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CIRCOLARE NAZIONALE FEBBRAIO 2017

“Parrocchie monasteri e santuari d’Europa accolgano una famiglia di profughi a iniziare da Roma e dal Vaticano” (Papa Francesco, appello del 6 settembre 2015)1.

“Visto che noi siamo, per voi, infedeli: ma perché non ve ne andate nel vostro CALIFFATO di Iraq con il santo califfo El Bagdadi il quale vive di armi e uccide a tutto spiano coloro con non sono sunniti?” (Parroco di Gorino (MN)), lettera affissa fuori dalla chiesa parrocchiale, 27 ottobre 2016)2.

“La gente è preoccupata perché non sa darsi ragione di quanto avviene e anche perché dubita che gli occupanti siano persone clandestine, senza alcun controllo e lasciati liberi di agire a piacimen-to. Gli avvenimenti recenti creano sospetti e inquietudini nella popolazione. Ricordo che i locali in oggetto sono collocati proprio di fronte all’Oratorio della Parrocchia ed i genitori vedono con preoccupazione questi insediamenti e occupazioni abusive” (Parroco di Villa San Giovanni (MI), lettera alla Questura, 30 dicembre 2016) 3.

Tre diverse prese di posizione della Chiesa, a diversi livelli e latitudini, rispetto al fenomeno dei mi-granti. Sono, credo, interessanti, sia perché la Chiesa Istituzione è, o pretende di essere, il maggiore riferimento etico nel nostro Paese, sia perché essa è una delle pochissime istituzioni, forse l’unica diffusa in modo uniforme e capillare.
Facile sarebbe liquidarle, tutte, in maniera superficiale:
L’appello del Papa è una presa di posizione animata da buone intenzioni, da parte di chi non ha la minima percezione dei problemi reali. Non a caso, l’ineffabile Salvini lo ha prontamen-te invitato ad iniziare con l’ospitare i migranti a casa propria.
La lettera del Parroco di Gorino è un volgare rigurgito di razzismo ed ignoranza.
Quella del Parroco di Villa San Giovanni, una reazione “di pancia” al fatto che pochi giorni prima, nella vicina Sesto San Giovanni, veniva ucciso Anis Amri, l’attentatore di Berlino.
Credo, invece, che esse siano facce della stessa medaglia, che ci offrono prospettive diverse e, a vol-te, spiacevoli di un fenomeno estremamente complesso. Facce particolarmente significative, perché provenienti, come dicevo, da un osservatorio molto qualificato.

Dobbiamo pur dircelo: l’accoglienza non è una passeggiata. E’ una strada irta di difficoltà sia per “noi”, spesso costretti nei nostri piccoli orizzonti e nelle nostre, altrettanto piccole, avarizie; sia per “loro”, che arrivano da mondi alieni, senza il bagaglio di un minimo di cultura e di esperienza di vi-ta. Immaginarla come una marcia dalle sorti inevitabili, magnifiche e progressive non è utopistico: è stupido.
La solidarietà ai migranti ci costringe a sporcarci le mani, ben consapevoli del rischio di scottature e delusioni. Farlo è, però, una scelta inevitabile: le migrazioni continueranno per decenni e non potre-mo tenere altrettanto a lungo la testa sotto la sabbia. E, poi, che uomini saremmo, se continuassimo a vivere le nostre piccole vite protette, senza neppure accorgerci del dramma epocale che sfiora le nostre porte?

Cosa fare, allora? Qualche volta, fortunatamente, la stessa realtà, ci offre le risposte. Questa la lette-ra scritta al quartiere, dagli occupanti dell’immobile di Villa San Giovanni, con l’evidente aiuto di qualche volontario o operatore sociale che già si interessa a loro.

Residenti del quartiere, non abbiate paura, chiediamo solo solidarietà

Il 21 dicembre siamo entrati negli ex uffici di via Fortezza, 27 alla ricerca di un riparo dal freddo inverno cittadino.
Siamo emigranti chi da pochi mesi chi da anni
Siamo fuggiti a causa di guerre, dittatori, rapitori di ragazzi per costrigerli a diventare militari, fabbricanti di armi.
Siamo fuggiti anche a causa di fame e povertà dovute alla scelte internazionali e delle multinazio-nali che hanno impoverito i nostri paesi
Siamo qui, senza distinzioni tra chi è emigrato per guerre o per ragioni economiche: in realtà sia-mo tutti vittime di guerre anche non dichiarate, come quelle economiche, le stesse che voi tutti state subendo a causa di questa crisi ed un sistema ingiusto
Dormivamo per strada, continuiamo a mangiare nelle mense dei poveri quando riusciamo, siamo capaci di lavorare e di fare tanti mestieri. Con il vostro aiuto e la vostra accoglienza possiamo di-ventare una risorsa per il quartiere e per la città.
Nei nostri paesi abbiamo imparato ad essere utili e potremmo esserlo anche qui se ci fosse la possi-bilità.
Vogliamo farci conoscere per costruire insieme un percorso di reciproco rispetto. Non è scatenan-do una guerra tra poveri che possiamo risolvere i problemi.
Vi chiediamo di abbandonare ogni forma di pregiudizio e di collaborare insieme per restituire al quartiere uno spazio che possiamo riqualificare con il nostro lavoro e la vostra solidarietà.
Vi invitiamo lunedì 9 a prendere il tè con noi, alle 20.30 per conoscerci, parlare e costruire insieme un percorso comune di condivisione degli spazi”4.

Aggiungere qualcosa rischia di essere presuntuoso o, almeno, ridondante. Mi limito ad osservare che questa è l’integrazione che serve; un’integrazione che passa, nel piccolo, dai rapporti tra le per-sone, che non è mai uguale a sé stessa, perché si adatta alle situazioni e che richiede duttilità e fan-tasia.
È quasi paradossale che un fenomeno dai numeri enormi, come quello degli attuali flussi migratori, trovi risposta nell’impegno, caso per caso, di singoli o di piccoli gruppi. Mi chiedo se ci saranno ab-bastanza uomini e donne di buona volontà per accettare questa sfida. Credo, però, che essa sia, pri-ma di tutto, un’opportunità per tutti noi, per uscire dalla prigione di agi e compromessi ci siamo costruiti intorno: un assetto sociale che scricchiola da tempo e, comunque, ci sta stretto.

Rete Radié Resch Varese

Lettera nazionale di gennaio 2017  da Maria Cristina Angeletti gruppo di Macerata

Cari amici,
gli Appennini scivolano verso l’Adriatico di 40 centimetri al secolo; ogni anno 20 mila terremoti in Italia,  ma gli studi di sismologia sono i meno finanziati in Europa.
Continua a tremare la terra in Centro Italia. Il 2 gennaio tanta paura nella zona di Perugia per una scossa del quarto grado della scala Richter; dopo gli strumenti hanno registrato ben 40 movimenti tellurici più lievi. Il commissario straordinario annuncia fondi per la ricostruzione ma ci vorrebbero anche tanti finanziamenti in più per la ricerca in un paese sismico come il nostro.
Sono passati 4 mesi dal primo violento terremoto del 24 agosto, ma per fare il punto della situazione “dobbiamo considerare che questi terremoti sono legati al fatto che gli Appennini si stanno estendendo lateralmente (lo dice Carlo Doglioni presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) verso l’Adriatico con un’apertura di circa 4 millimetri l’anno che in un secolo fa quaranta centimetri, in tre secoli 120 centimetri; quindi  elementi separati o blocchi della crosta collassano rilasciando energia”.
I terremoti sono, appunto, la dimostrazione della vitalità della terra e molti di questi sono sotto la soglia della sensibilità umana, ma vengono registrati solo dagli strumenti.
“Nel caso specifico abbiamo appurato che l’Appennino ha delle fette che scendono e collassano e, a seconda della dimensione di questi elementi o prismi della crosta, aumenta la magnitudo; più è grande l’elemento, più è grande il terremoto. Ad esempio il terremoto più grande degli ultimi anni quello dell’Irpinia è stato di magnitudo 6.9, la crosta si ruppe  per una lunghezza di 40/50 chilometri e una profondità di 15 Km, nel caso specifico dell’ultimo terremoto del centro Italia esso è avvenuto a una profondità di 10 Km e per una lunghezza di 30/40 Km”.
La terra, quindi,  dissipa energia attraverso terremoti e vulcani con un grande mistero per noi poiché conosciamo solo i primissimi Km che stanno sotto i nostri piedi; in un paese sismico come il nostro  investire in ricerca sarebbe vitale, eppure l’Istituto Naz. Di Geofisica e Vulcanologia per studiare l’interno della terra ha un finanziamento che  corrisponde a 1/10 di quelli europei.
“Il lavoro da fare è immenso, la carta geologica d’Italia è stata completata solo a metà, tante  sono le ricerche da portare avanti: per esempio, afferma sempre il geologo Carlo Doglioni, una tecnica molto importante per studiare il sottosuolo è quella della “ sismica riflessione”, una tecnica che è stata importata negli ospedali con l’ ecografia, che ci permette di avere una radiografia del sottosuolo e ci illumina su come sono posizionate le faglie. Un altro punto importante è cercare di capire come si distribuisce la sismicità in profondità in funzione della temperatura in quanto più la crosta è calda più  sottile è il livello di crosta che si comporta in maniera fragile e produce  terremoti; se la sismicità si concentra entro i 10 /15 Km che sono la parte fredda della crosta, la parte sottostante rimane in un regime stazionario, essendo la temperatura più alta, di conseguenza non si manifestano terremoti. Quindi studiare lo spessore di questo livello è già molto importante per determinare quali sono i volumi che potranno attivarsi e quindi la magnitudo dei terremoti. I terremoti si realizzano dopo secoli durante i quali la crosta viene dilatata o compressa e sono solo l’ultimo momento in cui si dissipa un gradiente di pressione che può essere o una pressione legata a un gradiente gravitazionale o una  pressione generata da un fenomeno elastico”.
Queste le nozioni che abbiamo appreso in seguito all’ultimo terremoto di agosto seguito dal più potente del 30 ottobre; ma le scosse seguitano tutti i giorni a migliaia; tutti i giornali locali hanno riportato teorie e studi sui terremoti e noi, terremotati, ci siamo resi conto di quanto sia fragile il nostro territorio visti i numerosi eventi sismici che lo hanno coinvolto e i gravi danni ad esso apportato. Ci consola saper che si tratta di energia che si irradia dalla terra; a me viene spontanea una domanda: perché non sfruttiamo questa energia invece di “dissiparla” come dice lo studioso di terremoti? So che esistono impianti geotermici per sfruttare il calore terrestre, ma un terremoto ne sprigiona moltissimo di più!
Ora nelle nostre regioni si parla di ricostruire tutto come prima ma, ho fatto un giro nei dintorni della mia città e devo dire che ci sono dei borghi completamente rasi al suolo come Pievetorina, Pievebovigliana, o  Caldarola, Camerino, Visso, Sanginesio, questi ultimi meno danneggiati, ma con centinaia di persone senza più una casa.
La tavola rotonda su “I centri storici da salvare” svoltasi nei locali del museo “La Tela” in vicolo Vecchio 6 a Macerata, che ha organizzato l’evento insieme all’Associazione “Arti e mestieri”, ha fatto emergere diverse criticità e non ha certo deluso i numerosi presenti desiderosi di ascoltare gli autorevoli interventi dell’onorevole Irene Manzi, Daniele Salvi, capo di Gabinetto della presidenza del consiglio regionale, il rettore dell’università di Camerino, Flavio Corradini, l’architetto della Soprintendenza Pierluigi Salvati, il presidente del Gal Sibilla Sandro Simonetti e il geologo Gilberto Pambianchi. Infatti tutti hanno esplicitato i propri concetti e le proposte più concrete dicendo “pane al pane” e “senza peli sulla lingua”. E’ emerso innanzitutto un concetto fondamentale: “Non si può ricostruire tutto come era prima sullo stesso posto” come erroneamente affermato dalle tante autorità istituzionali che hanno fatto visita ai terremotati. Infatti  spesso non è possibile perché il terreno è in frana e prima di avviare la ricostruzione bisognerà sentire i geologi per fare un sondaggio dell’area su cui poggiare le fondamenta.
Altro concetto fondamentale: “L’area interessata dal sisma da sempre è soggetta al terremoto. Pertanto la ricostruzione deve essere fatta in sicurezza”. Inutile ricostruire senza pensare che tra venti o trenta anni ci sarà un terremoto che forse (anche se speriamo di no) distruggerà di nuovo. Sarebbero soldi buttati via. Bisogna che l’investimento per ricostruire sia un investimento valido e solido e non una “perdita”.
Terzo concetto importante: “Bisogna ricostruire un edificio pubblico (municipio, ospedale, teatro) o un edificio di pubblico interesse (chiesa, museo, casa di riposo ecc.) non solo pensando che debbano avere la massima solidità e sicurezza ma anche che siano funzionali a determinati obiettivi”. Inutile ricostruire un teatro o una chiesa per tenerli chiusi. E’ la comunità che deve farsi carico di scegliere anche la propria vocazione (turistica, artigianale, commerciale ecc.) per far sì che quegli edifici siano vissuti, frequentati, utili per tutti. Questo ad evitare, come successo a Nocera Umbra dopo il sisma del 1997, che nonostante la ricostruzione degli edifici la gente  ha preferto stabilirsi in luoghi più sicuri.
E poi, nel mettere in sicurezza ad esempio una chiesa, non si può pretendere che tutto torni esattamente come prima anche perché sicuramente, anche in passato, per altri terremoti, avrà subito delle manomissioni. Quindi se si vede un cavo, un gancio o una staffa che sono indispensabili per la sicurezza dell’edificio non deve essere questo a farci gridare allo scandalo per una  ricostruzione approssimativa.  A questo proposito è stato fatto l’esempio della torre di piazza S.Marco a Venezia che è stata ricostruita sullo stesso posto ma non proprio come era prima. E’ stato anche riconosciuto che in passato, anche nel sisma del 1997 sono stati fatti degli errori. Innanzitutto perché c’era il concetto che i tetti dovessero essere ricostruiti in calcestruzzo senza pensare che i vecchi muri (vecchi anche più di cento anni) non avrebbero retto. Altro problema, vissuto nel 1997 ma che si ripeterà anche nella ricostruzione di oggi, è costituito dal fatto che non c’è la “storia degli edifici” e quindi non si sa come sono stati costruiti in origine. Si possono fare solo delle supposizioni. Così nel 1997 ci fu molta attenzione nella ricostruzione di edifici nobiliari e di palazzi storici con molte riunioni di tecnici specialisti delle varie materie, per esaminare tutti gli aspetti della ricostruzione. Ma non è stato sufficiente perché il sisma attuale li ha danneggiati come gli altri.
È stato sollevato anche il problema della proposta che sta emergendo da più parti e che non trova sicuramente l’adesione del popolo dei Sibillini. Proposta, avanzata sembra in alto loco (ovviamente per risparmiare), di creare, nella ricostruzione, degli edifici multifunzionali come ad esempio una casa di riposo unica per 4/5 Comuni, oppure un unico grande edificio in cui mettere tutte le opere d’arte. Seguendo questa ipotesi si potrebbe pensare anche ad un teatro unico per tutto l’alto maceratese, una sola chiesa, un solo cimitero e perché no una sola farmacia, un solo ospedale. Ma questo, per fortuna, non è stato ancora deciso, bensì lo spettro di questa soluzione è balenata in non pochi dei presenti alla “tavola rotonda”. Come è evidente i problemi sono tanti e la gente è impaurita e diffidente sulle scelte proposte.
Concludo con la nota positiva del  successo del cenone solidale organizzato a Macerata il 31 dicembre per raccogliere fondi per i terremotati. Collegamento in diretta con le zone terremotate. Buona compagnia, l’enogastronomia del territorio, l’attenzione alle popolazioni terremotate e divertimento semplice, sono stati questi gli ingredienti del capodanno”Ancora in piedi” curato da “Marche moto- Comitato pro scossi” e patrocinato dal comune di  Macerata. L’idea di festeggiare in sobrietà è piaciuta ai maceratesi. Oltre  mille i presenti a cena e altri mille sono arrivati dopo lo scoccare della mezzanotte. A parte il freddo, l’organizzazione ha registrato un successo su tutti i fronti: l’utilizzo in cucina dei prodotti di qualità selezionati tra i migliori messi a disposizione dalle aziende della zona, gli ottimi piatti preparati da cuochi nostrani, il perfetto  servizio di sicurezza e l’area bimbi che ha funzionato benissimo con 25 piccoli che hanno passato la serata tra gonfiabili e giochi, seguiti da volontari;  la presenza di tanti volontari delle zone terremotate e non, sono arrivati giovani da diverse regioni d’Italia e perfino da Hong Kong.
Tra i canti degli stornellatori e l’esibizione del “ Il Riciclato Circo Musicale”,  il cui motto è “Non buttate via mai niente, anzi…SUONATELO!”una band di quattro musicisti i cui strumenti sono fabbricati con materiali di riuso esplorando il mondo dei rifiuti tecnologici e del loro riutilizzo in musica, con nomi immaginari come la Cassettarra, il Bassolardo, lo Stirofon, il Barattolao, non è mancata la manifestazione di vicinanza alle popolazioni terremotate grazie a un collegamento con i vissani che sono voluti rimanere  nel loro comune di origine. I tanti terremotati presenti si sono sentiti a casa. E’ stato un modo per guardarci tutti negli occhi e capire che la solidarietà è importante. Uno degli organizzatori ha affermato: “ Stiamo pensando di organizzare un altro evento, questa volta nelle zone colpite dal sisma”.
BUONA EPIFANIA A TUTTI E…SPERIAMO IN UN ANNO MIGLIORE!!
Cristina

CIRCOLARE NAZIONALE DICEMBRE 2016 – RETE DEL TRENTINO

UTOPIA E RESPONSABILITÀ

Bisogna coltivare ogni giorno l’utopia e ispirarsi all’utopia in ogni azione quotidiana. Ma ci sono alcuni momenti nella vita in cui su tutto, anche sull’utopia, dovrebbe prevalere il principio di responsabilità.

Non è la massima di qualche filosofo, è una regola personale che mi sono costruito un po’ alla volta, riflettendo sull’impegno sociale e politico che anima anche noi della Rete, e che vorrei condividere con voi, anche se probabilmente non tutti saranno d’accordo con me. Ma è sempre utile confrontarsi. Approfitto della richiesta che mi è stata fatta, un po’ in extremis, di scrivere la circolare di dicembre, per esprimere alcune mie riflessioni personali anziché riferire su cose concrete come quelle raccontate dagli amici di Castelfranco Veneto nella bellissima circolare di novembre.

Anche noi come Rete trentina stiamo portando avanti iniziative concrete, con grande impegno e fatica, per dare il nostro contributo ai progetti di accoglienza dei tanti profughi e richiedenti asilo che arrivano ogni giorno. In questi anni di lavoro, in cui abbiamo incontrato tante difficoltà, burocrazia, ostilità, indifferenza e delusioni, se non fossimo stati mossi dall’utopia probabilmente ci saremmo arresi. E questo vale in generale per tutta la Rete, che da oltre 50 anni continua ostinatamente nella sua utopia nonostante sconfitte, fallimenti, senso di impotenza.

Perché nella mia riflessione iniziale contrappongo l’utopia al principio di responsabilità? Perché l’esperienza dimostra che ci sono momenti in cui si tratta di scegliere tra mali minori e mali peggiori. Il principio di responsabilità, cardine del pensiero del filosofo Hans Jonas, tedesco di origine ebraica, naturalizzato americano, riguarda soprattutto il rapporto tra l’uomo e l’ambiente naturale e si può sintetizzare nella massima: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra”.

Ma questo principio si adatta a tutte le attività umane e in particolare alla politica. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a comportamenti elettorali (Trump, Brexit …) in cui si intuisce che l’elemento determinante per la scelta degli elettori è stata la rabbia, un’emozione negativa che sta sostituendo motivazioni che in passato orientavano il voto, come l’idealismo, l’ideologia, il bene comune, o anche semplicemente motivi più terra terra, come l’interesse privato o il tornaconto personale. La democrazia sta attraversando una fase di stanchezza pericolosa: molte persone ritengono che andare a votare non sia poi così importante, che tanto le cose non cambiano mai, che votare l’uno o l’altro sia la stessa cosa. E’ proprio in questa apatia che si inseriscono gli avventurieri e i demagoghi. Si presentano come il pifferaio magico della fiaba, che promette mari e monti ma che alla fine porta tutti alla rovina. La storia è ricca di derive simili: basti pensare all’ascesa al potere di Hitler in Germania e di Mussolini in Italia. Spesso ci chiediamo come sia stato possibile e ci illudiamo che non possa più capitare. La delusione, il rancore, il risentimento si innestano sulla crisi economica, sull’ aumento delle disuguaglianze, sulle frustrazioni personali e sociali. La rabbia è un’emozione che oscura la razionalità. Quanto più il pifferaio urla, tanto più trova seguito in chi è arrabbiato. Tanto più esagerate sono le sue promesse, tanto più gli si crede. Per Grillo le elezioni americane sono state “un vaffa… generale”, un modo divertente per mandare tutto a catafascio. “Dare un calcio al sistema – scriveva tempo fa Ezio Mauro su Repubblica – risponde a un istinto di sovversione e di antagonismo più che a una domanda di politica e tantomeno di governo … Il voto è un rifugio di disagio,di rancore, di pretese più che di diritti, uno sfogo piuttosto che una scelta. Intanto diamo un calcio al tavolo del comando. Cosa ci sarà dopo il calcio? Nessuno se lo chiede. Le proposte del pifferaio non sono mantenibili, la rabbia fatica a trasformarsi in governo. Ma intanto rovesciamo il tavolo e godiamoci lo spettacolo, poi si vedrà”.

Dopo la Brexit e le elezioni americane, in Europa e in Italia tutti i movimenti populisti, razzisti e xenofobi si stanno preparando al loro momento di gloria: hanno capito che spararle molto grosse fa vincere le elezioni. Non importa se poi a pagare le conseguenze saranno proprio i più poveri e i più deboli, che sono anche i più arrabbiati. Domenica 4 dicembre le elezioni presidenziali in Austria sembrerebbero aver invertito questa tendenza, bocciando il candidato razzista e xenofobo. Ma le previsioni per le elezioni politiche austriache della prossima primavera non sono rosee. E’ proprio in vista di questi appuntamenti elettorali che il principio di responsabilità potrebbe fare la differenza. Ad esempio nelle ultime elezioni regionali in Francia, un accordo tra socialisti e centrodestra ha evitato la vittoria di Marine Le Pen e in Spagna il “sacrificio” dei socialisti che hanno accettato di astenersi sul nuovo governo, ha evitato un terzo pericoloso ricorso alle urne. In quest’ultimo caso si è assistito ad un classico esempio di contrapposizione tra utopia e responsabilità: la componente del partito socialista spagnolo che voleva “resistere” sui propri princìpi, insisteva per non offrire un aiuto al partito popolare, avversario storico, mentre la componente che ha optato per il senso di responsabilità ha preferito guardare all’interesse della nazione. Anche in Italia abbiamo avuto vari esempi di questa contrapposizione, ma il più emblematico penso sia stata la sfiducia al governo Prodi del 1998, caduto per un voto di Rifondazione Comunista, che ha aperto la strada ai governi Berlusconi. Sulle vere motivazioni di quel voto, e soprattutto sui registi occulti, molti sono ancora i misteri, ma i dilemmi di coscienza dei senatori del Prc furono reali: sostenere un governo non all’altezza delle aspettative della sinistra o farlo cadere e lasciare via libera alla destra peggiore?

Naturalmente chi sostiene che l’utopia deve sempre prevalere, contesterà questi ragionamenti. Ad esempio dirà che fra Trump e Clinton non c’era poi così grande differenza e che anche Obama non è stato propriamente un pacifista. Con questi ragionamenti, anche Mussolini andò al potere: i contrasti tra socialisti, popolari e liberali favorirono la sua ascesa e all’inizio quasi tutti si illusero che forse non sarebbe stato poi così male … La storia si incaricò di dimostrare il contrario.

Va da sé che il principio di responsabilità dovrebbe valere soprattutto pensando al bene comune e in particolare ai più deboli. Ad esempio, gli ultimi governi italiani a guida Pd non avranno fatto cose meravigliose in materia di immigrazione, anzi, ma di certo possiamo immaginare che cosa farebbero governi a guida leghista.

È evidente che non è sempre facile individuare quando una scelta politica può avere conseguenze talmente negative da richiedere di sacrificare l’utopia al realismo. Le difficoltà sono aumentate in Italia da quando non c’è più il sistema proporzionale, col quale si poteva votare scegliendo il partito o il candidato che ci sembravano migliori. Era un voto di testimonianza. Da quando c’è il sistema maggioritario si deve spesso scegliere tra chi ci sembra meno peggio. E non è proprio una scelta esaltante. Ma ricordo che anche quando vigeva il proporzionale, c’era una quota di maggioritario al Senato (almeno nelle regioni a statuto speciale): e succedeva sempre che i vari partiti a sinistra del Pci, piuttosto che votare il candidato comunista o socialista che aveva chance di riuscita (da notare che i socialisti a quell’epoca non erano ancora craxiani), preferiva disperdere il voto su candidati di bandiera, che regolarmente perdevano, col risultato di regalare tutti i senatori alla Dc.

Questa tendenza a far prevalere l’ideologia e la frammentazione sull’unità è una costante della sinistra e spesso anche dei vari movimenti che coltivano l’utopia. Ma a volte in vista del bene comune sarebbe più saggio cedere su qualche aspetto e cercare punti di incontro. Se l’utopia serve per continuare a camminare, come diceva Eduardo Galeano, e se è solo l’utopia (il miraggio) a mettere in moto le carovane, qualche volta il senso di responsabilità può far sì che le carovane non si perdano nel deserto.

Fulvio Gardumi

CIRCOLARE NAZIONALE NOVEMBRE 2016 – RETE di CASTELFRANCO V.
COME ESSERE SOLIDALI?

Infinite volte ci siamo chiesti quale debba essere la nostra collocazione nelle realtà dove si sviluppano i progetti in cui siamo coinvolti, come rapportarci con le popolazioni del luogo, sino a che punto contaminare e lasciarci contaminare. Certo dipende molto dalle condizioni specifiche del posto, dalle capacità e possibilità del referente e soprattutto dalle difficoltà legate alla situazione politica e organizzativa locali, dal milieu come si dice in francese. La nostra esperienza si sviluppa in un contesto africano estremamente complicato per la totale mancanza di strutture di qualsiasi genere a supporto della popolazione che si trova letteralmente abbandonata e isolata, priva delle condizioni minime di sopravvivenza.
Non è semplice mettersi in sintonia con queste realtà, capire sino a che punto intervenire, decidere, accogliere, astenersi, stoppare il nostro pensiero per dare spazio alle loro idee. Ma per tentare di essere compresi sino in fondo possiamo esporre di seguito alcune situazioni concrete, tratte anche dal recente viaggio.
– A proposito del metodo della partecipazione collettiva: in una situazione di disarmante povertà, siamo sicuri che sia opportuno chiedere lavoro volontario da parte della popolazione per alcune attività nei progetti? Certo non possono aspettarsi tutto dall’esterno, “devono crescere e responsabilizzarsi” si dice, ed è giusto e ovvio, ma in che modo e con che tempi? Con quali sacrifici? E’ più giusto pensare di alleviare il loro carico attraverso un sistema di parziale retribuzione introducendo progressivamente segmenti di partecipazione al bene comune oppure, come sostiene il nostro referente, è giusto richiedere fin da subito un contributo totalmente gratuito come contropartita del nostro impegno? Si è reso necessario avviare il confronto :
– con gli insegnanti presenti nei villaggi per discutere l’argomento ascoltando il loro parere, insistendo sull’importanza del loro ruolo per promuovere, tra studenti e genitori, la presa di coscienza dei problemi che li affliggono, la ricerca di soluzioni comunitarie e la partecipazione collettiva a partire dalle risorse disponibili. Di qui la necessità di sostenere come RRR un percorso di formazione per una categoria tanto importante.
– con il Comitato di sviluppo di Mwamwayi per parlare del significato e del valore dell’Ospedale come Bene Comune e della strategia da adottare per motivare ancora la popolazione alla partecipazione ai lavori di cantiere e successivamente alla gestione del Centro di Sanità;
– con i capi-villaggio invitandoli a superare le storiche distanze tribali, trovare i motivi di aggregazione tra i villaggi per creare una mobilitazione comunitaria attorno al Centro di Sanità. Abbiamo avuto la soddisfazione di sentire che da molti anni non si assisteva ad un confronto tra tutti gli chef dei villaggi del circondario.
É stato difficile estromettere dal cantiere persone provenienti da altri villaggi che chiedevano di far parte della squadra impegnata a realizzare il pozzo, quando questa era già formata e collaudata, perché i pochi giorni a disposizione non ci permettevano rallentamenti. La soluzione è stata quella di chiamare tutti i capi-villaggio e capi-mandamento della zona per spiegare la necessità di contare su una squadra ristretta e consolidata e la proposta di formare piuttosto dei gruppi che potessero assistere ai lavori e ascoltare le istruzioni date dal nostro geologo. Ciò significa organizzare la permanenza (compresi vitto e alloggio) per diversi giorni di parecchie persone provenienti da  zone lontane, anche da due giorni di cammino.
– A proposito della retribuzione degli operai impegnati nella costruzione del pozzo: insistere affinché ciascuno abbia una giusta retribuzione oppure meglio accettare il sistema dell’offerta come vigente in loco: chi affida il lavoro decide quanto pagare e la gestione delle singole retribuzioni viene decisa dal capo? Sembra ovvia la risposta, ma è rischioso compromettere gli attuali equilibri. La soluzione è stata di insistere per incontrare tutti i lavoratori e discutere assieme, come mai prima s’era fatto, per dimostrare la necessità del dialogo per accordarsi e operare in trasparenza.
– A proposito della distribuzione della valigia di farmaci. L’attuale dispensario non è dotato né di attrezzature sanitarie né di medicinali. Con l’aiuto di una Onlus italiana che nella totale gratuità e trasparenza, si occupa della raccolta di farmaci inutilizzati per distribuirli stiamo verificando la possibilità di inviarne a Mwamwayi con una certa regolarità. Una prima fornitura ci è pervenuta alla vigilia della partenza. Arrivati sul posto abbiamo dovuto affrontare il problema delle modalità di distribuzione: nella nostra visione i farmaci, soprattutto salvavita come antibiotici e antimalarici, dovrebbero essere distribuiti dal dispensario gratuitamente ai pazienti, considerata l’estrema povertà in cui vive la gente. “Bravi, così domani mattina ci ritroviamo con decine di migliaia di ammalati provenienti da tutti i villaggi limitrofi che vengono qui a richiedere medicine …..”, è stata la risposta degli amici di Mwamwayi, che avevano invece  stilato un tariffario di poco inferiore al costo ufficiale dei medicamenti, anche per ricavare un minimo di entrate da utilizzare per il fabbisogno del dispensario. Inutile evidenziare il nostro disorientamento e allora ….. il necessario confronto, a più riprese, con il personale del dispensario e con i rappresentanti di Badibam (ong locale con presidente il ns. referente) per cercare una soluzione condivisa: un prezzo ridotto a metà o a un terzo rispetto al prezzo standard e poi affrontare la questione di coloro che non possono pagare nulla, e come? Ipotizzando un lavoro collettivo per creare un’esperienza di mutuo aiuto. Vedremo…..
– A proposito della formazione di leaders. Nel villaggio si respira una cappa d’isolamento paralizzante che avvolge tutto e tutti; nonostante qualcuno abbia frequentato scuole e università, l’assenza di qualsiasi mezzo e opportunità scoraggia ogni novità e regna uno sconforto generale. Allora bisogna cercare di facilitare l’incontro con formatori provenienti da altre realtà, discutere con loro per individuare chi avviare alla formazione per diventare un leader positivo del villaggio con capacità organizzative in grado di farsi portavoce presso i responsabili e le autorità (ad es. quelle sanitarie purtroppo disperate da noi incontrate in due occasioni), o presso la direzione della nuova provincia amministrativa. Supportiamoli, incoraggiamoli, facendo vedere che non sono soli nel confronto con il governatore della provincia, con il vescovo della diocesi, con il responsabile della zona di sanità!
Per tre volte negli ultimi anni abbiamo raggiunto Mwamwayi, immergendoci nella vita del villaggio per cercare di condividere, per comprendere, per conoscere, per insieme decidere e crescere. Un tassello in più guadagnato in ogni missione, in ogni incontro con i numerosi amici africani che la rete di Castelfranco V. ha anche ospitato in Italia nel corso di questi anni. Un cammino ricco di incontri con singole persone e organizzazioni di volontariato impegnati a sostenere  i popoli impoveriti del continente nero, ci ha fatto scoprire con  crescente stupore di non essere soli e di poter contare sul consiglio e l’aiuto di  molti : persone semplici, geometri,  medici del Cuamm, e così via…. E che dire di David, il geologo scozzese che ha accettato di venire nel villaggio per dirigere i lavori della costruzione del pozzo, dandoci una lezione di totale dedizione alla causa e insegnandoci una profondità di lettura degli avvenimenti.
In questi anni di intensi rapporti con l’Africa si è radicata in noi la convinzione che è indispensabile fornire alla popolazione un supporto, un aiuto, per quel poco che possiamo fare, perché da sola non riesce ad innescare nessun movimento di liberazione. Ma per sostenere correttamente il loro tentativo di crescita, ci siamo resi conto che è necessario decidere insieme con loro e per fare questo è d’obbligo un cammino di condivisione e crescita comune, discutendo, lavorando, vivendo insieme, spogliandoci molte volte delle nostre troppe convinzioni. Questo è quello che abbiamo pian piano capito sinora, sperando di procedere con la necessaria determinazione, lucidità e soprattutto umiltà nell’accogliere sempre l’altro ponendoci sullo stesso piano. È un lavoro lungo che richiede costanza, tenacia e molta prudenza nelle scelte e nelle prese di posizione. È un percorso possibile solo in Rete, supportandoci e motivandoci a vicenda, sempre in ricerca insieme di quale solidarietà sia possibile, di come essere solidali.

CIRCOLARE NAZIONALE OTTOBRE 2016 – RETE di SARONNO

CANCELLAZIONE E CONVERSIONE DEL DEBITO:
PERCHÉ SONO PRATICHE GIUSTE E NON ATTI DI “
BUONISMO

BREVE STORIA DELLA CONVERSIONE DEL DEBITO ESTERO

Tra il 2015 ed il 2016 ho vissuto nove mesi a Lima, la capitale del Perù, al fine di scrivere la tesi di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali sulla valutazione ed il monitoraggio dei progetti finanziati dal Fondo Italo Peruviano (FIP). Obiettivo della ricerca era verificare se il FIP utilizzasse in maniera conscia o inconscia l’Approccio delle Capacità del filosofo ed economista indiano Amartya Sen, ideatore dell’Indice di Sviluppo Umano. Ma non è di questo che vorrei parlarvi in queste righe. Le riflessioni che vorrei condividere con voi, e che la mia esperienza in Perù mi ha spronato ad approfondire, sono riferite al debito dei Paesi economicamente più poveri. Ma procediamo un passo per volta. Immagino che molti di voi si staranno chiedendo: “Che cos’è il Fondo Italo Peruviano?”, ed iniziamo dunque con una breve risposta a questa più che giustificata domanda.

Che cos’è Il Fondo Italo Peruviano?

Il Fondo Italo Peruviano è uno dei numerosi Fondi di Conversione del Debito esistenti al mondo. Nel 2001 i Governi Italiano e Peruviano firmarono il Primo Accordo di Conversione del Debito, con il quale si decideva che i 116 milioni di dollari che il Perù doveva all’Italia come debito estero, venissero convertiti in progetti di sviluppo sostenibile sul territorio italiano, sotto il controllo di alcuni lavoratori dell’Agenzia Italiana della Cooperazione allo Sviluppo (DGCS), appartenente al Ministero degli Affari Esteri. Il Fondo Italo Peruviano ha così lavorato per 17 anni (a fine 2016 il Fondo dovrebbe chiudere in quando sono stati convertiti tutti i soldi), finanziando 300 progetti in 21 delle 25 regioni del Paese, riconvertendo quasi 200 milioni di dollari (fu infatti firmato un Secondo Accordo di Conversione del Debito del valore di 75 milioni di dollari)

Ma perché il Perù è indebitato con l’Italia? O, per allargare il punto di vista, perché molti paesi Africani, Asiatici, Medio Orientali e Sudamericani si sono indebitati?

Per rispondere a questa domanda, è necessario fare un salto nel passato, precisamente nel 1971, quando gli Stati Uniti, sotto la guida di Richard Nixon, dichiararono unilateralmente l’inconvertibilità del dollaro, a causa delle ingenti spese che avevano avuto durante la Guerra in Vietnam. La convertibilità del dollaro in oro era stata accordata nel 1944 a Bretton Woods, per garantire stabilità all’economia mondiale. Le conseguenze della decisione di Nixon furono pesanti e si ripercossero, come prevedibile, in tutto il mondo, con un peggioramento delle condizioni economiche dei paesi più poveri.
È difficile non entrare in termini economici specifici quando si parla di questi temi, ma per farla più semplice possibile possiamo dire che l’inconvertibilità del dollaro generò una svalutazione (ovvero una perdita di valore) del dollaro, avviando un periodo di intensa instabilità dei mercati finanziari e un sensibile rialzo dei prezzi delle materie prime, tra le quali rientra ovviamente il petrolio.

La domanda di petrolio nel mondo era piuttosto stabile, dunque, alzandosi i prezzi del petrolio, i paesi produttori di petrolio ricevettero un’ingente quantità di dollari, che venivano chiamati “petrodollari”. Trovandosi dunque i paesi produttori di petrolio con una grandissima quantità di “petrodollari” nelle loro banche, decisero di prestarli con un tasso di interesse molto basso ai Paesi più bisognosi di prestiti, che si trovavano soprattutto in Africa ed in America Latina. A questi paesi, in quel momento storico, le condizioni dell’indebitamento sembravano più che favorevoli, dato che i tassi di interesse (ovvero la somma da pagare ai creditori per il prestito che stavano concedendo) erano molto bassi e le materie prime che loro producevano venivano vendute a un prezzo moto alto, a causa dell’inflazione internazionale. Perché, dunque, non indebitarsi?

Indebitarsi pareva infatti al tempo una scelta saggia e razionale, ma arrivarono presto i problemi. Nel 1973 si verificò un primo shock petrolifero, e nel 1979 un secondo, ancora più pesante, durante il quale i prezzi del greggio aumentarono di oltre venti volte rispetto al valore originario del 1973. La reazione di Gran Bretagna e Stati Uniti fu di aumentare … i tassi di interesse.

Come possiamo immaginare, per i paesi indebitati esplose il costo del servizio del debito, e allo stesso tempo, a causa della crisi petrolifera, si trovavano a pagare un prezzo altissimo per le importazioni di prodotti esteri; la vendita delle loro materie prime non era assolutamente sufficiente per pagare le spese per l’acquisto di questi prodotti. Per darvi un’idea della pesantezza di questa situazione, basti dire che tra il 1973 (prima crisi petrolifera) ed il 1982 (tra poche righe scopriremo quale evento segna questa data), il debito dei paesi indebitati non produttori di petrolio aumentò di circa 500 miliardi di dollari. Come se questo non bastasse, con il passare degli anni il dollaro riacquistò valore: il debito dei paesi indebitati continuò dunque ad aumentare in forma esponenziale, dato che… era stato contratto proprio in dollari.

Che fare?

Di fronte ad una situazione di questo tipo, occorreva qualcosa di nuovo, qualcosa che consentisse ai debitori di onorare i debiti contratti ed ai creditori di essere pagati. La risposta dei paesi creditori fu, invece …. la concessione di ulteriori prestiti. Il debito dei paesi più poveri stava cominciando a diventare verosimilmente impagabile.

Effetto domino

Il primo paese a “cadere” fu il Messico nel 1982, il quale dichiarò l’impossibilitò di pagare il servizio del debito. A ruota gli altri debitori, in un inatteso effetto domino diffuso soprattutto in America Latina, si dichiararono insolventi (ovvero l’impossibilità di ripagare il debito) e scoppiò la crisi del debito internazionale.

La risposta dei paesi creditori

I governi del Nord del Mondo e le istituzioni finanziarie internazionali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale), intervennero per dare indicazioni “super partes” ai paesi debitori e creditori.

Vennero così definiti gli accordi di riscadenzamento del debito: nuovi prestiti, nuove scadenze e, soprattutto, provvedimenti di politica economica di ispirazione liberista che il governo del paese debitore si impegnava a mettere in atto. In cosa consistevano questi provvedimenti? Liberalizzazione completa del mercato interno ed eliminazione di tutte le eventuali forme di protezione, liberalizzazione del tasso di cambio e riduzione ai minimi termini della spesa pubblica.

L’ inizio della restituzione del debito

Dal 1982 i prestiti ai paesi debitori si contrassero bruscamente ed iniziò la lunga fase di trasferimento massiccio di risorse finanziarie dai paesi debitori ai creditori. Tra il 1982 ed il 1990 i paesi poveri indebitati hanno ricevuto 927 miliardi di dollari; nello stesso periodo, hanno pagato ai paesi creditori 1345 miliardi di dollari solo per il servizio del debito (e non dunque per il debito in sé!).

Come sappiamo, oggi il debito continua a pesare in modo grave su questi paesi.

Perché è giusto cancellare il debito? Quattro motivazioni.

Una questione di giustizia

Sinora abbiamo cercato di fornire una descrizione delle dinamiche che hanno favorito la creazione e l’aumento del debito dei paesi più poveri. Abbiamo visto che ciò che si verificò fu un fenomeno, provocato dalle scelte politiche dei creditori, che penalizzò i paesi debitori e avvantaggiò i creditori. E’ interessante vedere che, se si ricalcolano le somme dovute e le somme restituite utilizzando come unità di misura non il dollaro, ma un paniere di monete che tenga conto delle variazioni di valore di tutte le monete, comprese quelle locali, si ottiene che per quasi tutti i paesi il debito è già stato restituito completamente, e in qualche caso anche più volte, dunque nulla è più dovuto.

Una ragione storica

Nel periodo del colonialismo, Asia, Africa e America Latina sono state defraudate delle proprie ricchezze naturali: minerarie, agricole e, soprattutto, umane. Nel celebre libro “Le vene aperte dell’America Latina”, Eduardo Galeano ci ricorda che la stima di morti delle popolazioni indigene sudamericane (ovvero degli abitanti che vivevano in America Latina prima – e solo parzialmente dopo – l’arrivo degli Spagnoli e dei Portoghesi) tra il 1492 (anno di sbarco di Cristoforo Colombo a San Salvador) e il 1650 è stimato tra i 60 e i 90 milioni di morti. Le popolazioni del “Nord” del mondo sono debitrici a quelle del “Sud” di valori letteralmente non restituibili.

Una ragione di convenienza

I Paesi indebitati partecipano in forma scarsissima al commercio internazionale. Solo per fare un esempio, oggi l’Africa, nonostante la sua popolazione superi i 700 milioni di abitanti, partecipa solo per il 4% al commercio mondiale. Liberare i paesi dal peso del debito consentirebbe loro di destinare a investimenti produttivi le risorse oggi usate per la restituzione de capitale e il pagamento degli interessi.

Rinunciando al pagamento degli interessi e del debito, i paesi creditori otterrebbero in cambio la possibilità di avere nuovi clienti per i loro prodotti, quindi maggiori entrate.

Una ragione di solidarietà

Le condizioni di povertà in cui versano molti paesi indebitati è scandalosa. I creditori ricchi non possono rimanere indifferenti vedendo il tipo di vita condotta dai debitori e continuare a ricevere da questi il pagamento degli interessi sul debito, il quale supera in media quattro volte la spesa sanitaria annuale.

Il debito odioso

È doveroso accennare infine al cosiddetto “debito odioso”, ovvero il debito accumulato da governi non democratici che è stato utilizzato per salvaguardare, contro la popolazione, la stabilità del governo e che oggi, mutate le situazioni politiche, continua a gravare sulla finanza pubblica e cioè… sui cittadini, i quali hanno subito la violenza ed i soprusi di quelle dittature.

Alla luce di tutte queste ragioni, a partire dalla fine degli anni Ottanta vennero proposte, da parte dei paesi creditori, iniziative ed accordi internazionali che puntavano alla riduzione parziale o cancellazione del debito, alcune delle quali diedero vita ai diversi Fondi di Conversione del Debito.

Cancellare il debito o convertirlo è giusto, non è un atto di buonismo filantropico.

Giulia Rete di Saronno

PERCHÉ CI ODIANO COSÌ TANTO?

Dopo ogni attentato attribuito al terrorismo islamico, cerchiamo inutilmente risposta a questa domanda nei media mainstream. Invettive, minacce, inviti alla mobilitazione, analisi geopolitiche e militari, ma mai un tentativo serio di risalire alle cause. Eppure, dopo attacchi come quello, tragico, di Nizza, poche cose sono chiare come il fatto che una simile carneficina, minuziosamente pianificata e freddamente eseguita, sia il frutto di un odio antico e profondo, individuale e collettivo, nei confronti di noi occidentali. Odio cieco, come sempre nel terrorismo, che colpisce in egual modo i singoli e la istituzioni che pretendono di rappresentarli. Odio sedimentato nel tempo, al punto da inquinare le coscienze. E non ha grande importanza se gli autori delle stragi siano stabilmente collegati ad un’organizzazione terroristica o semplici “cani sciolti” come, in questo caso, sembra più probabile. Anzi, proprio il fatto che persone isolate, che non fanno parte di nessun gruppo paramilitare, decidano di sacrificare la propria vita per uccidere quanti più francesi (belgi, tedeschi, italiani?) possibile, dà il segno di come questo odio sia ormai cultura. Invece, nessuno si interroga sulle cause profonde. Non quelle – ovvie – dovute alla “guerra a bassa intensità” che, con buona pace dell’articolo 11 della Costituzione, noi italiani, con i nostri alleati occidentali, stiamo combattendo, dalla Siria alla Libia. Il terrorismo c’era già prima, come ci ri-cordano tristemente l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2011 e decine di episodi prece-denti, che affondano la radici negli anni ’70. L’imperialismo, certo, prima politico e poi economico. Un imperialismo che è andato ben oltre la chiusura dell’epoca coloniale, che è proseguito con la spartizione dell’Africa e del Medio Oriente in “sfere di influenza” dei Paesi occidentali, con la continua creazione di “regimi fantoccio”, totalmente asserviti a quegli stessi Paesi e con lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali ad opera delle grandi multinazionali, anch’esse con base in quei Paesi. Senza dimenticare l’appoggio cieco ed indiscriminato all’occupazione militare della Palestina, da parte di Israele. Tutto ciò ha creato fiumi di sangue e mari di lacrime. Come non pensare ai mille massacri del tardo periodo coloniale, alla frustrazione di qualsiasi istanza di progresso politico ed economi-co nei Paesi africani, alle “guerre per procura” per la sfruttamento delle risorse minerarie del loro territori? A questo punto, non è difficile capire perché nessuno, in occidente, tenti seriamente di indagare le cause del fenomeno terrorismo: lo impedisce la cattiva coscienza. Farlo, imporrebbe una profonda assunzione di responsabilità ed un invito al cambiamento di modelli di sviluppo, di cui nessuno può o vuole farsi carico. Un meccanismo assai simile a quello che vediamo, ogni giorno, di fronte al fenomeno, epocale, dell’immigrazione da quegli stessi Paesi che si ritengono culla del terrorismo islamico. Anche qui alzate di scudi, più o meno razziste, diatribe su chi e come debba dare ospitalità, analisi tecniche, anche ben intenzionate, sulle possibili risposte di assistenza. Poca ricerca delle cause del fenomeno. Eppure, non è difficile capire che chi mette in pericolo la propria vita per entrare in Europa la fa per disperazione, per mancanza di alternative. Si muove chi, nel partire, non ha nulla da lasciare. Quindi, anche da un’analisi superficiale e parziale come questa, emerge chiaramente come i due fenomeni abbiano radici comuni e si influenzino reciprocamente. Basti pensare alle migliaia di uomini e donne che fuggono dallo “Stato Islamico” ed al sospetto, continuamente avanzato, che i flussi nascondano, a loro volta, potenziali terroristi. In tutto ciò, che ruolo può avere la Rete? Quello di sempre, proiettato in una realtà nuova. Basti ricordare che ciascuno di noi, quando vi ha aderito, si è assunto l’impegno di “approfondire le cause della disuguaglianza tra Nord e Sud e divenire fonte di informazione e mezzo di sensibilizzazione per essere “una voce a servizio di chi non ha voce”” (dal nostro sitowww.reterr.it). Anche le iniziative di solidarietà nei confronti dei migranti, in cui molti di noi si impegnano quotidianamente, possono, quindi, assumere veste politica, alla luce di questo più profondo impegno. Crediamo che la realtà attuale, per molti versi triste e dolorosa, contenga in sé un’opportunità: molte persone di buona volontà che sono sensibili alle sofferenze di questa gente, possono oggi aprirsi all’ascolto e sono disponibili a capire quanto, di ciò che sta accadendo, ricada sulle nostre spalle, in termini di responsabilità indiretta. Parlare loro è, forse, nell’epoca storica che attraversiamo, uno dei compiti della Rete. Il 12 settembre 2001, subito dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York, Tiziano Terzani pubblicava sul Corriere della Sera una lettera (poi edita in “Lettere contro la guerra” – Longanesi – 2002) dal contenuto che, a distanza di quindici anni, si rivela profetico. Scriveva, tra l’altro: “Non dobbiamo farci ora trascinare da visioni parziali della realtà, non dobbiamo diventare ostaggi della retorica a cui oggi ricorre chi è a corto di idee per riempire il silenzio di sbigottimento. Il pericolo è che a causa di questi tragici, orribili dirottamenti, finiamo noi stessi, come esseri umani per essere dirottati da quella che è la nostra missione sulla terra. Gli americano l’hanno descritta nella loro costituzione come «il perseguimento della felicità». Bene: perseguiamo tutti insieme questa felicità, dopo averla magari ridefinita in termini non solo materiali e dopo esserci convinti che noi occidentali non possiamo perseguire una nostra felicità a scapito della felicità degli altri e che, come la libertà, anche la felicità è indivisibile. L’ecatombe di New York ci ha dato l’occasione di ripensare a tutto e ci ha messo dinanzi a nuove scelte. Quella più immediata è di aggiungere o togliere al fondamentalismo islamico le sue ragioni di essere, di trasformare i balli dei palestinesi non in esultazioni macabre di gioia per una tragedia altrui, ma di sollievo per una loro riguadagnata dignità. Altrimenti ogni bomba o missile che cadrà sulle popolazioni del mondo non nostro finirà solo per seminare altri denti di drago e dar vita a nuovi giovani disposti ad urlare «Allah Akbar», «Allah è grande», pilotando un altro aereo carico di innocenti contro un grattacielo …”.

a cura della Rete di Varese

Circolare Nazionale Rete Radiè Resch

Luglio 2016

CIBO E CITTADINI (!) IN SCATOLA

Cari Amici, mi sembra corretto in questo periodo alzare lo sguardo e parlare …. DELLA SCATOLA (!) che sta al di sopra della nostra vita quotidiana, cioè del CONTENITORE CHE CI CONTIENE e in cui ci muoviamo, esistiamo, respiriamo, e cioè dell’’UNIONE EUROPEA e che cosa lì sta succedendo. Qualche settimana fa alla trasmissione televisiva “Ballarò” non certo particolarmente progressista dicevano che a Bruxelles vivono stabilmente 15.000 lobbisti, e cioè persone a libro paga di multinazionali e aziende del mondo intero per condizionare i lavori del Parlamento di Bruxelles! Queste cose purtroppo ci sembrano normali. Ho subito pensato che sarà difficile quindi che nei prossimi anni a Bruxellese si possano fare leggi a favore dei cittadini! QUESTA E’ LA SCATOLA IN CUI OGGI CI MUOVIAMO, ESISTIAMO, RESPIRIAMO. CI HANNO MESSO NEL SACCO! OGGI, NON IERI O DOMANI, OGGI! Dobbiamo saperlo, esserne consapevoli. Forse è già tardi. SVEGLIAMOCI! Facciamone prendere coscienza agli altri cittadini che stanno intorno a noi! NON POSSIAMO PIU CREDERE ALLE FAVOLE, NON POSSIAMO PIU PERMETTERCELO. RIPETO: DIFFICILMENTE FARANNO UNA LEGGE PER IL BENE DEI CITTADINI CON 15.000 LOBBISTI FORIERI DI INTERESSI A BRUXELLES! QUESTO DOBBIAMO SAPERLO. NON ILLUDIAMOCI! VOGLIONO METTERCI NEL SACCO, IN SCATOLA, COME IL CIBO SPAZZATURA CHE CI VOGLIONO PROPINARE. DOBBIAMO SAPERLO QUESTO, NON POSSIAMO FARE FINTA NON ILLUDIAMOCI. NON SONO PIU’ I NOSTRI RAPPRESENTANTI, SONO I RAPRESENTANTI DELLE MULTINAZIONALI! QUESTO E’ CHIARO. Sentiamo cosa scrive a proposito Alex Zanotelli su Nigrizia di Giugno 2016: Eravamo davvero in tanti a Roma, il 7 maggio scorso, a manifestare contro il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), l’accordo di libero scambio sul quale Stati Uniti e Unione europea stanno trattando dal 2013. Un accordo che vuole la liberalizzazione del commercio e degli investimenti, togliendo dazi e barriere non tariffarie. Il Ttip riguarda 800 milioni di persone e quasi il 45% del commercio mondiale. Non possiamo accettare che un accordo del genere vada avanti. 1. Innanzitutto per le modalità poco trasparenti, e quindi poco democratiche, con cui è avvenuta la trattativa: il negoziato è cominciato a porte chiuse e solo in un secondo momento la Commissione europea ha tolto il segreto sul mandato negoziale. Di recente poi Greenpeace ha pubblicato una parte dei testi in discussione. Rimane il fatto che né il parlamento europeo né il congresso Usa hanno avuto informazioni dettagliate in merito. Certo potranno ratificare o meno l’accordo (al pari dei parlamenti dei singoli paesi europei) una volta raggiunto un esito. Rimane il fatto che tutta la partita è in mano alla Commissione europea e al ministero del commercio Usa. Mi pare lecito chiedersi se questo modo di agire è in linea con i principi democratici che ancora reggono gli Stati Uniti e l’Europa. ……CITTADINI IN SCATOLA E NEL SACCO PERCIO! 2. Un altro aspetto che preoccupa, perché va a incidere sulla salute e sull’ambiente, è la possibilità che il Ttip faccia saltare il principio di precauzione. Oggi in Europa se si vuole commercializzare un prodotto occorre dimostrare che non faccia danni alle persone e all’ambiente. Si chiama appunto precauzione ed è prevista nei trattati europei. Negli Stati Uniti avviene il contrario: fino a che non è dimostrato che fa male o inquina, posso commercializzare qualsiasi prodotto. Significa che, una volta attivo il Ttip, gli Usa potrebbero esportare in Europa beni alimentari non proprio salutari. Il Ttip potrebbe anche voler dire l’istituzione di un arbitrato internazionale privato: ciò darebbe modo alle multinazionali di denunciare gli stati se leggi approvate dai singoli parlamenti interferiscono con le loro previsioni di profitto sugli investimenti. In questo quadro non è difficile prevedere una ulteriore diminuzione dei diritti di chi lavora e un peggioramento delle condizioni di lavoro. Temo che questo Ttip possa partorire un mostro. Un mostro che non possiamo accettare. Dobbiamo perciò rimanere mobilitati, anche attraverso il sito stop-ttip-italia.net. Un prossimo momento di attenzione è l’11 luglio (cioè oggi) quando a Bruxelles si incontreranno i negoziatori europei e statunitensi per definire le fasi finali della trattativa.

Senza dimenticare che il governo italiano sta sostenendo con forza questo trattato, attraverso Carlo Calenda che fino a ieri era il rappresentate dell’Italia preso l’Unione europea. Non è un bel segnale che, ai primi di maggio, Calenda sia stato scelto da Renzi come ministro dello sviluppo economico. Amici, forza e coraggio, abbiamo tanto da fare per noi e i nostri figli. Muoviamo per diffondere la buona parola, cioè questa!

Buona estate a tutti.

La Rete di Genova, 11 luglio 2016

Circolare Nazionale Rete Radiè Resch

Giugno 2016

DOVE ANDARE? A VENTIMIGLIA?

Cosa dite, confermiamo il prossimo coordinamento in sede Sezano/Verona o stravolgiamo il programma e partiamo tutti per Ventimiglia a dare supporto a coloro che provano ad affrontare i fatti di cronaca che riguardano i Migranti? A guardare in faccia la storia, la nostra storia? Cosa dite, passando da Savona facciamo carovana con Ba – presente per una bellissima tre giorni di animazione sensibilizzazione – e lo coinvolgiamo, certi del suo potere mediatico? La tentazione per me sarebbe grande. A Ventimiglia mentre la polizia sgomberava, il Prete accoglieva, ed in molti cercavano tende e pasti, sull’autostrada passava un pulmino colorato, pieno di atleti che andavano a Barcellona per un meeting internazionale: uno era salito – simbolicamente – dal greto del Roja al cavalcavia, con documenti regolari e libero transito alla frontiera. A rendere questo possibile è stata una Rete: un progetto CARITAS, la Rete Radiè Resch, una famiglia accogliente, una società di Atletica. Ogni passaggio ha richiesto un preciso assetto giuridico, una filosofia, una disponibilità, una visione utopica: c’erano ONLUS, associazioni, società. La Rete di Castelfranco ha bisogno di essere ONLUS, le Reti che lavorano con i Mapuche hanno bisogno di fondi straordinari, la Rete di Salerno ha bisogno di diventare ASSOCIAZIONE e quanti altri esempi e scusate per quelli sbagliati. Siamo sicuri di avere il tempo la voglia la capacità di trovare una linea comune? E’ così necessario? Forse potremmo soffermarci su quello che è il nostro patrimonio:

-Autotassazione vuol dire che ogni mese ognuno investe qualcosa di proprio, sempre meno saranno soldi sempre più sarà tempo (per un futuro possibile: CREIAMO LA NOSTRA BANCA DEL TEMPO!)

-Non abbiamo sedi, dipendenti, strutture che costano.

-Vantiamo criteri di adozione delle operazioni meditati e condivisi.

-Investiamo sulla “ricerca”, sull’azione politica dal basso.

Questo è il nostro patrimonio e dobbiamo farcene garanti e custodi.

Per il resto fidiamoci, nella diversità le Reti agiscono ed agiranno sicuramente bene. E’ una proposta di federalismo? No Amiche ed Amici davvero cari e stimati, è dare valore al tempo ed ai soldi che costano i coordinamenti e farne uso oculato; dirci che forse dovrebbero diminuire da 5 a 3 poiché nessun lavoratore può sostenere un appuntamento Rete ogni due mesi; renderci conto che sempre più dovrebbero tendere al concreto con autocensura sugli interventi e le polemiche. Chiederci se sono ancora un “parlamento” riconosciuto o un’entità che sostanzialmente organizza seminari e convegni e rivede operazioni con malcontento diffuso. Coraggio! E perdonate la franchezza. Noi siamo convinti che possiamo lasciare uscire il nostro meglio per questo investiremo euro ed ore per venire a Sezano perché se lavoreremo bene le “Ventimiglia” diminuiranno e la ragione di essere Rete è questa. Sarà bello abbracciarvi, questo è, resta e non è in discussione. Come sarebbe bello tornare – ci siamo già stati – ad abbracciare i Profughi a Ventimiglia. Questo è, sarà sempre di più ed è in discussione.

Riflessioni sparse della rete di Quiliano

Maggio 2016 (bis-2)

Proponiamo una riflessione particolare: la preoccupata comunicazione della segreteria:

Cari amici e care amiche, in questo mese la circolare nazionale, assegnata alla segreteria, è una vera e propria lettera circolare, un appello di solidarietà, che trova motivazione nella difficile situazione economica della nostra associazione, con cui in ultimamente è stato necessario fare i conti. Già negli ultimi anni il bilancio mostrava chiaramente una costante diminuzione della raccolta, ma senza che questo comportasse, di conseguenza, problemi per il sostegno ai progetti di solidarietà (avendo una certa riserva, dovuta ai lasciti). E’ invece durante la revisione dei progetti con scadenza 2015, che in Coordinamento (a Quarrata in Gennaio, prima, poi a Pescara in Marzo) si è dovuta costatare l’insufficienza delle risorse per la loro riconferma, anche considerando una “naturale” diminuzione per alcuni, in relazione a possibilità interne agli stessi progetti. I progetti di cui stiamo parlando sono: Donne palestinesi (Palestina), Scuola Nazionale del Movimento Sem-Terra (Brasile), Alli Causai (Ecuador), Sembrando amor como el mais (Ecuador), Clara Mattei (Brasile), Assistenza socio-sanitaria a Cochabamba (Bolivia), Produzione sapone a Roranapolis (Brasile), Progetto Nino (Bolivia), I Bambini di Timbuctu (Mali), Cofinanziamento scuole di Pace (Palestina), Appoggio alle donne capofamiglia (Ecuador), Mapuche associazione Folilko (Cile). Non è stato inoltre possibile approvare, neppure per una sua parte, il nuovo progetto “Eduposan” a favore di una popolazione indigena argentina, seppur ritenuto interessante, o a prendere in considerazione la richiesta di Don Panichella per un nuovo sostegno al suo lavoro di strada. Ne è scaturita una vivace e bella discussione sul senso del nostro fare solidarietà, sulla temporaneità del sostegno economico (si diceva “li accompagniamo per un tratto del loro cammino…”), sulle logiche della solidarietà, sulla consapevolezza che i progetti sono i progetti di tutta la Rete e non solo del gruppo locale referente (su questi aspetti vi rimandiamo ai verbali di Quarrata e Pescara). In una logica meramente economica, la situazione delle entrate comporterebbe una drastica riduzione delle somme necessarie al sostegno dei progetti (circa il 26%). Ci siamo invece, infine, ritrovati tutti concordi su una logica ed un’idea diversa dal fare meramente i conti con la realtà e con il bilancio, cioè, con l’idea di richiamare le nostre più profonde motivazioni al fare solidarietà e condivisione della nostra vita con gli ultimi, con gli impoveriti della terra. Eccoci, perciò, a lanciare un appello per un grande sforzo collettivo, per una raccolta straordinaria che arrivi a coprire la somma mancante di euro 7600.

Buon lavoro ed un grande abbraccio a tutti ed a tutte!

la Segreteria

Maria, Gigi, Maria Rita

Maggio 2016 (bis)

Carissima, carissimo,

da pochi giorni siamo rientrati dal Convegno della Rete a Trevi dove abbiamo dato la parola ai nostri amici profughi e migranti, evidenziare che è stato meraviglioso è poca cosa in rapporto a ciò che abbiamo ascoltato, vissuto. Un’umanità nuova in cammino verso ognuno di noi, verso ogni comunità, verso ogni Stato per sentirsi insieme: mondo. Siamo nel pieno dell’anno della Misericordia, al convegno abbiamo compreso che ha mille strade, mille modalità, che la solidarietà si esprime in mille modi, che è un aspetto essenziale della misericordia. Che offrire misericordia non può essere un peso o una noia da cui liberarci in fretta. Il bisognoso, la vedova, lo straniero, l’orfano: Dio vuole che guardiamo a questi nostri fratelli, vuole metterci alla prova se siamo capaci di fermarci a guardare negli occhi la persona che mi sta chiedendo aiuto? Sono capace? Oggi dobbiamo amare le persone in modo che esse siano libere di amare gli altri più di noi, perché è il volersi bene che fa sentire le persone uguali. Oggi facciamo i conti con il caos, con male, con i disastri della natura, con le violenze, con le guerre, con le ingiustizie, con la sopraffazione di un popolo sull’altro. Oggi il male è così invadente da poter pensare che forse l’uomo, prima ancora di essere colpevole, ne é vittima. Oggi gli errori, l’imperfezione, il limite sono quindi insiti nella storia, ma sono anche la chiave del progresso. I momenti più caotici, e noi probabilmente ne stiamo attraversando uno, sono però spesso anche quelli che danno origine ad una nuova coscienza, ad un salto di qualità, alla capacità di un radicamento più interiore, ad una maggior crescita umana. L’Europa ha chiuso le frontiere sulla rotta dei Balcani percorsa dai profughi, lo ha annunciato come una vittoria. Un volto, quello dell’Europa, senza vergogna. Doveva organizzare la distribuzione dei profughi, siamo ancora al caos, peggio, si ergono muri ovunque, in questi giorni anche l’Austria, governata dalla sinistra, ma presto chiamata al voto, per paura di perdere le prossime elezioni, ha iniziato a costruire un muro al Brennero, e sta pensando di ergerlo anche con la Slovenia. I ventotto paesi hanno siglato l’accordo ma nessuno è interessato a metterlo in pratica. Dove sono l’umanità, la solidarietà, la compassione? Una vittoria dei ciechi egoismi, del cinismo e dell’indifferenza, sbandierata proprio da una istituzione che vanta nel proprio curriculum un “immeritato” Premio Nobel per la Pace nel 2012. Le frontiere chiuse a migliaia di profughi senza documenti regolari in fuga dai conflitti in Siria, in Afghanistan e in Iraq, dal terrorismo nel Pakistan, dalla siccità, dalla fame e dai regimi dittatoriali dell’Africa sub-sahariana. Sono porte sbattute in faccia a famiglie intere, a madri e bambini. Ad Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, sono bloccati 14 mila migranti e rifugiati, in condizioni drammatiche. Ho ricevuto notizie tragiche dagli amici preti di Ambivere (BG) che avevano eretto nel tempo di Quaresima una tenda e vi avevano preso posto, che sono andati ad incontrarli. Ma allo stesso tempo quanta voglia di vita, quanta creatività ci fatto conoscere attraverso l’invio di notizie e grossi murales fatti con i bambini. Ad ogni loro movimento ricevono, contro ogni legge internazionale vigente, lanci di lacrimogeni, proiettili di gomma e acqua gelida con gli idranti. Stiamo assistendo alla crudeltà dell’umanità nel fango! Dove è finita l’Europa della democrazia e dei diritti? Ma soprattutto dove ha smarrito la sua umanità di fronte al genocidio in atto nel Mediterraneo, mare di sangue, che ha falcidiato dal 1988 oltre 28 mila vite? Ma questi non sono numeri! come ci hanno insegnato padre Zanotelli e don Ciotti, questi non sono numeri, sono volti, vite, quante volte dovremmo ancora ripeterlo? Che ne è rimasta della commozione di tutto il mondo davanti alla foto del piccolo Aylan sulla spiaggia turca? 330 bambini inghiottiti solo dall’inizio dell’anno da un mare più nero dell’inferno senza una lacrima versata, se non il dolore eterno, di cui non sapremo mai, delle madri. E se fossero stati bambini italiani, annegati durante una crociera sul Mediterraneo? Solo questo è un orrore impronunciabile, vero? Chi li avrà sulla coscienza quando tra venti o trent’anni si leggerà sui libri di storia di un genocidio mai riconosciuto, mai affrontato con soluzioni possibili e praticabili, come quella dei corridoi umanitari? Continuiamo a voltare tutti gli occhi da un’altra parte, continuiamo a far finta di non vedere. C’è da vergognarsi di essere europei. Punto e basta. Ci domandiamo quali sono i motivi dei conflitti, chi li determina, chi li arma, quali interessi economico e geopolitici ci sono dietro, e a vantaggio di chi? Chiudo ricordando che, seicentomila italiani ricevono la pensione ogni anno grazie ai contributi versati dai lavoratori emigrati, che hanno versato all’Inps contributi per circa 8 miliardi di euro.

Antonio Vermigli,

Rete di Quarrata

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