Migranti oltre l’accoglienza. Donne e Uomini in cammino verso l’inedito
Introduzione agli atti a cura del coordinamento
Il 26° convegno della Rete, che quest’anno si è svolto a Trevi con la partecipazione di quasi 300 persone, ha segnato un passaggio importante per la Rete, non solo per la scelta del luogo. Abbiamo infatti capito che in questo tempo fare solidarietà significa incrociare le rotte dei migranti.
Il tentativo è stato quello di assumere una prospettiva che andasse oltre la logica emergenziale, dove le parole “oltre” e “inedito”, proposte nel titolo, fossero la cifra e la chiave di lettura dei tre giorni di convegno,abbandonando così lo stereotipo che dipinge i migranti esclusivamente come vittime in balia di eventi decisi da altri. Il loro mettersi in movimento, pur in situazioni drammatiche o addirittura disperate – la ricerca di un lavoro, la fame, la povertà, la guerra – è il risultato di decisioni prese da persone che prima di tutto sono determinate a vivere: il loro spostarsi, le loro marce o il loro attraversamento del mare è prima di tutto un desiderio di vita. Per questo una delle novità più riuscite del convegno è stata quella dei lavori di gruppo del sabato pomeriggio che hanno lasciato spazio all’incontro con tutta una serie di realtà come, per esempio, la cooperativa romana Barikamà, che significa resistente in lingua bambarà, creata da giovani africani impegnati con successo nella produzione di yogurt per i proprio autosostentamento; la cooperativa pugliese Sfrutta Zero che ha messo insieme migranti e italiani per realizzare una filiera pulita del pomodoro, che restituisce dignità al lavoro agricolo, unendo alla produzione di salsa di pomodoro biologica una paga giusta per tutti; SOS Rosarno, che affianca i braccianti nella loro lotta contro lo sfruttamento, siano essi italiani o stranieri; i giovani e le giovani della Caritas di Savona, impegnati nel progetto “Un rifugiato a casa mia”, dove relazioni autentiche di ascolto e rispetto reciproco costituiscono il fondamento di un’accoglienza che va oltre ogni normativa.
Da queste testimonianze così ricche e intense è emerso con evidenza che siamo davvero tutti nella stessa barca, senza distinzione tra noi e “loro”, i migranti – del resto questo ha voluto significare il bel manifesto realizzato per il convegno – e che solo da quella barca possiamo provare insieme a immaginare e a far nascer qualcosa di inedito. E a darci misura del fatto che si possono già vedere le prime forme concrete di questo inedito sono stati proprio questi giovani e queste giovani, italiani e stranieri insieme, che si stanno assumendo la responsabilità di dar vita ad una società nuova. Per questo possiamo annoverarli a pieno titolo tra i nostri testimoni, se per testimoni intendiamo chi ci aiuta a leggere la storia da altre prospettive.
Sono state molto ricche anche le relazioni, pubblicate qui negli atti, che ci hanno aiutato ad approfondire, sotto diverse angolature, cosa significhi essere uomini e donne in cammino, dai tanti là, ma anche nel qui dove viviamo. Abbiamo ascoltato con interesse l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo, coordinatore della Clinica legale per i diritti umani, CLEDU, e presidente dell’associazione Diritti e Frontiere, che ha affrontato il tema del rapporto tra legalità e democrazia, in relazione a quanto sta accadendo con i migranti; p. Mussie Zerai, fondatore dell’ Agenzia Habeshia e candidato al Nobel per la pace per l’incessante sostegno ai richiedenti asilo e la coraggiosa denuncia delle efferatezze del regime eritreo; Ozlem Tanrikulu, membro del Congresso Nazionale del Kurdistan che battendosi per i diritti del suo popolo ha affermato con forza che saranno i popoli dal basso a ridisegnare le forme della democrazia; la giornalista palestinese Wafa’ Abdel Rahman, che ha sottolineato l’importanza di mobilitare la società civile, in particolare le giovani, e di assumere la prospettiva femminile perché le donne possono fare la differenza nella gestione del conflitto
israelo-palestinese e non solo; l’attore e scrittore Mohamed Ba, che dell’incontro tra le culture fa la sua ragione di vita; la deputata europea Cecile Kyenge, impegnata nella messa a punto di leggi e normative europee più adeguate per quanto riguarda i migranti e di cui abbiamo raccolto, tra l’altro, l’invito a non perdere la speranza.
Naturalmente non ci sono state risposte preconfezionate e tanto meno sono state prospettate soluzioni. E’ stato importante, però, renderci conto che questa congiuntura storica può essere davvero l’occasione di un nuovo inizio per tutti: noi che stiamo già qui e “loro” che qui cercano una vita più vivibile o, più semplicemente, cercano di continuare a vivere. Solo stando fianco a fianco sarà possibile realizzare un cammino di liberazione: italiani e stranieri insieme dovremo assumerci la responsabilità aprire strade nuove dove l’emigrazione sia considerata condizione naturale; dove l’auto organizzazione e la dignità del lavoro siano alla base di relazioni paritarie che rompano la distinzione tra migranti non migranti.
Evidentemente questo cammino non possiamo compierlo da soli: al contrario dobbiamo sostenerci tra noi e soprattutto fare rete con tutte quelle persone e quelle realtà che hanno assunto questa prospettiva e vogliono prendere posizione con scelte concrete sul piano personale e politico.
Per questo è stato prezioso il tempo del convegno, perché ci ha offerto la possibilità di un ampio scambio di idee, di pensieri, soprattutto di domande, ma anche di relazioni profonde per dirci cosa ci sta a cuore e su cosa vogliamo tenere gli occhi ben aperti, se vogliamo diventare anche noi parte di questo inedito: del resto la Rete ci ha sempre spinto verso questo tipo di percorsi. In molti di noi sono risuonate le parole che tante volte ci ha ripetuto Arturo Paoli: “Il cammino si fa camminando”.Allora non rifugiati né migranti, non più vittime, ma attori di cambiamento, come si diceva aprendo il convegno: questa è la sfida che la Rete vuole fare propria proseguendo e rinnovando il proprio cammino, sempre attenta ai segni che la storia le mette davanti.
FULVIO VASSALLO PALEOLOGO
Questa è l’occasione di riflettere con voi su un fatto epocale che sicuramente in questi giorni, in queste settimane, chiama fortemente in causa la nostra capacità di valutazione e intervento: la prossimità delle persone che arrivano ci costringe a fare delle scelte.
C’è chi si interpone, chi si oppone, chi assiste, chi sta a guardare, chi è indifferente. È importante, in un momento così difficile per i migranti – ma anche per gli europei, con la crisi economica devastante e con un’Unione Europea incapace in politica estera – potere parlare del tema e scambiare punti di vista.
Riguardo all’informazione, invito tutti a diventare “produttori e condivisori” di quanto accade. Produrre informazione a livelli minimi. Faccio un esempio: in merito alla chiusura del Brennero, l’Austria sostiene che nessuno dei migranti detenga la qualità di richiedente asilo. Tuttavia la commissione di Ginevra non vieta a nessuno di fare richiesta d’asilo. Anche la nostra costituzione – art.10 – prevede possa essere richiesto da tutti, indipendentemente dal paese d’origine. È un diritto fondamentale, e come tutti i diritti fondamentali della persona umana va riconosciuto a tutte le persone; non può essere negato a priori l’accesso alla procedura, né a priori l’accesso al territorio.
Stiamo attraversando una fase molto critica di disinformazione – che passa anche attraverso i discorsi diffusi da alcuni governi, come quello italiano secondo il quale chi arriva sulle nostre coste dall’Africa è migrante economico, senza diritto di chiedere asilo.
Dalle statistiche che diffonde il Ministero dell’Interno vediamo che coloro che sono arrivati lo scorso anno (e che continuano ad arrivare anche nel 2016) non sono più in prevalenza siriani, come invece accadeva nel 2014, prima dell’apertura della rotta balcanica.
I siriani che provenivano dalla Libia nel 2014 arrivavano in aereo da Damasco, qualcuno arrivava anche a Malta. Si imbarcavano soltanto per l’ultimo tratto per poi giungere in Italia. Fino a Tripoli viaggiavano con i loro documenti.
Quando la Libia è collassata, l’aeroporto della capitale è stato bombardato e i voli sospesi, alcuni hanno tentato l’avventura via terra, o attraverso l’Egitto, dove hanno subito arresti, oppure attraverso le isole greche, o dalla Turchia verso la Bulgaria, risalendo lungo la rotta balcanica verso la Slovenia , l’Austria e l’Ungheria.
Opero in Sicilia, osservo gli sbarchi, sono in contatto con associazioni, avvocati, Croce rossa, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), e con varie associazioni che intervengono concretamente all’arrivo di queste persone: le nazionalità delle persone che approdano sulle nostre coste sono ancora in gran parte verosimilmente aventi diritto all’asilo.
Non sono solo nordafricani, come ritiene l’Austria: la percentuale di nordafricani che arriva è estremamente bassa. Se si tratta di cittadini tunisini, poi, quasi in tempo reale (in uno o due giorni) per una percentuale che sfiora il 60% vengono riportati in Tunisia grazie a un accordo di riammissione che semplifica le procedure (a differenza di altri accordi di riammissione con altri paesi).
Gran parte dei tunisini in arrivo viene separata dal resto delle persone appena arrivate e portata in centri di prima accoglienza o di detenzione sorvegliati dalla polizia. In media 20-30-40 persone la settimana ripartono verso Tunisi.
Confrontando dati ufficiali provenienti da fonti certe, da rapporti che periodicamente emana il Ministero dell’Interno (che tramite le Prefetture e le Questure raccoglie dati attendibili) e dai dossier della Caritas e del Centro Studi e Ricerche IDOS, la prima considerazione è che esiste un forte scarto tra le cifre reali dei richiedenti asilo e dell’immigrazione in generale per motivi economici e le cifre percepite. Cioè indagini scientifiche dimostrano lo scarto tra ciò che gli italiani avvertono come fenomeno immigratorio e i dati veri dello stesso. Spesso si crede ad esempio che le persone che chiedono asilo siano la maggioranza perché si parla soltanto di loro. Mentre molti giungono in Italia con visto turistico e con passaporto, a volte falso, ma comunque non sui barconi. Sui barconi entra una parte ridotta dei migranti.
L’Italia, come molti Paesi europei, rilascia alcune centinaia di migliaia di visti Schengen, che consentono per tre mesi di muoversi liberamente sul territorio. Chi entra con il visto turistico per invito, anche per motivi religiosi o di visita, può circolare nello spazio Schengen. Alla scadenza, c’è chi resta, di fatto irregolarmente.
Negli anni dopo la legge Martelli, dal ’90 a oggi, si calcola che il 70% dei cinque milioni di immigrati regolarmente presenti in Italia si sia regolarizzata, dopo avere percorso un tratto temporale di irregolarità, mediante sanatorie o con il decreto flussi. Entrati, quindi, mediante visto e passaporto, queste persone sono rimaste fino alla regolarizzazione.
Oggi, con i canali legali fortemente circoscritti, una delle modalità consistenti è quella del ricongiungimento familiare, anche in attuazione di principi costituzionali e norme di convenzioni internazionali che privilegiano l’unità del nucleo familiare. In Italia sottoponiamo questo diritto all’unità familiare a requisiti di reddito moltoseveri, fatto che costringe alcune famiglie a far arrivare i figli soli, minorenni e non accompagnati perché non riescono a far approvare alla Questura quel reddito di 15.000 euro che è richiesto all’anno per far arrivare.
Normalmente si tratta di famiglie numerose, quindi il ricongiungimento diventa una chimera, ma rimane comunque un canale di ingresso molto utilizzato.
Il problema non sono i 170.000 arrivati nel 2014 per chiedere asilo perché di queste persone solo 70.000 sono rimaste in Italia, mentre le altre hanno proseguito il loro viaggio. Il problema non dovrebbero essere nemmeno i 150.000 arrivati lo scorso anno, molti dei quali in solo transito, diretti verso Paesi dove c’è più lavoro. Fino a qualche anno fa in Italia dopo sei mesi dalla perdita del contratto di lavoro si diventava irregolari, si poteva essere anche espulsi. Ora il termine è di un anno. Se non ci si procura un altro contratto, si perde il diritto di stare nel nostro paese. Questo accade talvolta a persone che hanno figli nati in Italia: l’ottenimento della cittadinanza è regolato dalla peggiore delle leggi d’Europa con termini di tempo spropositati. Così abbiamo persone da vent’anni in Italia, con figli di 18 anni nati qui, eppure senza cittadinanza, col rischio di essere espulsi.
L’immigrazione è in molti casi femminile: siamo passati al 15% del totale di donne che arrivano, mentre in precedenza sui barconi si trovavano molto più di frequente gli uomini. Oggi sempre più spesso arrivano anche minori non accompagnati. Talvolta questi ragazzi vengono inseriti in un progetto positivo di accoglienza, ma altre volte i minori non trovano una sistemazione adeguata, sono sottoposti a controlli di polizia molto severi. Vi sono maggiorenni che passano per minori o minorenni che vengono espulsi.
Inoltre, vorrei dire che qui non si tratta di un fenomeno di emergenza: sono almeno 25 anni che abbiamo a che fare con flussi migratori consistenti. L’accordo tra Unione Europea e Turchia, Asia, Medio Oriente e Africa sul tema migrazioni è molto complesso, ma davvero sembra che ci sia chi vuole estorcere soldi all’Europa, in cambio di una supposta capacità di fermare le partenze dal proprio Paese (tutta da dimostrare).
Invito ad andare a cercare il Rapporto sull’accoglienza del Ministero dell’Interno del novembre 2015: è una fotografia fedelissima di tutti gli immigrati dell’Unione Europea e non. Migranti economici, richiedenti asilo, si forniscono informazioni sulla loro consistenza numerica e sulle norme che regolano la condizione giuridica dello straniero.
E difatti avere il quadro normativo completo (che è poi quello che stabilisce la condizione giuridica delle persone ed il rapporto tra le persone e lo Stato), è molto difficile: i contenziosi sono in crescita, si impugnano provvedimenti di diniego d’asilo e di espulsione. Al riguardo la giurisprudenza è abbastanza rassicurante: se si pensa alla legge Bossi Fini del 2002, una decina di sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale (dal 2004 al 2011) ha demolito l’impianto sanzionatorio e penalistico che introduceva. Quindi nell’evoluzione normativa un ruolo importante è quello delle Corti. Gli immigrati, poi, hanno enorme difficoltà ad avere accesso a un trattamento giusto, anche nel caso di reati lievi. Per gli italiani scattano normalmente gli arresti domiciliari, mentre per gli immigrati senza residenza stabile scatta l’arresto. Il numero di reati commessi da immigrati non è maggiore di quelli commessi da residenti, ma la loro forte presenza numerica nelle carceri spesso deriva dal non poter presentare ricorso alle misure alternative alla pena, alla liberazione anticipata, al lavoro socialmente utile o agli arresti domiciliari. Anche per questo aspetto l’impressione che si ha del fenomeno migratorio è distante dalla realtà.
Degli ultimi mesi è stato l’accordo fra UE e Turchia: la Turchia incasserebbe 6 miliardi di euro e dovrebbe riprendere dalla Grecia, attraverso i rimpatri –cioè le deportazioni- chi ha fatto la traversata. Ma le persone riportate in Turchia non sono turche, bensì pachistane, afgane, sono somale, sudanesi, nigeriane. Quindi non si parla di rimpatri ma di riconsegna, riammissione di persone che sono entrate irregolarmente in un paese che poi li ritrasferisce all’ultimo paese dal quale sono transitate, ma non le riporta in patria.
Secondo questo schema dovrebbe essere la Turchia che li riporta in patria. Per fare questo ci vogliono soldi, e la Turchia li chiede all’Europa. L’Europa aveva promesso soldi anche in occasione della strage di Lampedusa del 2010, ma non li ha versati. L’Europa ha promesso 6 miliardi di euro a Erdogan, ma c’è scontro su come debba essere ripartito questo fardello economico a livello europeo: ci sono paesi come Lettonia, Estonia, Finlandia che non vogliono contribuire. Si rifiutano di dare fondi per la crisi economica e non perché la Turchia, come l’Egitto (altro partner potenziale dell’Unione Europea sui rimpatri), notoriamente non garantisce il rispetto dei diritti umani, ad esempio coi respingimenti. Come avvocati, in alcuni casi, siamo riusciti a dimostrare l’illegalità di respingimenti svolti da altri paesi come l’Italia (nel 2012 abbiamo ottenuto la condanna dell’Italia alla Corte Europea per i diritti dell’Uomo per i respingimenti verso la Libia avvenuti nel 2009, affidati alla guardia di Finanza, che dopo avere bloccato un serie di imbarcazioni ricondusse gli occupanti a Tripoli consegnandoli alle autorità di polizia libiche. Molte di queste persone furono incarcerate e subirono abusi; nel processo svoltosi presso la Corte Europea negli anni successivi questo emerse chiaramente ).
E ancora, i respingimenti di massa che negano il diritto di asilo sono stati oggetto di un’altra condanna per l’Italia, subita nel 2014 per i respingimenti verso la Grecia, paese ritenuto sicuro, paese che in realtà riportava profughi afghani in Turchia, che a sua volta li riportava in Afghanistan: sui ricorsi fatti da alcuni pachistani ed afgani, minori, abbiamo fatto ricorso insieme agli avvocati greci (che poi si ritirarono perché minacciati dal Governo). Si riuscì a portare il caso alla Corte di Strasburgo, che condannò Italia e Grecia.La macchina espulsiva, nel suo orientarsi verso una pletora enorme di persone, fallisce sistematicamente.
Non è mirata su soggetti pericolosi, categorie ben definite, numero ristretto di persone. L’automatismo del meccanismo espulsivo per fortuna ora è attenuato. l’Unione Europea di fatto ha reso ineseguibile l’espulsione. I centri di identificazione e di espulsione sono luoghi chiusi, quasi carceri, dove si realizza una detenzione amministrativa. Sono finalizzati a contenere le persone da espellere, ma le politiche espulsive puramente repressive hanno, nell’arco di 25 anni, dimostrato sistematicamente il loro fallimento.
Ripensando alle prime emigrazioni di massa (ad esempio alle 20.000 persone giunte in un solo giornodall’Albania in Puglia nel 1991) andrebbe fatto un collegamento tra la crisi dei Balcani degli anni ‘90, che significò guerra civile, campi di concentramento, e l’attuale situazione, che sta riproponendo campi di concentramento alle frontiere, nel fango, nel pantano, senza cibo, con bambini che si ammalano. È vero, senza quell’odio etnico che scatenò una carneficina e che in molti casi diventò pulizia etnica.
Spesso chi emigra per necessità giunge nei paesi confinanti al proprio, con la speranza di ritornare, un giorno, a casa. Dei 7.000.000 di siriani in movimento, ad esempio, 2.700.000 sono in Turchia, 1.200.000 in Libano, 1.000.000 in Giordania. Si calcola che 1.000.000 sia finito in Europa, in 17 stati. Il Libano (7.000.000 di abitanti) e la Giordania (9.000.000 di abitanti) ne ospitano circa 1.000.000 a testa: dunque una presenza altissima. I campi profughi sono tendopoli da centomila abitanti, con regole totalmente fuori dal diritto e governati dalla violenza, con abusi, reclutamento, commercio di donne e bambine per matrimoni forzati, o per esportazione verso i ricchi paesi arabi, e molto altro.
In Africa, fino a poco tempo fa, prima che giungesse sulla scena prepotentemente la variabile impazzita dei fondamentalisti di Boko Haram e più recentemente del Daesh, la mobilità tra paesi africani per lavoro era molto forte: si poteva passare anche senza passaporto verso l’Egitto, la Libia, la Tunisia. In Libia c’era una forte presenza di lavoratori marocchini senza passaporto. Oggi tutto questo non accade più, e quindi l’impossibilità di muoversi fra est e ovest ha accentuato fortemente la spinta verso nord, anche di persone che tradizionalmente erano lavoratori migranti economici, ma che la condizione del paese di transito (come la Libia) la ha trasformati in richiedenti asilo.
Ora, di fronte a chi arriva, c’è chi si comporta come l’Austria, che invocano il Regolamento di Dublino (secondo cui chi sopraggiunge per richiedere asilo deve restare nel primo paese d’ingresso dell’Unione): questo principio risolve molti problemi dei paesi europei “più interni” mentre lascia esposti quelli che hanno confini esterni. Dopo che la Grecia è andata in default, nel paese diverse corti hanno sospeso per anni l’applicazione del regolamento di Dublino: quindi chi passava dalla Grecia, anche se registrato laggiù, poteva ottenere il diritto di asilo in Germania, o in Olanda, Svezia, ecc.
Per l’Italia la soluzione è stata –potremmo dire- un po’ “all’italiana”: il nostro sistema di accoglienza nel tempo ha avuto una crescita, i posti sono stati creati, ma abbiamo in qualche modo chiuso gli occhi di fronte all’identificazione attraverso le impronte digitali, come richiede il sistema Dublino. Se una persona giunge a Pozzallo, Trapani, Brindisi o Cagliari e transita senza che gli si rilevino le impronte, arrivando in Germania non incontra alcuna difficoltà nel presentare richiesta di asilo. Ovviamente i paesi geograficamente più “interni” all’Europa non hanno alcun interesse a modificare il trattato di Dublino.
Mediamente i paesi europei accolgono il 50% delle richieste di asilo. Il resto viene respinto, spesso dando origine a ricorsi. In Germania, un gruppo di migranti ricorrenti da 9 anni hanno beneficiato di una specie di sanatoria che autorizza il soggiorno legale alle persone che, a fronte della richiesta di asilo respinta, hanno presentato ricorso e da più anni risiedono nel paese in attesa di vincerlo.
In Italia le commissioni che decidono in tema di asilo, sono commissioni che utilizzano criteri restrittivi: oggi arriviamo a percentuali di dinieghi dell’80% ; lo verifico operando con la clinica legale dell’Università di Palermo, attraverso la quale seguiamo i ragazzi del Gambia, del Sudan, i nigeriani che si vedono assegnare dinieghi. Per loro otteniamo la sospensiva, riusciamo con avvocati che collaborano con noi a fare ricorso e a ottenere poi anche l’annullamento di questi dinieghi. Però, per 10 che riusciamo a seguire, altri 100 rimangono irregolari senza poter ricorrere, poiché il ricorso richiede la costruzione di un rapporto tra l’associazione, l’avvocato e il migrante che non è sempre facile. Nel resto d’Europa lo stesso istituto della sanatoria un tempo possibile, ora non lo è più. In Italia abbiamo assistito a un’estesa sanatoria negli anni ’90 attraverso la legge Martelli. In particolare nel 1998 sono state interessate 300.000 persone. Dopo il 2002 è stata registrata un’altra regolarizzazione molto ampia, quasi 500.000 persone, e ancora, anno dopo anno, dal 2000 fino al 2012, c’è stata l’applicazione di decreti flussi annuali, che in realtà costituivano principalmente una modalità di emersione del lavoro in nero offerto da lavoratori già alle dipendenze di datori di lavoro italiani, qui, sul nostro territorio. Si può dire che abbiamo avuto una forma di regolarizzazione piu’ fluida fino al 2012; da quel momento, abbiamo registrato un aumento esponenziale degli arrivi delle persone che richiedevano asilo perché le situazioni dei paesi di origine erano sempre più terribili ma le vie per la regolarizzazione si sono ridotte.
Dal 2013 con la chiusura degli ingressi, tanto per lavoro quanto per richiesta asilo, abbiamo assistito a un aumento esponenziale delle partenze via mare, e conseguentemente dei profitti dei trafficanti, perché ogni sistema proibizionista determina un’enorme crescita dei numeri di persone che si muovono illegalmente equindi dei profitti economici dei trafficanti, e quindi del rischio insito nelle modalita’ di viaggio.
A seguito dello stravolgimento dell’opinione pubblica che derivò dalle immagini delle bare dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 (seguita subito da un’altra strage a sud di Malta l’11 ottobre, che nessuno ricorda mai, con oltre 400 morti) viene dato il via, il 18 ottobre 2013, a Mare Nostrum: l’operazione finanziata soltanto dall’Italia che per un anno consentì il salvataggio in mare di più di 135.000 persone che sarebbero probabilmente in buona parte morte.
Le mutate condizioni in Libia e in parte anche in Turchia e l’aumento dei controlli hanno trasformato anche le tipologie di imbarcazioni usate: si utilizzano i gommoni, sempre più insicuri. Si sgonfiano rapidamente.
Mentre prima le imbarcazioni che arrivavano in Sicilia avevano serbatoi abbastanza capienti, ora i gommoni che partono dalla Libia hanno un’autonomia di 20–30 miglia , cioè 40 km, arrivano in acque internazionali e si fermano, chiamano aiuto con il telefono e , quando va bene, sopraggiungono i soccorsi.
Assistiamo, dunque, allo stravolgimento del sistema migratorio irregolare con l’aumento dell’attività dei trafficanti anche per il blocco e la chiusura di tutti i possibili canali di ingresso legali.
Chi arriva e chiede asilo finisce in centri di accoglienza: vorrei ricollegarmi al tema di Mafia Capitale (si riferisce al Centro di Accoglienza per Migranti e Richiedenti Asilo di Mineo, ndr), un miliardo di euro che ha arricchito i gestori dei centri e non i migranti, maltrattati dal sistema che li ha accolti con standard bassissimi, poco dignitosi, come i rapporti di alcune campagne hanno ben dimostrato (ad esempio quella denominata Lasciateci Entrare, on line l’ultimo report di febbraio che mostra le condizioni dei centri).
Si è sparsa la voce (anche per motivi politici) che fossero i richiedenti asilo a incassare 35 euro al giorno: molta gente ne è ancora convinta. E invece questi soldi vanno tutti nelle tasche degli italiani che gestiscono i centri, dove lavorano anche molte persone in nero, volontari in attesa di un futuro contratto, oppure pagate la metà. Il sistema dei centri è in mano a pochi operatori molto grandi, associazioni, consorzi, ad esempio associazioni temporanee d’impresa con sede operativa costituita in Sicilia e sede legale a Roma: un sistema inquinato che ha doppiamente tradito i migranti, guardati negativamente non soltanto perché ‘venivano a togliere lavoro e casa agli italiani’, ma anche perché depauperavano gli italiani, che dovevano pagare per fornire loro accoglienza. Le rotte nel tempo sono molto cambiate, non soltanto per un’evoluzione storica, dall’emergenza nord-africa nel 2011alle Primavere arabe.
La Siria ha certamente stravolto il senso e la portata del diritto di asilo in Europa: oggi si parla di siriani, forse iracheni, forse eritrei con diritto d’asilo, come se tutti gli altri non lo avessero. L’afflusso così massiccio di richiedenti asilo provenienti dalla Siria ha modificato anche il panorama politico: partiti populisti emergono, sulla posizione rispetto all’accoglienza si sono giocate tornate elettorali in tutti i paesi europei, dalla Spagna alla Polonia, dall’Ungheria alla Norvegia, dalla Svezia all’Italia (forse negli ultimi tempi un po’ meno nel nostro paese, che ha ammorbidito la linea, lasciando andare, facendo finta di non vedere).
Molta della politica viene giocata sul tema dei migranti e dei richiedenti asilo: dopo il capodanno di Colonia (con l’attacco di massa di uomini ubriachi nei confronti di ragazzi e ragazze soli, con pochi casi di violenza ma con gravi offese sul piano processuale) la Germania ha avuto una brusca chiusura. La stessa Svezia, che pure aveva accolto, ha annunciato che tutti gli 80.000 profughi cui non era stato riconosciuto lo status di rifugiati verranno espulsi: una dichiarazione dallo scopo politico, anche se poi forse non attuata.
Dichiarazioni politiche di principio, poi non eseguite: anche la Bossi-Fini conteneva delle norme che da subito si poteva prevedere non sarebbero state applicate. Oggi, per esempio, un immigrato irregolare in Italia non viene più condotto automaticamente in un centro di trattenimento, e se non ottempera all’obbligo di espulsione non viene detenuto in carcere per essere espulso, perché si è capito che se il paese da cui proviene non lo riprende, rimane in carcere per anni, intasando il sistema carcerario stesso (questa saturazione delle carceri si è registrata dopo il 2009, è costata sentenze della Corte Costituzionale. La Corte di Lussemburgo ha sottolineato che la legge italiana derivante dai pacchetti sicurezza non era conforme alle normative europee in termini di rimpatrio forzato).
Dunque le rotte continuano a cambiare: le principali sono quelle che collegano all’Africa, sub–sahariana.
Francia e Spagna hanno chiuso con cura le frontiere, dopo un accordo stipulato con il Marocco. I migranti, che non provengono se non per il 10% dal Maghreb, si muovono dall’area della Guinea, del Gambia, del Mali, del Niger, e dall’altra parte dall’Etiopia, dall’Eritrea e dal Sudan. Sono costretti a passare dalla Libia, oggi divisa e in mano a diverse bande. I punti di imbarco erano a Zuara, ora Zabrata, la spiaggia di Garabul e Zabia. Si punta su Lampedusa, sapendo che a 20 mt dalla costa si viene soccorsi.
Oggi vi sono molte navi militari che si aggirano in quella zona e contribuiscono a segnalare e a prestare soccorso, anche perché il Daesh – o Isis- ha occupato tre città del nord della Libia e c’è il timore che possa minacciare i mezzi commerciali (pescherecci d’alto mare, petroliere, navi cargo) in transito da Gibilterra a Suez. Dunque qui si trovano le navi dell’operazione italiana Mare Sicuro, supportate da mezzi Eunave For Med dell’Unione Europea, più altri mezzi NATO. Un mezzo militare ogni 10 miglia.
Questo ha contribuito a diminuire il numero delle stragi (questo intervento di Vassallo risale al mese di aprile, prima delle enormi perdite umane di fine giugno, ndr).
La rotta attraverso la quale sono giunti in Europa migranti e richiedenti asilo è quella balcanica: dalla Turchia passando per le isole greche (Kios, Lesbo, Kos) oppure andando direttamente verso Bulgaria e Macedonia.
Si tenga conto che, se dal Nord-Africa arrivano prevalentemente adulti soli, dalla Siria arrivano famiglie con2, 3 fino a cinque figli.
L’Italia ha la sua storia, le sue attitudini, le sue modalità i materia di salvataggio; a mio avviso detiene il primo posto al mondo nel dare soccorso (ricordo Mare Nostrum); un’enorme differenza con paesi come l’Australia (che respinge) o gli Stati Uniti (Golfo del Messico). In Italia si punta alla ricerca e alla messa in sicurezza degli uomini, vale la chiamata di soccorso per tutte le navi presenti sul posto (commerciali, militari, ecc.).
L’agenzia Frontex, che pure formalmente riconosce la necessità di salvare le vite umane, ha criteri di intervento secondo cui, ad esempio, la chiamata di soccorso non ha un’importanza tale da giustificare il movimento di una nave che sta oltre una determinata distanza. Da Lampedusa i gommoni veloci della Guardia Costiera, mezzi agili e adatti a interventi di recupero o affiancamento dei medi e piccoli mezzi di fortuna su cui si muovono i migranti, sono arrivati ad intervenire vicino alle coste libiche; la nostra marina per questo è stata criticata da Frontex, poiché il rischio è che creando un precedente di salvataggio la gente parta in numero ancora più alto, e il rischio di morte aumenti.
Da due anni anche privati, “cittadini solidali” ,con l’ausilio di finanziamenti, hanno armato delle navi per il soccorso. E ancora, Medici Senza Frontiere, poi la Nave Acquarius di SOS Mediterranée, navi civili, insomma, private, che fanno attività di monitoraggio e salvataggio.
Ma si assiste a un paradosso: dopo ogni tragedia importante -si pensi ad esempio all’aprile 2015 e agli 800 morti annegati a sud di Lampedusa- le politiche dell’UE, inizialmente aperte, si restringono, tanto che siamo noi italiani ad avere più rispetto delle leggi e diritti del mare della stessa UE. L’Italia mette al primo posto il salvataggio delle vite umane.
Nella Convenzione di Ginevra o nella Carta Dei Diritti Fondamentali che sancisce il diritto di asilo non c’è un tetto massimo di riconoscimenti da rilasciare. Purtroppo il fattore quantitativo ha inciso fortemente sul riconoscimento dei diritti fondamentali.
In Europa le istituzioni sono orientate a stabilire accordi con la Turchia, sostengono la logica di Frontex, non ostacolano leggi di polizia che non sono conciliabili con le leggi nazionali e le direttive e regolamenti legate al diritto di asilo. Il Parlamento Europeo non ha una capacità di elaborazione tale da opporsi agli indirizzi di Consiglio e Commissioni. Il banco di prova di tutto questo è il rapporto tra Unione europea e Turchia. Ci sono grossi problemi anche nei rapporti tra i diversi stati europei e Bruxelles, manca collaborazione ed elaborazione di scelte politiche comuni.
Rivedere il regolamento di Dublino o l’apertura di canali umanitari o di canali di ingresso per lavoro richiede l’esatto opposto. Per ora si tratta di comunicazione tra sordi: i diversi paesi non sono capaci di elaborare una politica estera ed economica unitaria, e in questo si legge la debolezza del sistema comune Europeo.
Domande a Paleologo
Domanda: Per tre volte hai citato i trafficanti di persone, anche sull’ultimo numero di Nigrizia c’è un dossier sull’immigrazione e un capitolo dedicato proprio ai trafficanti. Vorrei capire se queste persone che non sono persone influiscono anche su quello che sta avvenendo o se è soltanto una forma di presenza solo per guadagnare soldi, poi se la segreteria me lo permette, vorrei avvisarvi che improvvisamente domani viene aperto presso i comboniani di Padova il processo di beatificazione di Padre Ezechiele Ramin comboniano, fratello del nostro amico Fabiano ucciso in Brasile trenta anni fa, importante per noi, per la conoscenza che abbiamo di Fabiano e del fratello Ezechiele.
Risposta: Io ovviamente ho la mia lettura dei fatti, ho i miei dati, ho le mie esperienze personali, mi chiedo soltanto di mettere assieme tutti quelli che possono essere i fattori di spinta da una parte e i blocchi all’ingresso dall’altra per valutare singolarmente con una piccola indagine che si può fare anche in rete se i trafficanti sono attori o prodotto del sistema, cioè non sono i trafficanti a far aumentare l’arrivo di immigrati ma è il blocco degli ingressi che fa aumentare il numero dei trafficanti. Per assurdo determinate politiche di blocco aumentano gli arrivi irregolari, impedendo quelli regolari; in più i richiedenti asilo, anche se non hanno diritto a una risposta positiva per quanto riguarda la richiesta di asilo, hanno comunque diritto ad entrare nel territorio, quindi non possono essere trattati come l’immigrato clandestino da mandare via. Purtroppo sta avvenendo che si sta negando il diritto di ingresso anche a persone che dovrebbero porre soltanto una domanda di asilo che poi una commissione esamina perché, nel nostro ordinamento giuridico in quello europeo, la polizia non ha il potere di decidere in via preliminare senza che ci sia l’approfondimento del caso individuale. La polizia non può dire: tu non sei meritevole di fare domanda di asilo, fosse anche un tunisino o un marocchino. I trafficanti poi sono figure che troppo spesso si confondono a livello mediatico con gli scafisti, nel senso che i trafficanti sono generalmente poche persone, gruppi bene organizzati, spesso collusi con i governi dei paesi nei quali risiedono. Voglio ricordare che sul processo molto grosso, quello della strage del Natale ’96, istruito dalla procura di Siracusa la Francia negò l’estradizione dell’armatore della nave che aveva causato una collisione durante un trasbordo, nella quale erano morte 300 persone. Il comandante della nave è stato condannato dall’autorità di Siracusa a 30 anni di carcere, questo succedeva nel 2012 dopo tanti anni da quella strage di Porto Palo. Purtroppo c’è un grosso problema di individuazione dei trafficanti veri, perché gli stessi paesi con i quali abbiamo ottimi accordi di collaborazione, quando paghiamo parecchi soldi, questi stessi paesi, quando la nostra autorità giudiziaria fa un’indagine per rogatoria, chiede di andare a cercare, sentire qualcuno, non offrono nessuna collaborazione, né i paesi di transito e tanto meno quelli d’origine. In più questi trafficanti sono favoriti anche sul nostro territorio dallacircostanza degli accordi di Dublino, quindi se un siriano arriva oggi in Italia o un eritreo arriva oggi in Italia e ha i parenti in Svezia, per andare a raggiungere legalmente i parenti, se va bene, passa un anno in Italia oppure ha un diniego. E’ molto più facile pagare un tassista, qualcuno che l’accompagna alla frontiera tra il Piemonte e la Francia, lo lascia su un cammino alpino e qualcuno lo viene a raccogliere. Magari i trafficanti, come hanno fatto vedere alcuni servizi televisivi, sono tanti soggetti che erogano servizi e prestazioni. Il lavoro che si è fatto come volontari nelle stazioni di Catania, di Palermo, che si è fatto al Mezzanino di Milano, che si è fatto in Austria è stato tutto un lavoro per favorire i migranti; ricordo che tante persone hanno avuto denunce per avere trasportato in macchina migranti senza chiedere soldi. Si è fatto e si fa un lavoro di agevolazione dell’immigrazione; io me ne assumo tutte le responsabilità per il contributo che posso aver dato
per dare un futuro a queste persone. Attualmente ci sono gruppi che lavorano in Turchia e Grecia per favorire il passaggio e per accompagnare il rimpatrio, il ri-trasferimento, perché in realtà nessun turco o veramente pochi sono quelli che la Grecia restituisce alla Turchia, in prevalenza ora sono pakistani e afgani. Quindi in realtà la lotta al traffico la facciamo in due modi: interponendoci e proponendo forme di ingresso legali attraverso i canali umanitari, prendendo in carico i casi più vulnerabili, rappresentandoli presso l’UNHCR, cercando di ottenere visti di ingresso per motivi umanitari. Ovviamente rispetto alla grande quantità di persone, noi riusciamo in numero più ristretto. Quindi in realtà il traffico, dal mio punto di vista, si combatte fornendo tutele legali, rispettando nei processi le regole delle testimonianze, perché se in un processo si assumono testimoni fasulli, promettendo un permesso di soggiorno poi in dibattimento questo processo salta e non va a condanna. Abbiamo le possibilità di contrastare il traffico non derogando quelli che sono i principi di legalità. Può darsi che la risposta non sia soddisfacente ma è quello che faccio e facciamo in tanti. Esiste in Francia un delitto di solidarietà; talvolta lavorando e interponendosi a favore dei migranti si è denunciati per agevolazione dei flussi irregolari.