dimostrato sistematicamente il loro fallimento.
Ripensando alle prime emigrazioni di massa (ad esempio alle 20.000 persone giunte in un solo giornodall’Albania in Puglia nel 1991) andrebbe fatto un collegamento tra la crisi dei Balcani degli anni ‘90, che significò guerra civile, campi di concentramento, e l’attuale situazione, che sta riproponendo campi di concentramento alle frontiere, nel fango, nel pantano, senza cibo, con bambini che si ammalano. È vero, senza quell’odio etnico che scatenò una carneficina e che in molti casi diventò pulizia etnica.
Spesso chi emigra per necessità giunge nei paesi confinanti al proprio, con la speranza di ritornare, un giorno, a casa. Dei 7.000.000 di siriani in movimento, ad esempio, 2.700.000 sono in Turchia, 1.200.000 in Libano, 1.000.000 in Giordania. Si calcola che 1.000.000 sia finito in Europa, in 17 stati. Il Libano (7.000.000 di abitanti) e la Giordania (9.000.000 di abitanti) ne ospitano circa 1.000.000 a testa: dunque una presenza altissima. I campi profughi sono tendopoli da centomila abitanti, con regole totalmente fuori dal diritto e governati dalla violenza, con abusi, reclutamento, commercio di donne e bambine per matrimoni forzati, o per esportazione verso i ricchi paesi arabi, e molto altro.
In Africa, fino a poco tempo fa, prima che giungesse sulla scena prepotentemente la variabile impazzita dei fondamentalisti di Boko Haram e più recentemente del Daesh, la mobilità tra paesi africani per lavoro era molto forte: si poteva passare anche senza passaporto verso l’Egitto, la Libia, la Tunisia. In Libia c’era una forte presenza di lavoratori marocchini senza passaporto. Oggi tutto questo non accade più, e quindi l’impossibilità di muoversi fra est e ovest ha accentuato fortemente la spinta verso nord, anche di persone che tradizionalmente erano lavoratori migranti economici, ma che la condizione del paese di transito (come la Libia) la ha trasformati in richiedenti asilo.
Ora, di fronte a chi arriva, c’è chi si comporta come l’Austria, che invocano il Regolamento di Dublino (secondo cui chi sopraggiunge per richiedere asilo deve restare nel primo paese d’ingresso dell’Unione): questo principio risolve molti problemi dei paesi europei “più interni” mentre lascia esposti quelli che hanno confini esterni. Dopo che la Grecia è andata in default, nel paese diverse corti hanno sospeso per anni l’applicazione del regolamento di Dublino: quindi chi passava dalla Grecia, anche se registrato laggiù, poteva ottenere il diritto di asilo in Germania, o in Olanda, Svezia, ecc.
Per l’Italia la soluzione è stata –potremmo dire- un po’ “all’italiana”: il nostro sistema di accoglienza nel tempo ha avuto una crescita, i posti sono stati creati, ma abbiamo in qualche modo chiuso gli occhi di fronte all’identificazione attraverso le impronte digitali, come richiede il sistema Dublino. Se una persona giunge a Pozzallo, Trapani, Brindisi o Cagliari e transita senza che gli si rilevino le impronte, arrivando in Germania non incontra alcuna difficoltà nel presentare richiesta di asilo. Ovviamente i paesi geograficamente più “interni” all’Europa non hanno alcun interesse a modificare il trattato di Dublino.
Mediamente i paesi europei accolgono il 50% delle richieste di asilo. Il resto viene respinto, spesso dando origine a ricorsi. In Germania, un gruppo di migranti ricorrenti da 9 anni hanno beneficiato di una specie di sanatoria che autorizza il soggiorno legale alle persone che, a fronte della richiesta di asilo respinta, hanno presentato ricorso e da più anni risiedono nel paese in attesa di vincerlo.
In Italia le commissioni che decidono in tema di asilo, sono commissioni che utilizzano criteri restrittivi: oggi arriviamo a percentuali di dinieghi dell’80% ; lo verifico operando con la clinica legale dell’Università di Palermo, attraverso la quale seguiamo i ragazzi del Gambia, del Sudan, i nigeriani che si vedono assegnare dinieghi. Per loro otteniamo la sospensiva, riusciamo con avvocati che collaborano con noi a fare ricorso e a ottenere poi anche l’annullamento di questi dinieghi. Però, per 10 che riusciamo a seguire, altri 100 rimangono irregolari senza poter ricorrere, poiché il ricorso richiede la costruzione di un rapporto tra l’associazione, l’avvocato e il migrante che non è sempre facile. Nel resto d’Europa lo stesso istituto della sanatoria un tempo possibile, ora non lo è più. In Italia abbiamo assistito a un’estesa sanatoria negli anni ’90 attraverso la legge Martelli. In particolare nel 1998 sono state interessate 300.000 persone. Dopo il 2002 è stata registrata un’altra regolarizzazione molto ampia, quasi 500.000 persone, e ancora, anno dopo anno, dal 2000 fino al 2012, c’è stata l’applicazione di decreti flussi annuali, che in realtà costituivano principalmente una modalità di emersione del lavoro in nero offerto da lavoratori già alle dipendenze di datori di lavoro italiani, qui, sul nostro territorio. Si può dire che abbiamo avuto una forma di regolarizzazione piu’ fluida fino al 2012; da quel momento, abbiamo registrato un aumento esponenziale degli arrivi delle persone che richiedevano asilo perché le situazioni dei paesi di origine erano sempre più terribili ma le vie per la regolarizzazione si sono ridotte.
Dal 2013 con la chiusura degli ingressi, tanto per lavoro quanto per richiesta asilo, abbiamo assistito a un aumento esponenziale delle partenze via mare, e conseguentemente dei profitti dei trafficanti, perché ogni sistema proibizionista determina un’enorme crescita dei numeri di persone che si muovono illegalmente equindi dei profitti economici dei trafficanti, e quindi del rischio insito nelle modalita’ di viaggio.

A seguito dello stravolgimento dell’opinione pubblica che derivò dalle immagini delle bare dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 (seguita subito da un’altra strage a sud di Malta l’11 ottobre, che nessuno ricorda mai, con oltre 400 morti) viene dato il via, il 18 ottobre 2013, a Mare Nostrum: l’operazione finanziata soltanto dall’Italia che per un anno consentì il salvataggio in mare di più di 135.000 persone che sarebbero probabilmente in buona parte morte.

Le mutate condizioni in Libia e in parte anche in Turchia e l’aumento dei controlli hanno trasformato anche le tipologie di imbarcazioni usate: si utilizzano i gommoni, sempre più insicuri. Si sgonfiano rapidamente.
Mentre prima le imbarcazioni che arrivavano in Sicilia avevano serbatoi abbastanza capienti, ora i gommoni che partono dalla Libia hanno un’autonomia di 20–30 miglia , cioè 40 km, arrivano in acque internazionali e si fermano, chiamano aiuto con il telefono e , quando va bene, sopraggiungono i soccorsi.
Assistiamo, dunque, allo stravolgimento del sistema migratorio irregolare con l’aumento dell’attività dei trafficanti anche per il blocco e la chiusura di tutti i possibili canali di ingresso legali.
Chi arriva e chiede asilo finisce in centri di accoglienza: vorrei ricollegarmi al tema di Mafia Capitale (si riferisce al Centro di Accoglienza per Migranti e Richiedenti Asilo di Mineo, ndr), un miliardo di euro che ha arricchito i gestori dei centri e non i migranti, maltrattati dal sistema che li ha accolti con standard bassissimi, poco dignitosi, come i rapporti di alcune campagne hanno ben dimostrato (ad esempio quella denominata Lasciateci Entrare, on line l’ultimo report di febbraio che mostra le condizioni dei centri).
Si è sparsa la voce (anche per motivi politici) che fossero i richiedenti asilo a incassare 35 euro al giorno: molta gente ne è ancora convinta. E invece questi soldi vanno tutti nelle tasche degli italiani che gestiscono i centri, dove lavorano anche molte persone in nero, volontari in attesa di un futuro contratto, oppure pagate la metà. Il sistema dei centri è in mano a pochi operatori molto grandi, associazioni, consorzi, ad esempio associazioni temporanee d’impresa con sede operativa costituita in Sicilia e sede legale a Roma: un sistema inquinato che ha doppiamente tradito i migranti, guardati negativamente non soltanto perché ‘venivano a togliere lavoro e casa agli italiani’, ma anche perché depauperavano gli italiani, che dovevano pagare per fornire loro accoglienza. Le rotte nel tempo sono molto cambiate, non soltanto per un’evoluzione storica, dall’emergenza nord-africa nel 2011alle Primavere arabe.
La Siria ha certamente stravolto il senso e la portata del diritto di asilo in Europa: oggi si parla di siriani, forse iracheni, forse eritrei con diritto d’asilo, come se tutti gli altri non lo avessero. L’afflusso così massiccio di richiedenti asilo provenienti dalla Siria ha modificato anche il panorama politico: partiti populisti emergono, sulla posizione rispetto all’accoglienza si sono giocate tornate elettorali in tutti i paesi europei, dalla Spagna alla Polonia, dall’Ungheria alla Norvegia, dalla Svezia all’Italia (forse negli ultimi tempi un po’ meno nel nostro paese, che ha ammorbidito la linea, lasciando andare, facendo finta di non vedere).
Molta della politica viene giocata sul tema dei migranti e dei richiedenti asilo: dopo il capodanno di Colonia (con l’attacco di massa di uomini ubriachi nei confronti di ragazzi e ragazze soli, con pochi casi di violenza ma con gravi offese sul piano processuale) la Germania ha avuto una brusca chiusura. La stessa Svezia, che pure aveva accolto, ha annunciato che tutti gli 80.000 profughi cui non era stato riconosciuto lo status di rifugiati verranno espulsi: una dichiarazione dallo scopo politico, anche se poi forse non attuata.
Dichiarazioni politiche di principio, poi non eseguite: anche la Bossi-Fini conteneva delle norme che da subito si poteva prevedere non sarebbero state applicate. Oggi, per esempio, un immigrato irregolare in Italia non viene più condotto automaticamente in un centro di trattenimento, e se non ottempera all’obbligo di espulsione non viene detenuto in carcere per essere espulso, perché si è capito che se il paese da cui proviene non lo riprende, rimane in carcere per anni, intasando il sistema carcerario stesso (questa saturazione delle carceri si è registrata dopo il 2009, è costata sentenze della Corte Costituzionale. La Corte di Lussemburgo ha sottolineato che la legge italiana derivante dai pacchetti sicurezza non era conforme alle normative europee in termini di rimpatrio forzato).
Dunque le rotte continuano a cambiare: le principali sono quelle che collegano all’Africa, sub–sahariana.
Francia e Spagna hanno chiuso con cura le frontiere, dopo un accordo stipulato con il Marocco. I migranti, che non provengono se non per il 10% dal Maghreb, si muovono dall’area della Guinea, del Gambia, del Mali, del Niger, e dall’altra parte dall’Etiopia, dall’Eritrea e dal Sudan. Sono costretti a passare dalla Libia, oggi divisa e in mano a diverse bande. I punti di imbarco erano a Zuara, ora Zabrata, la spiaggia di Garabul e Zabia. Si punta su Lampedusa, sapendo che a 20 mt dalla costa si viene soccorsi.
Oggi vi sono molte navi militari che si aggirano in quella zona e contribuiscono a segnalare e a prestare soccorso, anche perché il Daesh – o Isis- ha occupato tre città del nord della Libia e c’è il timore che possa minacciare i mezzi commerciali (pescherecci d’alto mare, petroliere, navi cargo) in transito da Gibilterra a Suez. Dunque qui si trovano le navi dell’operazione italiana Mare Sicuro, supportate da mezzi Eunave For Med dell’Unione Europea, più altri mezzi NATO. Un mezzo militare ogni 10 miglia.
Questo ha contribuito a diminuire il numero delle stragi (questo intervento di Vassallo risale al mese di aprile, prima delle enormi perdite umane di fine giugno, ndr).
La rotta attraverso la quale sono giunti in Europa migranti e richiedenti asilo è quella balcanica: dalla Turchia passando per le isole greche (Kios, Lesbo, Kos) oppure andando direttamente verso Bulgaria e Macedonia.
Si tenga conto che, se dal Nord-Africa arrivano prevalentemente adulti soli, dalla Siria arrivano famiglie con2, 3 fino a cinque figli.
L’Italia ha la sua storia, le sue attitudini, le sue modalità i materia di salvataggio; a mio avviso detiene il primo posto al mondo nel dare soccorso (ricordo Mare Nostrum); un’enorme differenza con paesi come l’Australia (che respinge) o gli Stati Uniti (Golfo del Messico). In Italia si punta alla ricerca e alla messa in sicurezza degli uomini, vale la chiamata di soccorso per tutte le navi presenti sul posto (commerciali, militari, ecc.).
L’agenzia Frontex, che pure formalmente riconosce la necessità di salvare le vite umane, ha criteri di intervento secondo cui, ad esempio, la chiamata di soccorso non ha un’importanza tale da giustificare il movimento di una nave che sta oltre una determinata distanza. Da Lampedusa i gommoni veloci della Guardia Costiera, mezzi agili e adatti a interventi di recupero o affiancamento dei medi e piccoli mezzi di fortuna su cui si muovono i migranti, sono arrivati ad intervenire vicino alle coste libiche; la nostra marina per questo è stata criticata da Frontex, poiché il rischio è che creando un precedente di salvataggio la gente parta in numero ancora più alto, e il rischio di morte aumenti.
Da due anni anche privati, “cittadini solidali” ,con l’ausilio di finanziamenti, hanno armato delle navi per il soccorso. E ancora, Medici Senza Frontiere, poi la Nave Acquarius di SOS Mediterranée, navi civili, insomma, private, che fanno attività di monitoraggio e salvataggio.
Ma si assiste a un paradosso: dopo ogni tragedia importante -si pensi ad esempio all’aprile 2015 e agli 800 morti annegati a sud di Lampedusa- le politiche dell’UE, inizialmente aperte, si restringono, tanto che siamo noi italiani ad avere più rispetto delle leggi e diritti del mare della stessa UE. L’Italia mette al primo posto il salvataggio delle vite umane.
Nella Convenzione di Ginevra o nella Carta Dei Diritti Fondamentali che sancisce il diritto di asilo non c’è un tetto massimo di riconoscimenti da rilasciare. Purtroppo il fattore quantitativo ha inciso fortemente sul riconoscimento dei diritti fondamentali.
In Europa le istituzioni sono orientate a stabilire accordi con la Turchia, sostengono la logica di Frontex, non ostacolano leggi di polizia che non sono conciliabili con le leggi nazionali e le direttive e regolamenti legate al diritto di asilo. Il Parlamento Europeo non ha una capacità di elaborazione tale da opporsi agli indirizzi di Consiglio e Commissioni. Il banco di prova di tutto questo è il rapporto tra Unione europea e Turchia. Ci sono grossi problemi anche nei rapporti tra i diversi stati europei e Bruxelles, manca collaborazione ed elaborazione di scelte politiche comuni.
Rivedere il regolamento di Dublino o l’apertura di canali umanitari o di canali di ingresso per lavoro richiede l’esatto opposto. Per ora si tratta di comunicazione tra sordi: i diversi paesi non sono capaci di elaborare una politica estera ed economica unitaria, e in questo si legge la debolezza del sistema comune Europeo.
Domande a Paleologo
Domanda: Per tre volte hai citato i trafficanti di persone, anche sull’ultimo numero di Nigrizia c’è un dossier sull’immigrazione e un capitolo dedicato proprio ai trafficanti. Vorrei capire se queste persone che non sono persone influiscono anche su quello che sta avvenendo o se è soltanto una forma di presenza solo per guadagnare soldi, poi se la segreteria me lo permette, vorrei avvisarvi che improvvisamente domani viene aperto presso i comboniani di Padova il processo di beatificazione di Padre Ezechiele Ramin comboniano, fratello del nostro amico Fabiano ucciso in Brasile trenta anni fa, importante per noi, per la conoscenza che abbiamo di Fabiano e del fratello Ezechiele.
Risposta: Io ovviamente ho la mia lettura dei fatti, ho i miei dati, ho le mie esperienze personali, mi chiedo soltanto di mettere assieme tutti quelli che possono essere i fattori di spinta da una parte e i blocchi all’ingresso dall’altra per valutare singolarmente con una piccola indagine che si può fare anche in rete se i trafficanti sono attori o prodotto del sistema, cioè non sono i trafficanti a far aumentare l’arrivo di immigrati ma è il blocco degli ingressi che fa aumentare il numero dei trafficanti. Per assurdo determinate politiche di blocco aumentano gli arrivi irregolari, impedendo quelli regolari; in più i richiedenti asilo, anche se non hanno diritto a una risposta positiva per quanto riguarda la richiesta di asilo, hanno comunque diritto ad entrare nel territorio, quindi non possono essere trattati come l’immigrato clandestino da mandare via. Purtroppo sta avvenendo che si sta negando il diritto di ingresso anche a persone che dovrebbero porre soltanto una domanda di asilo che poi una commissione esamina perché, nel nostro ordinamento giuridico in quello europeo, la polizia non ha il potere di decidere in via preliminare senza che ci sia l’approfondimento del caso individuale. La polizia non può dire: tu non sei meritevole di fare domanda di asilo, fosse anche un tunisino o un marocchino. I trafficanti poi sono figure che troppo spesso si confondono a livello mediatico con gli scafisti, nel senso che i trafficanti sono generalmente poche persone, gruppi bene organizzati, spesso collusi con i governi dei paesi nei quali risiedono. Voglio ricordare che sul processo molto grosso, quello della strage del Natale ’96, istruito dalla procura di Siracusa la Francia negò l’estradizione dell’armatore della nave che aveva causato una collisione durante un trasbordo, nella quale erano morte 300 persone. Il comandante della nave è stato condannato dall’autorità di Siracusa a 30 anni di carcere, questo succedeva nel 2012 dopo tanti anni da quella strage di Porto Palo. Purtroppo c’è un grosso problema di individuazione dei trafficanti veri, perché gli stessi paesi con i quali abbiamo ottimi accordi di collaborazione, quando paghiamo parecchi soldi, questi stessi paesi, quando la nostra autorità giudiziaria fa un’indagine per rogatoria, chiede di andare a cercare, sentire qualcuno, non offrono nessuna collaborazione, né i paesi di transito e tanto meno quelli d’origine. In più questi trafficanti sono favoriti anche sul nostro territorio dallacircostanza degli accordi di Dublino, quindi se un siriano arriva oggi in Italia o un eritreo arriva oggi in Italia e ha i parenti in Svezia, per andare a raggiungere legalmente i parenti, se va bene, passa un anno in Italia oppure ha un diniego. E’ molto più facile pagare un tassista, qualcuno che l’accompagna alla frontiera tra il Piemonte e la Francia, lo lascia su un cammino alpino e qualcuno lo viene a raccogliere. Magari i trafficanti, come hanno fatto vedere alcuni servizi televisivi, sono tanti soggetti che erogano servizi e prestazioni. Il lavoro che si è fatto come volontari nelle stazioni di Catania, di Palermo, che si è fatto al Mezzanino di Milano, che si è fatto in Austria è stato tutto un lavoro per favorire i migranti; ricordo che tante persone hanno avuto denunce per avere trasportato in macchina migranti senza chiedere soldi. Si è fatto e si fa un lavoro di agevolazione dell’immigrazione; io me ne assumo tutte le responsabilità per il contributo che posso aver dato
per dare un futuro a queste persone. Attualmente ci sono gruppi che lavorano in Turchia e Grecia per favorire il passaggio e per accompagnare il rimpatrio, il ri-trasferimento, perché in realtà nessun turco o veramente pochi sono quelli che la Grecia restituisce alla Turchia, in prevalenza ora sono pakistani e afgani. Quindi in realtà la lotta al traffico la facciamo in due modi: interponendoci e proponendo forme di ingresso legali attraverso i canali umanitari, prendendo in carico i casi più vulnerabili, rappresentandoli presso l’UNHCR, cercando di ottenere visti di ingresso per motivi umanitari. Ovviamente rispetto alla grande quantità di persone, noi riusciamo in numero più ristretto. Quindi in realtà il traffico, dal mio punto di vista, si combatte fornendo tutele legali, rispettando nei processi le regole delle testimonianze, perché se in un processo si assumono testimoni fasulli, promettendo un permesso di soggiorno poi in dibattimento questo processo salta e non va a condanna. Abbiamo le possibilità di contrastare il traffico non derogando quelli che sono i principi di legalità. Può darsi che la risposta non sia soddisfacente ma è quello che faccio e facciamo in tanti. Esiste in Francia un delitto di solidarietà; talvolta lavorando e interponendosi a favore dei migranti si è denunciati per agevolazione dei flussi irregolari.

RETE RADIE RESCH
Relazione sintetica sul SEMINARIO “La speculazione finanziaria: un disastro che impoverisce l’umanità” Che cosa possiamo fare?
Reti del centro-est Ancona-Missionari Saveriani - 16 maggio 2015-
Presenti 15 (solo io di Pescara, 6 di Macerata, nessuno da Pesaro, resto da Ancona).
Ha presieduto da par suo Padre Alberto Panichella.
Nostro relatore è stato il Prof. Roberto Mancini, docente di filosofia teoretica all’Università di Macerata e di “economia umana” in un centro universitario della Svizzera italiana.
Mancini si è posto subito la domanda sui modelli alternativi al capitalismo: l’economia non è una scienza o un dato di natura, ma è scelta e cultura! No al delirio della società ridotta tutto a mercato ed azienda (scuola, ospedali, ecc.). Il mondo sta scoppiando: terrorismo, conflitti, fondamentalismi, fanatismi, politiche di potenza, povertà, ecc.. Il capitalismo si presenta come economia naturale, necessaria, umana e si dichiara senza alternative, con un discorso ricattatorio che in realtà sta portando a un disordine mondiale ad alta precarietà.
Siamo di fatto alla “dichiarazione universale dei diritti del denaro, non dell’uomo”. Le grandi religioni spesso convivono con ogni ordine sociale e politico al posto di rovesciare i tavoli dei mercanti....Il vero ateismo nella Bibbia è invece il culto del denaro (viva la libertà dal denaro!) . Tanta ignoranza antropologica sta portando al solo correre e competere, al potere delle sole multinazionali a scapito degli Stati, alla guerra di tutti contro tutti, alla finanziarizzazione nefasta dell’economia, all’abbandono graduale dello stato sociale, ecc..
E’ saltato il compromesso capitalismo/democrazia/stato sociale con globalizzazione, crisi petrolio, via libera ai capitali, rivoluzione informatica, finanza ad alta velocità, computer che scelgono in tempo reale, crollo dei Paesi socialisti: gli USA ci hanno scavalcati a sinistra con l’intervento dello Stato! Urgono risposte non superficiali, di altra civiltà non solo di altra economia! La democrazia di fatto non ha istituzioni internazionali; è da costruire una vera Europa che rappresenti i popoli non i Governi. Urge una svolta spirituale nel senso della vita: dobbiamo imparare ad amare coma San Francesco. Un amore che sia politico, sociale, economico, all’altezza dei grandi temi di oggi (migranti in arrivo: l’Europa ha un grande debito storico verso l’Africa!). Urge un’altra economia che parta dalla democrazia con “relazioni di dono”. Sono già in campo vari modelli e intuizioni: Gandhi, Islam, comunità, decrescita, solidarietà, partecipazione, equo e solidale, bilanci di giustizia, finanza etica, ecc.. Occorre avere e sollecitare coscienza critica, reagire alla disperazione, fare la nostra parte, fare politica (prima la dignità umana e dare nome diverso all’economia!).
Ognuno di noi può e deve fare qualcosa in un contesto di benefico pluralismo. Tremo quando mi sveglio la notte pensando al futuro dei nostri figli! Non disperdiamo energie. Cristo è Signore della Storia, non il mercato. C’è emergenza educativa ma riguarda soprattutto noi adulti. No al paternalismo verso i giovani: credere in loro! Non responsabilizzarli troppo: ci vuole alleanza generazionale.Varie le testimonianze e gli stimoli del dibattito, specie con riferimento alla precarietà dilagante, alla drammaticità di tante situazioni, 
alla complessità di tante realtà ed alla inadeguatezza del nostro possibile FARE rispetto ai grandi temi prospettati. 
Per tutti, urge una economia umana ad alta intensità antropologica.
Padre Panichella, forte anche della esperienza missionaria in Brasile, ha sottolineato con forza la necessità di avere UTOPIA, di costruire insieme, di lottare unitariamente dal basso e di “socializzare la produzione”.
Il sottoscritto Silvestro ha ripetuto la sua nota litania: non basta sbandierare e urlare valori, occorre scendere di piu’ sui programmi, considerando anche tempi e forze in campo ed escludendo al massimo
referenzialità, esclusivismi e narcisismi personali e di gruppo, facendo adeguato tesoro delle tante nostre esperienze al riguardo. Fare quindi molta RETE e avere senso e pazienza della storia!. E’ fondamentale la conoscenza approfondita del quadro dei problemi in tutta la complessità e difficoltà senza mai arrivare alla cultura dell’impotenza: “cercò di fare la sua parte” deve essere la scritta tombale di ognuno di noi!
Una considerazione finale personale: il Prof. Mancini è soprattutto un filosofo e probabilmente non ci ha riempito a sufficienza il cestino del “che fare”. Ci ha però fornite solide coordinate culturali, ecclesiali e politiche, ottimo occhiali per vedere bene la realtà e preziosa bussola per orientarci nel cammino. A noi il resto.Seminario
Silvestro Profico


Seminario su Finanza Speculativa
Reti del centro sud – Giugno 2015
I lavori del seminario sono iniziati con l’introduzione di Lucia Capriglione, che ha illustrato lo storia e lo spirito della Rete Radia Resch nei suoi 50 anni di vita, e presentato le associazioni partecipanti: Libera, Banca Etica, Comitato Acqua Pubblica, Spazio Riff Raff, Communia.net, Ufficio diocesano per i problemi sociali e del lavoro, i referenti e i relatori; ha introdotto l'argomento della Finanza Speculativa, causa di molti dei problemi che ci affliggono oggi, e del modo in cui se ne potrebbero rimuovere le cause e gli effetti. L'intervento di Baranes si è incentrato sulle anomalie della finanza pubblica di oggi, e di come queste ci vengano comunicate. La finanza speculativa ha abbandonato l’economia reale, creando una finanziarizzazione dell'economia con un moto acceleratissimo verso il profitto, nel senso che le speculazioni finanziarie in borsa hanno preso il sopravvento sull'economia reale produttrice di beni e di servizi. Il denaro non è prodotto da beni che vengono commerciati, ma dalla vendita del denaro stesso: speculazioni, derivati, etc. Ad esempio, il prezzo dei generi alimentarti non è determinato dalla quantità della produzione, ma dalle loro quotazioni di borsa. Questo ha causato la morte di aziende e fabbriche, la disoccupazione, il fallimento di banche e dunque la perdita di beni: sono nate nuove povertà, e si sono accentuate le già inesistenti disparità sociali. Il racconto delle cause e dei punti di partenza della crisi che attanaglia i nostri paesi, la sua evoluzione e la sua difficile soluzione ha portato all'evidenza della perdita continua di diritti da parte della gente comune, ma anche delle nostre stesse democrazie, e di continue sottrazioni di sovranità in favore del profitto e delle grandi multinazionali del commercio (vedi ad esempio il TTIP), mentre gli Stati sono chiamati a risolvere la crisi dell’economia dando aiuti a gruppi privati (banche soprattutto). Di qui la necessità, secondo Baranes, di regolamentare sempre più i rapporti economici ed il sistema in termini di trasparenza ed equità. La sua proposta è stata quella di responsabilizzare di più il cittadino sia in termini di informazione che di scelte partecipate. Il seminario è proseguito poi con la testimonianza di Maria Rita della Rete di Noto, che ci ha illustrato il progetto seguito dalla sua Rete in Patagonia, a sostegno della comunità indigene là residenti (Mesa Campesina). Il progetto si svolge all’interno della Provincia di Neuquen, zona molto ricca di minerali di uso industriale e dispone di enormi riserve di gas, tutto questo in mano allo Stato provinciale e ad imprese private. La popolazione, i “mapuche”, è rurale nella quasi totalità, le terre dove essi vivono da tre o quattro generazioni, sono demaniali, per cui essi pagano un canone di locazione. La costituzione Provinciale prevede la riforma agraria e l’assegnazione di queste terre a coloro che le occupano e vi lavorano. Di fatto fino ad oggi il titolo di proprietà è stato riconosciuto solo a pochissimi e la Provincia spesso vende a ricchi “estancieros” o a imprese petrolifere che poi li recingono col fil di ferro e fanno sloggiare i campesinos con la forza. Il Vescovo Mons. J. De Nevares ha promosso nel 2000 l’incontro tra i campesinos e l’associazione “La Mesa campesina” per poter difendere i propri diritti e nel novembre l’attuale Vescovo, Mons, M. Melani, chiede alla Rete RR di appoggiare la “Mesa campesina”. Il progetto compie una svolta importante quando si appoggia a un avvocato che rende più efficaci le rivendicazioni. Dopo varie traversie legislative è stato indetto un referendum che ha detto finalmente no all’attività estrattiva cinese. Evidentemente il problema non è risolto del tutto, perché la multinazionale ha fatto causa al governo argentino per perdita di utili. La seconda testimonianza è quella di Matteo Potenzieri, ex operaio della Italcables di Caivano. La sua presenza è stata espressamente voluta dagli organizzatori del seminario come esempio concreto dell'effetto della crisi internazionale sulla economia locale, e quindi sulle nostre stesse vite; la crisi non è qualcosa che avviene lontano da qui, ma è qui, e riverbera i suoi effetti nefasti sulle vite di tutti. Ma questa testimonianza è stata anche, allo stesso tempo, esempio della possibilità di riprendere in mano il proprio destino economico e di riagganciarsi all'economia reale attraverso la partecipazione attiva. La Italcables di Caivano è una fabbrica leader nel suo settore, uno dei sette produttori mondiali di cavi e corde d’acciaio per piloni precompressi che servono a realizzare ponti e viadotti, ed era in pieno regime di produzione quando la multinazionale che la gestiva ne ha deciso la chiusura, a causa di speculazioni finanziarie sbagliate. Dopo inutili lotte e tentativi di evitare il fallimento della fabbrica e dunque il licenziamento di centinaia di operai, un gruppo di questi sta ora cercando di acquisire la fabbrica, investendo l’indennità di mobilità percepita, e con l’aiuto dei prestiti concessi da Banca Etica. Questo intervento ha messo in evidenza quanto l'economia globale ci riguardi da vicino, per le tentacolari ramificazioni assunte dalle operazioni finanziarie. Il terzo intervento, infine, è stato quello di Maria Josè D’Alessandro da Cosenza sui MAG, letteralmente i Mutui di autogestione del credito, di cui ci ha illustrato il funzionamento e le modalità di richiesta ed utilizzo a sostegno di iniziative economiche non volte a finanziare neanche indirettamente traffici di armi, fumo ed altre attività nocive. Maria Josè ci ha raccontato della realtà calabrese e del buon esito che stanno avendo con la loro iniziativa, partendo dal presupposto che il prestito è un diritto umano e come tale deve essere privilegiato. Dopo il pranzo sociale sono ripresi i lavori del seminario, volto a trovare delle risposte pratiche e concrete alle problematiche affrontate durante la prima parte del seminario. A tal proposito Silvana Barbirotti ha proposto di creare dei sottogruppi per lavorare sulla formazione e coinvolgimento dei ragazzi nelle scuole. Onofrio Infantile ha accolto la proposta, proponendo a sua volta di entrare nelle scuole come associazione. Maria Teresa Schiavino ha sottolineato l’esigenza di approfondire il rapporto politica- finanza, indirizzandoci verso una scelta consapevole del gruppo politico che ci deve rappresentare e che deve portare avanti queste battaglie anche a livello istituzionale. Lucia Capriglione a proposto di dare sostegno alla campagna Banche Armate che può coinvolgere anche le parrocchie e le amministrazioni locali. Ermanno Minotti ha proposto di creare gruppi territoriali di riferimento. Josè Maria D’Alessandro ha parlato dell’esempio del giornale on-line Moviduepuntozero, che lavora sulla comunicazione e ha pubblicato di recente un Quaderno di economia solidale scaricabile da tutti, e molto utile per comprendere le dinamiche economiche in atto. Baranes ha sottolineato l’esigenza di lavorare dal basso e fare rete tra più gruppi e persone per poi poter agire come massa critica su base nazionale. E’ un discorso di carattere culturale a dover essere smontato più che quello legato ai centri di potere, ed ha fatto l’esempio del sito Sbilanciamoci.org, che si impegna a proporre ogni anno una legge finanziaria e a presentarla ad ogni gruppo e commissione parlamentare. Con Sbilanciamoci si fa comunicazione e formazione e l’obiettivo è soprattutto quello di smontare l’idea che sia la finanza pubblica ad essere il problema e non, invece, quella privata; e, soprattutto, smontare l’idea che privatizzare sia l’unica soluzione. Peppe Sottile di Banca Etica ha sottolineato comunque l’esigenza di un'autoformazione continua facendo riferimento a vari siti che si occupano di queste problematiche, e soprattutto, di fare rete. Per Baranes un esempio di rete sono i DES, Distretti di Economia Solidale che mettono insieme, ad esempio, le botteghe di commercio equo e solidale, i GAS e la finanza etica. Tutti hanno convenuto che sia fondamentale incontrarsi tra le varie associazioni locali periodicamente per fare il punto della situazione e portare avanti campagne comuni, tipo il TTIP, programmando ed organizzando iniziative sul territorio. La campagna contro il TTIP, per la sua urgenza, è quella su cui si dovrebbero maggiormente indirizzare gli sforzi nei prossimi mesi.

Seminario
Reti del nord ovest – Maggio 2015
RELAZIONE DI GIANNI TOGNONI segretario TPP (Trib. Permanente Popoli)
Ci troviamo in una situazione in cui, per realtà come RRR e TPP che rappresentano punti di vista e strumenti di lavoro minoritari rispetto alla storia, gli spazi d’azione si restringono. Sappiamo che, nonostante le affermazioni di Erri de Luca - riprendere sempre - non è facile lavorare quando non si vince mai. E non è sempre possibile riprendere, perché gli spazi si restringono, cambiano interlocutori, contesti, strumenti. Per questo l’obiettivo della giornata di oggi, per la RRR come per il TPP, è una riflessione, molto concreta, non teorica, sulla traduzione delle nostre rispettive identità nella realtà di oggi.
RRR E TPP NELLE SITUAZIONE ODIERNA
Per il TPP, la Dichiarazione universale sui diritti dei popoli del 1976 deve essere riformulata. Dichiarazione storica, che, proprio per questo, non si tratta di “aggiornare”; va invece verificato se quella dichiarazione oggi può applicarsi a soggetti comparabili con quelli che c’erano quando è stata emessa. Le domande da porsi sono: chi sono i popoli oggi? il concetto di universale (nella dichiarazione universale dei diritti umani indica quei diritti che dovevano essere di tutti e arrivare a tutti) ha lo stesso senso di prima? Il concetto assume un valore diverso in un contesto in cui le regole del gioco sono cambiate: oggi la diseguaglianza non è più denunciata, è constatata e riconosciuta come parte integrante del modello di sviluppo. (Nessuno osa più mettere nei suoi programmi l’obiettivo che ci sia uguaglianza fra gli umani). Come ci si muove in questa situazione?
Oggi il TPP e tutti gli organismi che lavorano a livello internazionale si accorgono che le domande che sono d’attualità nei luoghi in cui sono attivi progetti internazionali, hanno la stessa attualità drammatica anche qua da noi. (Es. Cos’era il Brasile ieri e che cos’è oggi? Oggi il Brasile è protagonista delle contraddizioni con cui abbiamo a che fare: anche in Italia le diseguaglianze si stanno radicalizzando e dunque le domande sull’economia, sul destino delle persone concrete in Brasile e in Italia sono le stesse.) Noi, oggi, siamo il paese dell’Expo o un paese vicino ai PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna), che sopravvive a livelli appena un po’ superiori a quelli della Grecia, solo perché siamo un po’ più grandi? Per esempio: quella che si gioca in Sanità è la concezione dello Stato (SSN – servizio sanitario nazionale) o quella del mercato, la stessa che gioca nella questione dell’energia e dell’acqua? Tutti i servizi della vita quotidiana sono entrati a far parte del mercato e sono oggetto di quei trattati transatlantici e transpacifici che oggi si sta cercando di imporre. Per queste ragioni è necessario mettersi - RRR e TPP - nella prospettiva comune di guardare in avanti, perché è evidente che risposte prese dal passato devono essere radicalmente rovesciate. Non perché siano sbagliate: il concetto di solidarietà per esempio è attualissimo, ma ha bisogno di applicarsi in una nuova prospettiva, in una situazione che lo renda capace di fare rete con rete.
FINANZA SPECULATIVA E DEMOCRAZIA
Tema centrale di questa riflessione è il rapporto tra democrazia e finanza; finanza come economia virtuale, che può “cambiarsi d’abito” come vuole rispetto all’economia reale, e nella quale la democrazia resta “intrappolata”. Per resistere, per affrontare il livello dello scontro e avere idee in avanti bisogna capire che con questa immagine di economia e finanza si sta proponendo di sostituire l’immaginario dei diritti con un altro immaginario. L’immaginario dei diritti affermava come possibile un cammino e un progetto; la finanza indica come tassativo un percorso (bisogna fare così): si dichiara infallibile. La finanza si pone come una teologia dogmatica, che, per definizione, non è giudicabile, si autovalida, afferma di custodire la verità ed esiste di per sé.Analogia con la storia della Chiesa, nella quale è in atto un percorso, in cui papa Francesco, che non dice nulla di radicalmente nuovo, diventa un rivoluzionario: quando si parla di fame non lo si deve fare in astratto ma pensando a dei volti; nel nostro campo diciamo che la democrazia è un’altra cosa: è qualcosa che ha a che fare con la gente. Nel processo con cui nel mondo si arriva alla formazione delle decisioni, l’ultimo elemento che compare sono i diritti delle persone, anzi le persone stesse, che non possono essere riassorbite in concetti. Le persone sono portatrici di domande concrete, e allo specifico, alle persone si risponde con “il sistema non lo prevede”. In questo contesto dobbiamo riformulare categorie e obiettivi del nostro lavoro, se vogliamo far arrivare i nostri progetti a chi ne ha bisogno. Uno dei temi su cui il TPP lavora non è solo quello della qualificazione giuridica dei meccanismi della finanza, ma se sia possibile oggi porre la domanda sulla legittimità della finanza. La finanza è uno dei nomi che assumono oggi i totalitarismi, di cui non si può parlare, e che pretende di non essere valutata come un totalitarismo; ma essa stessa, attraverso le troike, ecc, distribuisce titoli (populismo, ecc), cioè vede ideologia dove ci sono persone (es. Grecia, invalidi in Italia).
STORIA DI COME SI È SVILUPPATA LA DIALETTICA TRA FINANZA E DEMOCRAZIA
La sfida tra l’immaginario totalizzante della finanza e la democrazia è cosa nuova? La risposta ha a che fare soprattutto con il concetto di democrazia. Crf. G. de Luna, La Resistenza perfetta. Nella Resistenza, nonostante la situazione fosse molto dura, e le differenze profonde, si era creato un immaginario che si fondava sulla possibilità di creare una società in cui la diversità non fosse un ostacolo ad un progetto comune. Lì incomincia una democrazia che ha prodotto qualcosa di perfetto – un progetto, la Costituzione e anche molti interlocutori che si sono posti progressivamente come gestori del progetto, un progetto del vivere umano sulla base dei diritti sempre da “aprire” mai da ritenere conclusi. L’idea di “avere la democrazia” ha prodotto ad un certo punto quella di essere dei privilegiati: poter “esportare” la democrazia, non importa come (Iraq, Libia) poter continuamente ricominciare, ogni volta che qualcosa crollava. Così si è continuato fin negli anni settanta (con le leggi per la laicità dello Stato, diritti dei lavoratori, SSN 1978 - L.883, con la 180 -Legge Basaglia- “l’istituzione negata” …) ma progressivamente si è perso il senso del progetto, si è diventati gestori di una forma in cui le persone sono cancellate. Questo processo è da analizzare con molto senso critico, perché ha a che fare con il rapporto che c’è tra universale e globale. C’è il rischio che qualcuno, sfruttando le suggestioni del concetto di universale, si dichiari tale -come la finanza- per sostituire il diritto universale che è quello che arriva a tutti, con un diritto “globale”: per definizione il globale non ha nulla a che fare con le persone, ha a che fare invece, come la teologia “dogmatica”, con “entità” (il commercio, i beni, le merci, …). Due passaggi sono stati importanti in questo senso per il TPP. Il caso di un’entità “inesistente”, il popolo Sarawi: popolo nomade nel deserto, popolo che non c’è, non ha fatto in tempo ad essere colonizzato, non aveva stato, e neppure la scrittura; poi nel deserto si scoprono i fosfati. Il popolo Sarawi chiedeva di essere riconosciuto come popolo. Il TPP chiude la sua sessione sui Sarawi con un documento in cui si afferma che i diritti universali degli individui non si possono rispettare se non si crea un contesto in cui questi diritti possano essere rispettati, se non c’è la democrazia o se la democrazia è solo formale. Il problema che si è posto per il diritto è come applicare a un mondo in cambiamento un diritto immaginato per un mondo post coloniale e in democrazia, quando le democrazie che c’erano intorno non sapevano come riconoscere un popolo che non c’era. Così si è affermata l’idea di considerare il diritto come una disciplina che, come le altre, e più delle altre, è una disciplina di ricerca, che pone domande che non sono ancora state risolte: inventare diritto, (es. diritto del lavoro e delle persone, trent’anni di lotte). Il diritto non lavora mai senza lotte; senza lotte delle persone il diritto è una trappola perfetta perché dà l’idea di avere tutte le regole e le procedure per cui poter dire che fa le cose “legalmente”, ma ha una certa difficoltà a porre la domanda di fondo, la domanda su se stesso, sulla propria legittimità. La Costituzione - da cui nasce il diritto - è nata non da una procedura, ma dagli uomini che hanno fatto la Resistenza. Della domanda di fondo, relativa alla legittimità del diritto, si è parlato molto nel TPP quando c’è stata la celebrazione della scoperta (o conquista) dell’America; si andava là per interessi di potere, non per portare civiltà, ma per evangelizzare: chi veniva “scoperto” chi si incontrava non era un altro come te, ma uno che o si trasformava nella tua immagine o doveva essere distrutto. Nella sentenza del TPP (1992 - La conquista dell’America e il diritto internazionale) si afferma che quello che nel diritto internazionale occorre cambiare non sono regole singole, ma la pretesa che ci sia un diritto per definizione super partes perché proclamato dagli stati che hanno il potere per fare leggi universalmente valide: il diritto di evangelizzazione era, di fatto, il diritto di commercio. Sempre in quella sentenza si afferma che c’è legittimazione del diritto solo là dove ci sono delle lotte di popoli che hanno delle persone alla loro base, non delle idee. Quello che noi viviamo oggi è questa grande sfida. Si è svuotato pian piano il contenuto della parola diritto, e ciò lascia alcune parole come simulacri, pericolosi perché possono essere ripetuti come se fossero esistenti: uno è quello delle Nazioni Unite, come luogo di formulazione di leggi per il futuro dei popoli, che invece, pian piano, è stato svuotato; il passaggio critico è stato quello per cui le N.U. hanno approvato la guerra. La legittimità, non la legalità, delle N.U. è basata sul fatto che la Dichiarazione universale è fatta perché non ci sia più guerra e che per arrivare a dichiarare una guerra deve esserci un attacco preciso a dei diritti fondamentali. Al contrario, tutte le diverse decisioni (Iraq, Libia, …) – anche se ora molto criticate - hanno svuotato di fatto il meccanismo di verifica della legittimità. Questa tendenza è in atto dagli anni settanta quando stava sorgendo, accanto al potere pubblico dell’economia, un potere privato che pian piano si sottraeva alle leggi degli stati: la libertà del commercio permette loro di autoregolarsi e iniziano le guerre economiche, cioè quelle guerre che sono dichiarate senza che ci sia una possibilità effettiva di controllo da parte degli Stati. La prima legislazione delle N.U. sulle multinazionali viene cancellata e si crea un potere transnazionale, fuori dalla legislazione degli Stati. Il mondo ha incominciato negli anni 90 a chiamarsi globale (Rapporto banca mondiale ‘92 e ‘93). Nel ‘96 viene pubblicata la mappa del mondo della sanità (importante perché introduce nel linguaggio il concetto di globalizzazione), e l’idea che c’è qualcuno a livello centrale che controlla tutto. La banca mondiale “compra” università facendole lavorare per sé e facendo fare rapporti globali (global maps), in cui si scopre che dove si è più poveri si sta peggio di salute. Quindi si dice che gli stati non possono più essere responsabili dei servizi pubblici: solo chi ha in mano anche i dati della condizione economica può giudicare salute, educazione, diritti. Si applica poi la tecnica della shock economy (es. Indonesia - Report) per condizionare l’economia di alcuni paesi ad essere dipendente e funzionale all’economia globale. E’ cambiato tutto uno scenario.
Le organizzazioni centrali e gli stati almeno formalmente democratici sono stati svuotati del loro ruolo di promotori di diritti sostanziali e di democrazia e diventano alleati delle trasformazioni economiche. In questo processo la democrazia cala a picco nella sua capacità di rappresentare le persone e di permettere un dibattito di idee. La finanza rende il potere economico ulteriormente virtuale. Un altro meccanismo è quello di creare sempre più aree commerciali in cui i trattati commerciali sostituiscono di fatto le Costituzioni e le leggi degli Stati. Lo Stato formalmente c’è (es. Messico), ma è svuotato. E’ stata decretata la non legittimità di esistere delle persone: le persone tornano ad essere soggetti di diritto solo quando sono soggetti economici. Siamo parte di un processo in cui, in qualche modo, tutti noi siamo stati trasformati in migranti: conquistiamo il nostro status di cittadini se per un certo tempo obbediamo alle regole (es. jobs act). Come ricondurre il diritto al servizio delle persone? Qual è il ruolo che possiamo avere come individui o come appartenenti a gruppi? E’ possibile portare avanti progetti, e soprattutto un disegno condiviso, al di là della diversità? Dobbiamo accettare una sfida molto radicata sulle cose concrete, con la consapevolezza che stiamo lavorando anche a livello di cambiamento immaginario di mente e che dobbiamo fare i conti anche con uno sviluppo di ricerca intellettuale e di linguaggio e attraverso i progetti, un linguaggio che alfabetizza.



Documento finale sulle proposte emerse dai Seminari 
a cura della commissione finanza
 
Cari amici del coordinamento nazionale, agli inizi di giugno la commissione finanza e i referenti dei 5 seminari sono stati gentilmente ospitata da Magda nella sua casa di Camaiore per raccogliere gli esiti dei nostri 5 seminari svoltisi nel mese di maggio.
Sono stati due giorni intensi in ogni senso e proficui soprattutto di speranza. Risultati della due giorni sono stati:
Una relazione di sintesi dei cinque seminari, redatta poi da Ercole Ongaro per essere pubblicata sul notiziario “In Dialogo”;
Un prospetto di raccolta delle proposte operative dei seminari.
Nei giorni successivi, quest’ultimo è stato rivisto dalla commissione e in un ulteriore incontro via Skype della stessa, presente anche Maria Picotti per la segreteria, si è deciso di portare al coordinamento una sintesi di tale prospetto poiché le proposte erano tante e rischiavamo di rimanere sul vago. Pertanto facciamo la seguente proposta:
A livello individuale: 
scegliere di non intrattenere rapporti con una grande banca, ma aderire come soci e come correntisti a Banca Etica (o a una Banca di credito cooperativo/BCC); 
investire risparmi senza l’assillo del rendimento finanziario;
una scelta etica nel settore finanziario è una scelta coerente con la lotta alla finanza speculativa.
A livello locale:
vadano sicuramente avviati percorsi di costruzione di Distretti di Economia Solidale, piccole comunità che cominciano a vivere concretamente scelte alternative al sistema; ciascuno/a di noi può operare delle scelte che vanno nella direzione indicata dai seminari in quanto già diverse associazioni sono presenti su quasi tutti i nostri territori alle quali la Rete può rivolgersi per operare queste scelte. Oltre le scelte personali ed attraverso esse, la Rete deve continuare a dar voce ai senza voce ed affiancare un suo costante aggiornamento ed operare una corretta informazione e sollecita comunicazione per indicare le vie possibili da percorrere secondo le opportunità che offre il territorio in cui si trova ad operare.
Sempre a livello locale, tessere rete con altre realtà, per creare percorsi di formazione nelle scuole; già in diverse realtà nazionali la Rete, da sola o insieme ad altre associazioni lavora all'interno delle scuole. Pisa e Viareggio ne sono esempi, replicare sempre più questi percorsi (un suggerimento potrebbe essere quello di intersecarsi con i percorsi di formazione di Libera).
A livello nazionale: 
sicuramente avviare il lavoro con il TPP con l’utilizzo del questionario proposto;
seguire con urgenza la campagna STOP-TTIP; 
seguire campagne già esistenti sul problema  della finanza speculativa, ce ne sono di già avviate dalla FCRE (Non con i miei soldi. Zerozerocinque) ed in particolare come rete abbiamo già aderito alla DIP che si occupa anche di questi temi e non sarebbe male dare concretezza a quest’adesione, cioè diventare punti di riferimento locali delle campagne realizzando momenti informativi e realizzando le iniziative che il percorso nazionale propone (raccolta firme, richiesta di adesioni agli enti locali, ecc…); a Salerno, ad esempio, abbiamo deciso di tornare in piazza mensilmente
Il tutto andrebbe accompagnato da un’esplicita denuncia della finanza speculativa; cosa che verrà sicuramente fatta portando avanti la relazione RRR-TPP per una eventuale futura sessione del Tribunale sulla "Finanza Criminale", ma si potrebbe anche redigere un documento ufficiale, da diffondere a stampa, associazioni ed istituzioni, in cui si esprime la nostra denuncia spiegando le motivazioni del percorso che la Rete ha intrapreso e le iniziative che si andranno a realizzare e/o sostenere.
Come si propone anche di denunciare l’informazione faziosa e criminale che riceviamo dai nostri media sostenendo e magari moltiplicando quelle realtà di giornalismo civico partecipativo: replicare esperienze della Rete come quella de “I Cordai” a Catania e dei “Fili di Canapa” a Torino, ma anche il MOVI ha avviato un tale percorso con “moviduepuntozero”. Chi volesse dare seguito coerente a questo punto può seguire il seminario di Scuola di Alta Formazione che si terrà a Viareggio nella prima metà di novembre (13-14) e di cui Magda ci darà informazione appena ultimato il programma.  
Per quanto riguarda i migranti, questo punto è forse il più complesso da considerare poiché è in continuo mutamento e molto spesso ci troviamo impotenti nell’affrontarlo e viverlo. Molti sono gli eventi a cui siamo chiamati. Ovviamente sollecitiamo coloro che vivono in territori dove volutamente tutto tace ad affrontare coraggiosamente il tema delle culture altre e dell'accoglienza del diverso, supportati da quelle realtà della Rete che già vivono esperienze importanti in tal senso. Ma questo è un tema che va considerato momento per momento. 
Comunque dai seminari sono emerse queste due proposte:
sostenere l’appello per il corridoio umanitario del Vaticano e oggi anche alla luce dell’appello del Papa potremmo aggiungere di promuovere e/o collaborare ad iniziative di accoglienza;
organizzare eventi che siano occasione di conoscenza reciproca ed informazione per la comunità locale sul fenomeno immigrazione, anche attraverso strumenti come docu-film e mostre interculturali.
Per fare tutto ciò ci sembra indispensabile che si avvii per ognuno di noi un processo di autoeducazione e di cambiamento dei nostri stili di vita così che agli altri si possano raccontare esperienze e non parole: anche questo è fare politica. 

Seminario nord est 12 Maggio 2013

 

Convento Servi di Maria – Isola Vicentina

Senza memoria c’è futuro? Quale solidarietà?

– Relazione di Michele Nardelli, si occupa di cooperazione da più di 20 anni, è stato tra i fondatori dell’Osservatorio Balani e Caucaso, presidente Centro per la Pace di Trento e coautore del libro Darsi il tempo, EMI; attualmente è consigliere provinciale a Trento.

– Confronto e interventi dei partecipanti

– Intervento preordinato di Emilia Ceolan, Movimento Laici America Latina

“…in questo progresso scorsoio non so se vengo ingoiato o se ingoio” Zanzotto

Michele Nardelli ci conduce a trovare le radici del nostro presente nell’analisi di eventi del ‘900 attraverso una indagine sul senso della cooperazione e il significato di parole come  Pace e Diritti Umani: cosa trasmettono oggi queste parole? Parole banalizzate e svuotate di significato (in nome della pace si fanno le guerre…).

Sono qui riportate alcune osservazioni espresse nella relazione e negli interventi dei partecipanti.

Per quanto riguarda la parola PACE, Nardelli cita anche alcuni versi del poeta francese Rimbaud, in cui  il ‘900 è definito “il tempo degli assassini”:

$1-         Le guerre del ‘900 hanno causato un numero di vittime tre volte superiore al numero di  morti di tutte le guerre di tutti i secoli precedenti: i sistemi della produzione industriale di massa sono stati applicati alla guerra causando “morti di massa”. Si riflette poco su cosa è accaduto nel ‘900: la Shoah, i Gulag, Auschwitz e la Kolima…

$1-         Le nuove guerre nascono dalla convinzione che “il nostro stile di vita non è negoziabile”, sono guerre per il possesso non solo del petrolio, ma anche  dell’acqua, della terra… della vita.

$1-         Oggi non sono tanto gli eserciti che si combattono tra loro, le guerre si accaniscono contro i civili, contro le città (“urbicidio”), i luoghi della civiltà e della cultura.  Esempio emblematico furono i bombardamenti e l’assedio di Sarajevo città che rappresenta l’incrocio tra Oriente e Occidente. Con l’assedio e il bombardamento di Sarajevo si voleva minare l’idea di un’Europa dell’incontro e delle differenze (vale lo stesso per Baghdad e Timbuctù). Cancellare Sarajevo voleva dire cancellare la sua storia e la cultura islamica: in poche città si trovano chiese cattoliche, ortodosse, moschee e sinagoghe insieme come a Sarajevo.  Anche le mafie si accaniscono contro le culture.

$1-         Vi sono inoltre lati incomprensibili della guerra, una “banalità del male” che accomuna criminali e vittime. E’ facile dare giudizi quando non si è coinvolti. Purtroppo nel coinvolgimento scatta anche una forma di “felicità della guerra”, del massacro, talvolta anche come forma di autodifesa. Ciascuno di noi è al tempo stesso vittima e carnefice. Tutti dobbiamo darci una regolata perché non possiamo scaricarci ‘contro’. L’impegno per la pace non può esaurirsi nel partecipare a manifestazioni, bisogna indagare sull’aggressività e sulla solitudine alla radice dell’amore per la guerra.

$1-         E’ necessario procedere alla elaborazione del conflitto: anche la Cooperazione internazionale insegue l’emergenza ma non si cura della difficile elaborazione del conflitto. Non possiamo rimuovere il problema immaginando che l’assenza di guerra sia pace. La riconciliazione è un problema complesso, poche esperienze nel mondo (si veda quella in Sud Africa): costruire una narrazione condivisa di quanto è accaduto è molto difficile.

$1-         Gli aiuti allo sviluppo sono forme di neocolonialismo. Spesso gli aiuti ai “paesi poveri” sono interventi che portano vantaggi ai paesi che li offrono e alla loro economia: è la banalità del bene, un modo per riappropriarsi degli investimenti definiti “aiuto allo sviluppo”.

$1-         La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) fu un compromesso tra il capitale e il lavoro, in effetti i 4/5 della popolazione mondiale non erano rappresentati. Ora la situazione è cambiata, basti pensare ai BRIC (Brasile, India, Cina). “Diritti umani”: termine da riconsiderare; bisogna interrogarsi sull’esigibilità dei diritti, alcunidiritti che diamo scontati per noi, entrano in conflitto con i bisogni di altri popoli.

$1-         Pacifismo e cooperazione sono in crisi. E’ necessario cambiare il nostro sguardo sul mondo e fermarsi a capire i processi di trasformazione: non rincorrere le emergenze, ma capire, conoscere, costruire relazioni, “fare insieme” non semplicemente “aiutare”. E necessario superare la logica del “proiettificio”, del “benefattore” e del “beneficato”.

$1-         Non c’è una divisione geografica tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati, un Nord dove i diritti sono assicurati e un Sud sottosviluppato. In ogni luogo o paese esistono aree e situazioni di sviluppo e sottosviluppo contemporaneamente. Non paesi poveri, ma paesi “impoveriti”. Gli aiuti allo sviluppo sono la forma del neocolonialismo che impone modelli di sviluppo nostri.

$1-         Osservando “le primavere arabe” abbiamo imparato che l’Islam politico non è fondamentalismo, ma la messa in discussione del colonialismo. Concetto non si stato ma di “bene comune”.

$1-         L’autogoverno fa parte del concetto di “decrescita” (nel limite è la misura del futuro) e di autonomia di pensiero. Come pretendere autonomia, quando noi stessi  non siamo autonomi?

$1-         Rapporto tra autogoverno e indipendenza: la parola chiave dei diritti umani è “autodeterminazione”: rivendicazione di autogoverno piuttosto che indipendenza. Non la creazione di nuovi confini, ma autogoverno cioè superamento dell’idea di stato nazione (v. 1 gennaio 1994: Chiapas).

$1-         Capacità di reinventare i diritti:  proposta di dichiarare il Kosovo “prima regione europea”. Pensare all’idea di “cittadinanza mediterranea”: le culture che si sono scontrate sono state la linfa che ha alimentato la nostra civiltà. Per cui è necessario superare il concetto di “aiuto” per recuperare il concetto di “fare insieme”, spendere tempo per conoscersi, sedersi e prendere il caffé insieme per conoscersi reciprocamente.

$1-         Necessità di superare gli stereotipi (es. gli africani sono tutti poveri). Valido il concetto di  ‘restituzione’.

Alcune conclusioni:

$1-         Siamo immersi in una trasformazione rapidissima: è necessario modificare il nostro sguardo: guardare dal di dentro e dal di fuori. Guardare la mia terra con occhi diversi. Non tentare di dare risposte “nostre” ai bisogni altrui, ma al bisogno di relazione e interdipendenza. Fermarsi a capire quello che accadrà, non rincorrere i programmi (intercettazione di bandi per la cooperazione che si inseriscono nel processo di finanziarizzazione).

$1-         Due le dimensioni che contano oggi, quella sopranazionale e quella territoriale. Mettere in relazione il proprio territorio con il resto del mondo.  Privilegiare la lettura del “nostro mondo”;  approfondire il tema di “modificare qua”.

$1-         La crisi dei partiti nasce dalla crisi dello stato nazionale: si può pensare a una struttura sovranazionale che però valorizzi l’autonomia territoriale.

$1-         La cooperazione passa attraverso la conoscenza reciproca Cooperazione come costruzione di relazioni, invece di rincorrere l’efficienza degli aiuti offerti con i nostri criteri.

$1-         Lo stato centralista ha prodotto la burocrazia. Recuperare una “politica locale”. Riprendere il nostro territorio. Necessario recuperare il presente recuperando le  radici della tradizione e  forme di auto-organizzazione del territorio.

$1-         Recuperare le regole di come nel passato veniva “curato” il territorio

$1-         Sostenere la formazione delle classi dirigenti. Approfondire l’idea di “buen vivir”, transizione o decrescita.

$1-         Sostenere la cultura e la bellezza e quindi: guardiamoci in casa, abbiamo bisogno di contribuire alla formazione delle nostre classi dirigenti. Investire in cultura e nelle classi dirigenti.

Emilia Ceolan

Insiste anche lei sulla necessità di riflettere e investire nelle relazioni: senza conoscere profondamente, non si può intervenire nella realtà. E necessario un rapporto di “reciprocità”.

Sostegno dell’educazione popolare, non con progetti proposti o imposti, ma seguendo i processi che stanno avvenendo e tenendo conto dei cambiamenti che nei decenni sono avvenuti.

Libri citati che possono essere utili :

M.Cereghin, M.Nardelli, Darsi il tempo, ed. EMI

James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi

Samir Kassim, L’infelicità araba, Einaudi

Pagine a cura di Mariarosa,  Sandra e Marianita.

Seminario centro sud 4 Maggio 2013

 

Chiesa della Sanità – Napoli

La solidarietà è rete

Sabato 4 maggio 2013 si è svolto, nel rione Sanità di Napoli, il seminario della Rete Radia Resh del centro-sud. Non parlo più di centro-sud-ovest, perché la prima grande cosa bella di questo seminario è stato il contattare gli amici della Puglia e percepire in loro la grande gioia di sentirci e di partecipare. Eravamo presenti: Angela e Radj da Polignano; la rete di Salerno con Margherita, Giovanni, Anna, Luigi, Lucia, Gabriella e Gennaro (referenti del percorso in Nicaragua) e Lella, amica del percorso che la rete con altre realtà salernitane; la rete di Napoli/Pozzuoli con Teresa, Carla, Mariella, Pina, Franco, l’amico Eugenio, presidente del MEIC di Pozzuoli che cammina con la rete e la fondatrice Ada, non presente fisicamente, perché la salute non le permette più di muoversi, ma con lo spirito, il cuore ed una bellissima lettera che allego; Ermanno di Pratella(CE), vecchio amico della Rete; la rete di Roma con Anissa, Mauro, Angelo e Raffaella; la rete di Cagliari con Pierpaolo e due sue amiche di Ponticelli; Silvana, Vincenzo e Felicetta amici della comunità di Michea e naturalmente il nostro ospite Alex Zanotelli. Ci siamo incontrati ed accolti con grande entusiasmo condito da caffè salernitano e sfogliatelle napoletane. Accomodatici in cerchio nella stanza dove ogni terza domenica del mese la comunità di Michea si incontra con la Parola di Dio e la spiritualità concreta di Alex Zanotelli, ci siamo presentati raccontando anche un po’ delle varie reti locali e a Mauro Gentilini abbiamo lasciato la narrazione della storia della Rete, per gli amici ospiti ma anche per tutti noi, la memoria delle figure ispiratrici ravviva le motivazioni dei nostri percorsi. In questo ci ha aiutati anche Pierpaolo che ha suddiviso la storia della Rete in tre periodi. Introduco, quindi, il tema del seminario: la Rete l’anno prossimo compirà cinquant’anni e vuole approfittare di quest’occasione non per autocelebrarsi ma per trasformare la memoria in strumento di riflessione sul senso e sul come fare solidarietà oggi e domani, e vuole farlo in un percorso, dai seminari al convegno 2014, di confronto interno ed esterno. La parola quindi ad Alex che, dopo il suo affettuoso buongiorno di benvenuto e il ringraziamento per quanto fatto dalla Rete in questi anni, in particolare anche per Korogocho, ci ha subito lanciato una domanda per la nostra riflessione pomeridiana: “Come mai la Rete si è sviluppata soprattutto al Nord? Perché al Sud abbiamo più difficoltà a metterci insieme, mentre saremmo quelli che ne avremmo maggiormente bisogno, soprattutto in questo momento in cui è soprattutto il Sud a vivere la crisi?”.  Quindi ci ha fornito due presupposti fondamentali per parlare di solidarietà.

$1-         IL MISTERO. Tutto ciò che facciamo deve fondarsi su un valore, per i credenti può essere il trascendente, l’amore, per i non credenti l’ideale; l’uomo è essenzialmente anche un animale religioso e quindi non può resistere, soprattutto in questo mondo attuale, senza una mistica.

$1-         L’indispensabilità di leggere e conoscere il contesto in cui viviamo e verso cosa stiamo andando: la finanza ha preso il sopravvento sull’economia con un conseguente scollamento  tra economia reale ed economia virtuale; siamo, purtroppo tutti, inseriti in un sistema (o’ sistema) che permette ai pochi ricchi di avere sempre più e questo sistema è protetto dalle armi (in particolare l’atomica) e pesa sul pianeta con conseguente crisi ecologica; andiamo verso l’uso sempre più ampio delle BIOMASSE, gli scienziati potranno sempre più riprodurre tutto, vita compresa, in modo artificiale; ci troviamo quindi  di fronte ad una grave crisi antropologica.

Alex continua la sua riflessione rispondendo alle domande traccia del seminario. Parte, naturalmente, dal gruppo “quale solidarietà oggi”. Prima di tutto ci esorta ad eliminare dal nostro linguaggio parole come “sud del mondo” non esiste più un sud e un nord, siamo un unico mondo in difficoltà e quindi la solidarietà va pensata globalmente, siamo tutti strettamente interdipendenti, gli egoismi vissuti nell’occidente hanno avuto ed hanno i loro effetti nei paesi impoveriti ma ormai si ripercuotono anche su di noi. Per evitare una solidarietà assistenzialista bisogna fare una seria critica alla cooperazione fatta finora, alla missionarietà e porre come fondamento il camminare con chi ha bisogno e l’esserci dentro. Essere consapevoli che nonostante i nostri sforzi siamo tutti immersi in questo sistema macroeconomico sbagliato e che per uscirne realmente c’è bisogno di cambiamenti radicali. I bisogni delle persone non giustificano qualsiasi modo di raccolta fondi, è dura ma bisogna saper dire di no, perché è molto facile essere comprati…  E’ fondamentale che mentre i nostri referenti lavorano nei paesi impoveriti, noi, qui, agiamo sulle strutture che producono povertà, ma ancora non riusciamo ad incidere, ancora non riusciamo a praticare questo tipo di solidarietà. Così, per rispondere alle esigenze delle comunità marginali, soprattutto di stranieri, esistenti nelle nostre città, dobbiamo agire perché salti la legislazione italiana: Turco-Iervolino, Bossi-Fini, decreti Maroni. Altro aspetto fondamentale della solidarietà oggi è educare alla solidarietà, intervenire nelle scuole e nella cultura, per l’impegno politico Alex ci propone di avere un sogno, per lui come credente è quello di Dio che desidera per noi un economia di condivisione e di equità e questo presuppone una politica con la P maiuscola, i partiti devono essere nostri interlocutori, ma restarne liberi. Il nostro impegno politico deve essere quello di premere sulle istituzioni creando reti e cittadinanza attiva attraverso l’informazione e la coscientizzazione. Riguardo la guerra e le spese militari Alex ci fa una proposta concreta: promuovere, a partire da noi, una campagna di uscita dalle banche con lettera di motivazione. Le iniziative finora promosse non riescono a decollare, forse la Rete potrebbe essere il motore giusto. Rispetto alle altre associazioni, della rete Lilliput non è rimasto quasi niente: protagonismi, personalismi e carrierismi ne hanno impedito lo sviluppo, la RRR invece ancora  resiste e dobbiamo essere noi ad aiutare a fare rete, perché la strada della RRR è quella giusta, ma il momento è più duro e la sfida più difficile e in questo può aiutare proprio la memoria. Dopo una necessaria sgranchita di gambe e sorso di caffè passiamo alla chiacchierata con Gabriella e Gennaro, la chiamo chiacchierata perché proprio loro ci hanno chiesto di condividere in questo modo la loro esperienza di solidarietà in Nicaragua. E così è statofin dalla parola “progetto”. Gabriella e Gennaro contestano questo termine perché dalla loro esperienza hanno imparato che, mentre un progetto ha una meta e quindi una fine, la solidarietà è un percorso, uno stare lì ad ascoltare e pazientare. Sollecitare la crescita di una comunità assecondando anche i passi indietro, esprimendo il proprio disappunto, esortando, ma senza sostituirsi: percorso duro ma che hanno scoperto essenziale, mettendolo continuamente a vaglio critico, ci dicono, per questo, loro non se la sentono di poter rispondere alle nostre domande traccia, perché non c’è una via, una verità, ma è camminare insieme. Anche essi però come Alex, ritengono che il fare “rete” sia indispensabile. Sulla parola “progetto” c’è stato confronto, in particolare con  Anissa perché forse per la rete la parola ha un po’ il significato di percorso, mentre Gabriella e Gennaro hanno presente, per esperienza, i progetti delle ONG. Ma c’è un altro aspetto da considerare e cioè le situazioni diverse in cui ci si ritrova ogni volta. Quando Anissa, ad esempio, ha detto che la rete cerca di realizzare progetti richiesti dalle comunità, G&G ci hanno spiegato che nella loro situazione questo non accade, perché non sono ancora comunità, sono persone strappate dalla loro realtà, senza storia e tradizione. Da qui sono venuti due aspetti importanti della solidarietà: l’ascolto e la storia del popolo. Per questo Radj suggeriva che forse per fare comunità bisognerebbe pensare sin dal primo momento ad aiutare le persone a scoprire la propria storia e la propria cultura, quindi l’istruzione. A questo punto Giovanni di Salerno ha voluto introdurre un aspetto importante per lui e cioè che per fare solidarietà oggi bisogna essere e rendere consapevoli tutti, che ciò che ci sta succedendo oggi è un piano, e ce ne sono le prove, progettato e messo in atto da tempo da una regia che ha nomi e cognomi. Abbiamo interrotto questa riflessione perché il tema è molto importante e una pausa ai lavori era ormai necessaria. Segue una meravigliosa pausa pranzo. Meravigliosa per la convivialità e per la genuinità sia dello stare insieme che del cibo. In piedi, a buffet, in un’altra stanzetta della Basilica di Santa Maria della Sanità o Convento del Monacone, abbiamo gustato un gateaux di patate salernitano; dal casertano pane casereccio, formaggio, fave e vino; pizza e taralli napoletani; una torta e una crostata deliziosa da Salerno; acqua del rubinetto e nessun rifiuto di plastica, tutto con il modico contributo di 5€ a testa. Era così bello quel modo di mangiare e dialogare insieme, che non è stato facile rimetterci a sedere e riprendere i lavori. I lavori si sono riaperti dalla domanda che Alex ci ha lanciato all’inizio: “perché la rete si è sviluppata soprattutto al Nord e non al Sud dove ce ne sarebbe più bisogno?”. Qui è subito intervenuta Angela di Polignano, dove la rete da tempo non ha contatti col nazionale ma vive delle importantissime esperienze di solidarietà nel territorio con lo spirito della rete. Angela ha esplicitamente detto che il loro allontanamento è stato dovuto alla costatazione di una forte diversità tra la rete del nord e quella del sud, perché diverse sono le due realtà e da parte del nord non c’è stato ascolto e quindi difficoltà di comprensione di questa differenza: i giovani del sud senza lavoro, non potevano e non possono oggi ancor più, fare l’autotassazione per progetti fuori dal proprio territorio in difficoltà e si aspettavano che le reti del nord avessero aiutato ad essere RRR in un altro modo. È mancata la solidarietà all’interno della rete. Gli interventi a seguire sono stati molto vicini a questo argomento, si è visto che anche altre esperienze di solidarietà sono in difficoltà perché manca l’amicizia nel gruppo, nel territorio. L’amica Lella, dell’associazione Paideia di Salerno, aderente al MoVI, ci esortava ad intraprendere e/o ad intensificare questa riflessione che stiamo facendo in vista del convegno del 2014,  immediatamente con le altre realtà che sul territorio stanno facendo lo stesso: purtroppo questo lavoro di rete sul territorio risulta più difficile del tessere relazioni con una comunità lontana, ma è necessario per il qui e il là. Da qui proposte concrete di costruire reti e comunità, Alex insiste che il futuro del mondo (e della Chiesa) saranno piccole comunità che tentano di vivere un’economia sempre più distaccata dal sistema e che quindi testimoniano che si può vivere fuori da questo sistema. Questa è stata anche la risposta al tema introdotto da Giovanni a fine mattinata, da più voci è emersa la pericolosità di parlare di questa regia, che, perché incomprensibile, può indurre alla rassegnazione, mentre testimonianze di vita altra e di boicottaggi possono costruire speranza e reazione. Passando al tema dei giovani, del perché non sono nella Rete, anche qui abbiamo rilevato mancanza di ascolto delle nuove generazioni. Abbiamo riflettuto sul nostro modo di svolgere i coordinamenti e i convegni, molto spesso avviamo i lavori senza tener conto che ci sono nuovi amici e usando un linguaggio un po’ chiuso, forse temendo di essere contaminati da altro. Alex ha voluto salutarci con la lettura dei primi cinque versetti del cap. 21 dell’Apocalisse (seconda lettura della liturgia della domenica successiva) invitandoci a leggere e vedere cieli e terre nuove qui e non nell’aldilà, cieli e terre nuove che si realizzeranno se noi lo vogliamo e attraverso le nostre scelte. Quindi la recita del Padre Nostro tenendoci per mano e attraverso quelle mani una scossa di energia e di incoraggiamento per il prosieguo del nostro cammino. Credo che il seminario sia già stato un’esperienza viva di solidarietà, un’occasione per il sud di ritessere rapporti, quante telefonate con Teresa e i contatti ripresi con gli amici pugliesi, è nato il desiderio di rivederci quest’estate e cercare di tessere un percorso di amicizia e di Rete del sud. Ringrazio per questo chi, in particolare Anissa e Pierpaolo, ha spinto perché il seminario si facesse tra Napoli e Salerno. All’inizio ci sembrava impossibile, ma la temerarietà ci ha permesso di vivere un’esperienza che lascerà segni e frutti in ognuno di noi.

Con affetto

Lucia Capriglione

Seminario nord ovest 12 Maggio 2013

 

Genova, c/o Comunità di San Benedetto al Porto

Ore 9,30-10,00 accoglienza con focaccia genovese, tè e succhi di frutta. Alle 10,00 cominciamo i lavori, sono presenti le reti di: Genova Sergio F, Armando S. ed altri amici; Quarrata: Antonio, Sergio, Mariella, Patrizia; Pisa/Viareggio: Franca Rosa, Giusi, Giorgio G, Claudio, Angela, Rosita, Enrica, Giorgio M, Teresita; Piacenza: Teresa; Torino: Maddalena, Maria, Francesco, Barbara; Alessandria: M. Teresa, Gigi, Mario;Casale: Roberto, Piera, Claudio, Jennifer, Paolo, Beppe, Mariachiara, Cristiana; Milano: Irene, Gloria, Dino, Liviana, Silvia, Maurizia; Saronno:Daniela, Giulia, Alessandra. M. Teresa introduce. Prima delle ore 13 avremo la testimonianza di un rappresentante della Comunità di San Benedetto al Porto, che ci ospita, don Gallo è appena rientrato dall’ospedale dove è stato ricoverato per cure e accertamenti, chi desidera potrà incontrarlo durante la celebrazione alle ore 12, in Parrocchia (è il nostro ultimo incontro!). Ogni rete racconta la propria storia (a disposizione un verbale dettagliato). ALLE ORE 12, CI RAGGIUNGE MARCO DELLA COMUNITA’. Don Gallo è a casa e sta meglio (purtroppo poi ci lascerà). La Comunità ha 45 anni di storia: nasce in seguito all’allontanamento di don Andrea dalla parrocchia del Carmine, dove non era ben accetto dal ceto “borghese”, le parole del Vangelo venivano lette e commentate, durante la Messa, affiancate ai fatti quotidiani raccontati sui giornali. Nonostante buona parte del quartiere fosse sceso in piazza, don Gallo deve lasciare, viene accolto dal parroco della parrocchia di San Benedetto al Porto e questo diventa il quartier generale della futura Comunità, perché don Andrea, riceve e accoglie chi con i suoi problemi bussa alla sua porta. Negli anni ’80 era forte il problema della tossicodipendenza e la comunità si specializza su questo aspetto, ma non trascura le altre sofferenze e povertà, compresa la tratta umana e i rifugiati politici. Le persone accolte vengono subito reinserite nel territorio e fanno percorsi che li aiutano a reintrodursi nel tessuto sociale. I finanziamenti arrivano dalle rette delle ASL, dalle Regioni e dal lavoro di tutti all’interno dei diversi progetti di recupero, dall’autogestione (falegnameria, legatoria, prodotti delle terre tolte alla mafia) e anche da donazioni di privati o fondazioni. Oggi sono cambiati gli utenti, sono cambiate le dipendenze, oltre alle nuove droghe sintetiche c’è la dipendenza da gioco d’azzardo, l’alcolismo è più diffuso e grave. La costruzione di Comunità di riferimento è la sfida per il futuro della Solidarietà.

I gruppi

Al pomeriggio si formano i gruppi: in uno viene affrontato in particolare il tema della scuola come luogo di trasmissione di valori e dal quale partire per educare alla solidarietà. La Rete di Saronno ha presentato il progetto nato attraverso Waldemar Boff a Petropolis, in Brasile, a seguito dell’esperienza di Giulia la quale ha trascorso alcuni mesi presso la comunità Agua Doçe nella Baixada Fluminense (una delle favelas più grandi del Brasile) lavorando come volontaria in uno degli asili nido della comunità. Il progetto ha visto il coinvolgimento di circa 200 bambini di scuole materne e asili nido del comune di Saronno. È stato creato uno scambio di “informazioni”, un dialogo, con i bimbi di Petropolis sviluppando alcuni temi legati al contesto sociale, ma anche ai loro sogni per un vivere migliore, attraverso disegni colorati e pensieri. Siamo rimasti particolarmente colpiti dai disegni dei bimbi brasiliani di 2 e 3 anni i quali, con tratti semplicissimi, riuscivano ad esprimere il loro disagio di fronte ad una realtà dura, ove erano rappresentate scene di violenza, di uso di armi, rapine, guerra di strada. Quale rapporto con le istituzioni e con la politica in Brasile? Come rendere le operazioni autosufficienti? Esistono realtà (es. cultura e sanità), che difficilmente potranno raggiungere tale obiettivo. Che fare? La nostra riflessione si è rivolta al bisogno fondamentale di “educare” i ragazzi alla solidarietà partendo proprio dalla scuola, portando testimonianze, esempi concreti, conoscenza. Dino, dell’Associazione Bottasini di Carugate, ha raccontato la sua esperienza nelle scuole. Dino e Gloria seguono da più di 30 anni piccole comunità del Nicaragua (RRR sostiene uno dei loro progetti in Nicaragua, ad El Bonete), e ogni anno si recano in Nicaragua per portare avanti i progetti. Nelle scuole portano la loro testimonianza di vita (v. progetto allegato). Dino aggiunge che il loro sostegno comprende anche la parte formativa dei ragazzi che vengono seguiti fino all’università, con l’impegno di tornare nel villaggio per insegnare o lavorare. Viene messo in evidenza, invece, il programma di Waldemar Boff il cui obiettivo è quello di trasferire i nidi e le materne, una volta partito il progetto, direttamente al comune. Attualmente ci sono delle difficoltà oggettive e molti nidi stanno chiudendo. Viene affrontato un altro aspetto, quello della “invasione culturale”: spesso noi vogliamo portare la nostra idea ed imporla come prerogativa e scelta migliore, senza invece essere capaci di ascoltare i bisogni reali. Si discute sull’importanza di fare delle scelte consapevoli (ad es. ecologiche). Si parla dell’importanza dei beni comuni. Come sensibilizzare le singole comunità? Dino espone come esempio quello del collettivo delle donne ceramiste del Nicaragua. Continua la produzione dei filtri di terracotta anche se spesso vengono utilizzati filtri di plastica, sono meno costosi e non si rompono. Mentre i filtri di terracotta hanno una capacità elevata di filtrare e potabilizzare l’acqua. Il mercato prevale sul bene comune? Nel secondo gruppo si discute sull’evoluzione dei rapporti con il terzo mondo: NORD e SUD sono due categorie non più geografiche. La rete è nata prima di tutto cercando di dare una solidarietà politica, ma questa ha creato fratture in passato (esempio palestinese o brasiliano in cui nel primo caso c’era chi sosteneva che si aiutavano i terroristi e nel secondo chi metteva in dubbio la giustizia dell’occupazione delle terre da parte dei Sem Terra). Riportiamo di seguito alcune riflessioni, sono talvolta parole d’ordine o concetti su cui meditare. C’è sempre un Sud del mondo : “Nord e Sud” sono concetti che si vivono anche tra quartieri di una stessa città . Ci domandiamo se oggi stia vincendo la sfida liberista rispetto a quella socialista. La ricchezza che viene dall’alto è vera ricchezza? I poveri potranno attingerne? (riferimento al Brasile) Proposta: creare reti internazionali, senza divisioni tra nord e sud, sforziamoci di trovare le cose che ci accomunano per lanciare una RRR di respiro internazionale. Ciò a partire dal nostro piccolo,con l’aiuto reciproco. Un’internazionale di reti potrebbe essere una forza nella lotta per aiutare chi non ha diritti a causa del nostro stile di vita (esempio recente del dramma in Bangladesh). La gente solidarizza quando diventa povera, non quando si arricchisce, chi emigra cerca di scappare dalla sua situazione “del SUD”; lo Sguardo Internazionale è uno strumento per smettere di chiamarci nord e sud. Il linguaggio non è neutrale: educa o diseduca. Cos’è la solidarietà? Ha una moltitudine di significati, quali le attribuiamo? Può essere affrontata con molte modalità, quali scegliamo? Quanto agiamo nelle strutture che portano alla povertà nel mondo? E’ necessario un ricambio generazionale per avere letture diverse e per uscire dai recinti e aprirsi. Come fare a comunicare con i giovani? Che linguaggio usare? Sono problemi che dobbiamo porci nella nostra quotidianità, sempre con la prospettiva di questo cambiamento che sta avvenendo. Proposta: riprendere seminari e pratiche con i giovani Mandare i giovani a fare esperienze internazionali è importante perché capiscano come camminare “con” gli altri conoscendo di persona i valori culturali. Il volontariato dev’essere dunque CON e non PER gli altri. Ora ci sono nuove povertà (alto tasso di disoccupazione per esempio) e molte realtà della rete sembra ne abbiano preso coscienza. Dunque, come bisogna pensare la Rete oggi? Tenendo conto della moltitudine di povertà come si deve muovere la rete e con chi deve collaborare? Chiediamoci sempre se togliamo o diamo speranza quando costruiamo un progetto, ciò deve esser alla base delle scelte di ogni rete e di ogni persona. Stiamo facendo discorsi un po troppo “ intellettualoidi” sui progetti, politici e non, ma teniamo conto che noi non siamo i Migliori: cerchiamo di essere inclusivi e aperti con le altre realtà di solidarietà. Prudenza però nell’aggiunta di nuovi progetti: non allarghiamoci troppo Noi abbiamo componente razionale ma anche emozionale, ed è proprio quest’ultima che smuove la gente. Se sentiamo vicina la povertà dobbiamo tenerne conto. I nostri progetti sono il sangue del movimento e noi non siamo assolutamente fermi: siamo nati nell’ottica nord-sud quindi evidenziamo il valore che ha marcato la nostra società. Uniamo progettualità e formazione: abbiamo chiuso molti progetti perché ritenuti meno importanti rispetto ad altri e questo è da evitare. Solidarietà significa che quando ci è chiesto un aiuto si fa fare anche a chi ce lo ha richiesto. Non dobbiamo giudicare ma criticare. Ogni azione che si fa incide, spesso gli aiuti di cooperazione fanno danno, ecco perché è essenziale una buona analisi politica. Qualsiasi cosa che facciamo qui o lì deve avere una stessa valenza politica. Importantissimo il tema della Restituzione: quanto dobbiamo a coloro a cui abbiamo tolto per permetterci lo stile di vita che abbiamo? Impariamo a lasciare alcune cose (ad esempio l’idea di proprietà privata), togliamoci le zavorre inutili per tirar fuori il meglio. Ricordiamo che il significato di economia è buona gestione della casa.

Seminario centro sud est 12 Maggio 2013

Senza memoria c’è futuro? Quale solidarietà?

Sono presenti: venti tra aderenti e simpatizzanti delle reti di Pescara e Macerata. Sulla Solidarietà ha relazionato padre Alberto Panichella dicendo che essa non deve essere confusa con l’assistenzialismo. Certamente, di fronte all’emergenza umanitaria di chi muore di fame o di malattie è necessario intervenire, ma l’assistenzialismo provoca assuefazione,  rassegnazione, dipendenza, toglie la voglia di lavorare, di migliorare le proprie condizioni e crea mendicanti di comodo. Ne sono esempio  gli africani che il colonialismo bianco ha reso tali : un nero che vede un bianco, tende inevitabilmente la mano in quanto  per lui bianco vuol dire soldi. Panichella parla di due tipi di solidarietà: liberatrice ed equitativa. La prima è quella che libera gli oppressi, secondo il messaggio di Cristo, facendo loro prendere coscienza delle proprie potenzialità capaci di realizzare una società nuova, basata su un diverso modello di sviluppo non più capitalistico, ma collettivistico e contrario al Dio Mercato. La società cambia attraverso la vera conversione, prima di tutto del cuore, che fa riconoscere all’uomo i peccati sociali di cui è complice, poi delle strutture collettive.   Pertanto gli aiuti devono essere usati per educare inducendo le coscienze assopite a svegliarsi, a cambiare punto di vista, ad autogestirsi e, così, cambiare il sistema ingiusto. La rivoluzione pacifica brasiliana testimonia che quanto detto prima si può fare ed in Brasile un ruolo importate al cambiamento è stato svolto dalla Chiesa Profetica, dai Teologi della Liberazione, dalle Comunità Ecclesiali di base che si sono date l’obiettivo di formare culturalmente la gente e prepararla al cambiamento che parte dagli stessi oppressi e non dal di fuori, evitando il conservatorismo e  l’assistenzialismo, evitando di idealizzare la povertà come condizione unica per meritare il Paradiso, mal interpretando il Discorso sulle Beatitudini di Cristo, a volte strumentalizzato proprio da alcuni religiosi. La solidarietà equitativa, per capire la quale bisogna pensare alla comunione dei beni dei primi cristiani,  è essenzialmente risarcitoria perché serve a devolvere a chi ha meno il nostro di più, razionalizzando che noi, mondo sviluppato, abbiamo tolto agli altri risorse, impoverendoli. Inoltre quest’ ultimo tipo di solidarietà ci permette di apprezzare differenti culture, differenti creatività, altri modi di ospitalità, di arte, di letteratura,  cercando di farci perdonare dei danni fatti. Il secondo intervento è stato quello di Silvano Fazi sull’Associazionismo  che negli anni ‘90 ha avuto una grossa espansione nella consapevolezza dell’ingiustizia. Sono nati il Commercio Equo Solidale, il Movimento per la Palestina,  la Tavola della Pace, il Comitato per l’Acqua e tante altre associazioni che hanno fatto aumentare la consapevolezza che solo associandosi è possibile cambiare le cose e prendere coscienza che la nostra concezione di società molto spesso è sbagliata, ha imposto il concetto di sudditanza, ha progressivamente consumato risorse mentre abbiamo molto da imparare da quelli che riteniamo inferiori o arretrati. Dobbiamo avere la consapevolezza e l’umiltà di riconoscere che facciamo quello che possiamo, senza cadere nella sensazione dell’innopotenza o nella disperazione di non sapere che fare per eliminare l’ingiustizia. Infine il terzo intervento di Silvio Profico sul tema del Populismo è partito dalla considerazione che oggi le piazze della politica sono vuote, mentre quelle religiose sono piene, anche grazie all’intuizione di Papa Francesco a dichiararsi Vescovo di Roma, non più Sovrano, ma uomo che può sbagliare, che ha bisogno di aiuto, e che democraticamente vuole condividere decisioni e responsabilità. Il male gravissimo della personalizzazione della politica ha provocato narcisismo, mancanza propositiva, indignazione senza impegno, sconfitta dei movimenti e della società civile, astensionismo dilagante, non valori e conseguente disastro etico, sociale e politico,  predominio dell’economia sulla società, lavoro e giovani in crisi, Europa troppo ripiegata su sé stessa, non completata, senza un ruolo mondiale. Cosa proporre allora?

·        Si all’indignazione ma con l’impegno di farsi carico dei problemi del Paese

·        Si ai valori irrinunciabili quali la solidarietà, la giustizia, la pace

·        Si alla sovranità dei consumatori, dei risparmiatori, degli investitori (Banca Etica)

·        Si alla politica dei Beni Comuni

·        Si alla cittadinanza attiva

·        Si all’alternanza di governo

·        Si alla gradualità di obiettivi da raggiungere

·        No ai collateralismi con cui si vogliono trasformare i movimenti in partiti politici

·        No ai velleitarismi (Ingroia)

·        No al Web inteso come unico mezzo di comunicazione

·        No al minoritarismo di nicchia

·        Viva il noi, abbasso l’io

L’augurio finale è stato quello di rivedere i cittadini  prendere parte attiva all’amministrazione della cosa pubblica non per protagonismo, ma per partecipare con impegno comunitario  all’esercizio della giustizia, della libertà, della democrazia.

Alle ore 14.00, esauriti gli argomenti all’ordine del giorno, la seduta è stata tolta per consumare insieme un pranzo la cui preparazione è stata  curata dai  partecipanti nello spirito comunitario che ha ispirato tutto l’incontro. 

Maria Cristina Angeletti

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