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A cura della Rete di Pisa-Viareggio

L’ultimo nostro convegno e i seminari che lo hanno preceduto avevano come tema la solidarietà. Da un lato ci siamo chiesti quale possa essere per noi, a 54 anni dalla nascita della Rete, il senso di questa parola, e dall’altro, più in generale, ci siamo chiesti quale sia il senso di questa parola nell’Italia di oggi, abbastanza diversa da quella di 50 anni fa, ma anche da quella di soli cinque o dieci anni fa. Crediamo che proprio i fatti di questi ultimi giorni, con l’Aquarius e il suo carico di disperati utilizzati come ostaggi in una vergognosa prova di forza, abbiano fatto tornare molti di noi con il pensiero al nostro convegno e in particolare alla “spiazzante” relazione di Gherardo Colombo. Colombo è riuscito a metterci in discussione. Alla sua domanda “Cosa è la solidarietà?” abbiamo risposto in diversi modi, tutti abbastanza scontati: “aiutare, condividere, …”. Colombo ci ha portato alla radice: dietro tutto ciò c’è il “riconoscimento” dell’altro, dell’altra, della sua dignità e della sua umanità. E quindi anche dei suoi diritti. E questo vale per tutti, indipendentemente dal colore della pelle (questo ci viene facile), dalla simpatia o antipatia, e anche dalle posizioni etiche e politiche (e questo è già più difficile). Ricordate la sua lettura dell’articolo 3 della Costituzione, dove si dice che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”? Per cittadino qui, ci ha spiegato, si intende persona, chiunque essa sia, indipendentemente dalla sua cittadinanza giuridica. E ricordate quando ci ha letto il punto XII delle Disposizioni transitorie, in cui si dice che le limitazioni “al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista” sono comunque limitate a 5 anni? Questo in qualcuno ha creato un po’ di sconcerto. È facile per noi riconoscere i diritti e la dignità di chi del sistema è vittima, molto meno di chi del sistema che produce vittime è artefice. Questo essere rigorosi nel riconoscere pari dignità e diritti a tutti, anche a … Salvini (e capisco che non è facile), è quello che ci rende veramente credibili quando condanniamo chi fa distinzioni fra persone, chi nega i diritti e la dignità di chi è diverso o lontano. E qui ritorniamo di nuovo a Salvini. Quello che è successo in questi giorni è veramente ignobile. Oltre 600 persone (uomini, donne, anche incinte, e tanti bambini) usati come ostaggi per potere rivendicare qualcosa di fronte all’Europa, per dimostrare la linea dura del nuovo governo, un governo populista, autodefinitosi “governo del cambiamento”.
Certamente si tratta del governo più a destra della Repubblica, e questo è confermato dal fatto che nei media in questi primi giorni di vita si è presentato con la faccia di Salvini piuttosto che con quella del suo capo nominale, il premier Conte. Si tratta di un governo in linea con il crescente supporto che godono le forze politiche autocratiche, xenofobiche e populiste in tutta l’Europa. Un supporto che trova nel rifiuto dell’immigrazione la sua motivazione immediata, quella su cui fare leva. Da qui l’importanza che ha il nostro impegno come Rete sui temi delle migrazioni, dell’accoglienza e soprattutto del riconoscimento della dignità e dei diritti di tutti, proprio i temi al centro del nostro ultimo convegno. Ma questo non basta, per almeno due ordini di ragioni: La prima ce la suggerisce Carlo Freccero in un articolo apparso nel Manifesto del 6 giugno scorso, quando scrive: “Sono stupefatto di vedere che il buonismo di sinistra si limita all’accoglienza ma non si pone mai il problema delle cause”. Troppo spesso la sinistra con grande miopia ha guardato solo alle ultime fasi del processo migratorio. Si sono fatti accordi con la Turchia e con la Libia cercando di bloccare i flussi, poco preoccupandosi delle condizioni in cui i migranti venivano trattenuti in quei Paesi. Non è un caso che a Minniti, autore degli accordi con poteri locali libici, è arrivato un riconoscimento anche da Salvini. Ci si è preoccupati di contrastare i trafficanti di esseri umani (per altro con minore successo), poco curandosi del fatto che i “trafficanti” sono nei fatti l’unico mezzo di trasporto che noi, con la chiusura di tutti i canali legali, lasciamo a chi cerca di fuggire dalla violenza della guerra o anche dalla violenza di un sistema economico più neo coloniale che neo liberale, e del fatto che di entrambe queste forme di violenza noi portiamo una non trascurabile parte di responsabilità. Per ogni linea di traffico che noi chiudiamo altre più lunghe e più pericolose se ne aprono, ma il flusso di migranti difficilmente si ferma. Da qui la necessità per la Rete di non distogliere lo sguardo dall’altra parte del mondo, dal “rovescio della storia”, di non cedere alla tentazione di concentrarsi sul “qui” trascurando il “li”. Le realtà con cui siamo in contatto, i “nostri testimoni” sono le lenti che ci permettono di leggere, decifrare e svelare la vera faccia del sistema di oppressione che, come “Nord”, abbiamo creato e continuiamo a mantenere e alimentare. Questo è anche il “lascito” dell’impegno con i Sem Terra di Serena, la notizia della cui morte, inattesa e sconvolgente, ci ha raggiunti mentre scrivevamo questa lettera. Nel 1995, Serena, insieme a Maurizio Serra, andava, su incarico del coordinamento, in Brasile per rappresentare la Rete ad un Convegno del Cehila (Commissione di Studi di Storia della Chiesa in America Latina). Nel suo bel resoconto del viaggio, pubblicato sul numero del dicembre 1995 del nostro Notiziario, Serena inizia raccontando la sua emozione nel visitare, vicino a Goias Velho, un occupazione di terre, l’“assentamento Agapito”. Da questa prima esperienza nasce il suo fortissimo e quasi totalizzante impegno con i Sem Terra. Caratteristica dei Sem Terra brasiliani, e credo che proprio questo fosse all’origine della scelta fatta da Serena, è la capacità di avere uno sguardo globale, di vedere la loro lotta all’interno di un cammino che porti a quel “nuovo mondo possibile” che, dopo l’entusiasmo dei primi Social Forum mondiali, è rimasto un po’ in margine. La seconda ragione per cui l’impegno con i migranti non basta è che in realtà le cause di questa crescita dei movimenti populisti e xenofobi sono più profonde. Si chiamano insicurezza, precarietà e disuguaglianze. Già nel primo dopoguerra era stata la crisi economica all’origine della nascita dei fascismi, sia in Italia che in Germania. Nelle elezioni tedesche del 1928, in situazioni di relativa stabilità economica, il partito nazista era rimasto sotto il 3%. All’inizio della grande depressione nelle elezioni del luglio 1932 questa percentuale era salita al 37%, e il partito nazista era diventato il maggiore partito del Reichstag. Nel secondo dopoguerra abbiamo invece avuto inizialmente, almeno in Europa, una forte crescita economica, che ha portato benessere e sicurezza crescenti, crescita dei sindacati e dei movimenti operai, ampliamento dei diritti sociali e anche maggiore democrazia. Sono tante le cause che hanno prima rallentato e poi interrotto questo processo. Fra queste certamente il progresso tecnologico, che ha cambiato la struttura del lavoro nei processi produttivi, riducendo il ruolo e l’importanza del lavoro materiale, e soprattutto frammentandolo e precarizzandolo, e la finanziarizzazione dell’economia che ha portato non solo alla crisi economica di dieci anni fa, ma anche e soprattutto a un aumento fortissimo delle disuguaglianze. Quali siano state le cause, certamente la risposta della sinistra è stata del tutto inadeguata. Da un lato la logica del sistema economico neoliberale è stata nei fatti accettata (vedi la cosiddetta “Terza Via” di Blair), così come è stata accettata la riduzione dei diritti dei lavoratori e la precarizzazione del lavoro (vedi ad esempio il cosiddetto Job Act). Disuguaglianze, redistribuzione del reddito, tasse patrimoniali sono argomenti che non compaiono nei programmi e nelle azioni dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni e di cui anche le opposizioni di sinistra parlano con molta cautela. Dall’altro la stessa prassi politica della sinistra ha contribuito alla crisi dei partiti come spazio di partecipazione e di elaborazione politica, o comunque nulla ha fatto per ostacolarla. Lo slittamento progressivo dalla partecipazione/rappresentatività alla governabilità/comando, ben illustrato dalle leggi elettorali che si sono succedute in Italia negli ultimi anni, dall’introduzione delle cosiddette primarie, e dalla retorica del “dobbiamo sapere chi governa la sera stessa delle elezioni!”, è tipico dei processi che portano alla nascita dei populismi. Processi in cui si passa da una cittadinanza in cui tutti hanno pari dignità e pari potere decisionale all’identificazione del popolo/massa con l’io ideale incarnato dal capo. L’argomento è molto complesso e meriterebbe una trattazione ben più articolata di quel che si può fare nello stretto spazio di una circolare. Forse potrebbe essere un interessante argomento per uno dei nostri seminari. Certamente è un tema, quello della democrazia nel nostro Paese e più in generale in Europa, da tenere sempre presente nel nostro impegno quotidiano come Rete se non vogliamo rischiare di ridurci alla sterilità della pura testimonianza. E questo era proprio il senso di un intervento di Serena, che in questi giorni è particolarmente presente nei nostri pensieri, in occasione di una discussione sullo stato della Rete nel coordinamento del 25 marzo 1995.

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