Convegno nazionale 2018
La solidarietà non è reato: reSIstiamo umani
INTERVENTO DI GHERARDO COLOMBO
Chissà quanto ci sarebbe da dire sul tema della solidarietà! Secondo me è un tema che o si risolve in due parole o c’è bisogno di un trattato. Cominciamo dalla definizione. Sappiamo di cosa parliamo quando parliamo di solidarietà? Intendo proprio la definizione della parola. Che cos’è la solidarietà?
Pubblico: Aiutare il prossimo.
E qui si pone subito il problema: chi è il prossimo?
P: E’ l’umanità.
E chi ci sta nell’umanità?
P: Io non sono d’accordo sulla parola “aiutare”.
Perché?
P: Io sono d’accordo con la parola ”condivisione”, con la parola “scambio”. La parola “aiuto” mi fa pensare a qualcuno che dà e qualcuno che riceve; sono d’accordo con “condivisione”, “scambio” di quello che ciascuno ha da dare all’altro.
Condivisione, solidarietà: sì, certo, ci sta! Andiamo un pochino oltre. Solidali con chi? Secondo me questo è il problema. Per riuscire a capirci: solidarietà è reato; può esistere un reato di solidarietà? Il nostro codice penale, per esempio, prevede un reato di solidarietà. Il favoreggiamento personale unisce chi è solidale nei confronti di chi ha commesso un reato. Chi aiuta chi ha commesso un reato è solidale o no? Compie un gesto di solidarietà o no?
P: No!
Perché no? Attenzione, le parole sono importanti!
P: La solidarietà con gli ebrei!
Dopo le leggi razziali del 1938 chi ha aiutato gli ebrei commetteva reato o no?
P: Era la legge del tempo!
La legge del tempo, la legge di oggi… Attenzione! Se Lei fosse oggi negli Stati Uniti d’America e si trovasse a decidere se consegnare alla giustizia una persona già condannata alla pena di morte, la consegnerebbe perché venga eseguita o avrebbe dei problemi a farlo? Eppure è una legge di oggi. Il fatto è che noi dobbiamo stare un pochino attenti a distinguere la legalità dalla giustizia.
P: In Italia c’è il reato di omessa solidarietà. Ad esempio, in caso di una persona travolta per strada…
Si chiama omissione di soccorso. E attenzione, non ci è chiesto di soccorrere solo chi è vittima, siamo tenuti a soccorrere chiunque, anche chi ha provocato l’incidente, anche chi ha torto. O pensiamo che la solidarietà sia un dovere soltanto nei confronti di chi ha un comportamento che condividiamo? Per parlare del reato di solidarietà in realtà bastano due parole: solidarietà e riconoscimento. Se io sono solidale solo con chi riconosco, be’ allora… io sono solidale col mio prossimo, ma chi è il mio prossimo lo decido io! Basta, non c’è più niente da dire, tutti hanno ragione: hanno ragione quelli che dicono: “Ma guarda quello lì che dà da mangiare a chiunque viene qua!”, così come ha ragione quello che dice che si deve dare da mangiare a tutti. Si tratta appunto della dimensione del riconoscimento. Quanto più riconosco, tanto più si allarga lo spettro della solidarietà, nel senso della misura della solidarietà. Quanto meno riconosco, tanto più si riduce la misura della solidarietà. Attenzione perché è una cosa nuova, nuovissima quella che è scritta nell’articolo 2 della nostra Costituzione (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo“), perché il mondo è andato avanti sempre a solidarietà estremamente ristretta. Pensiamo ad esempio alla solidarietà tra maschio e femmina, ancora adesso! Allora, io penso che questo tema “la solidarietà non è reato” sia un tema che non riguardi tanto gli altri, ma che riguardi noi, ciascuno di noi. Siamo abituati a dire: “Guarda quelli come sono disgraziati, non sanno essere solidali!”, ma guardiamo piuttosto in quale misura noi stessi siamo disposti ad essere accoglienti, altrimenti non facciamo nemmeno mezzo passo avanti. Usiamo il paradigma del nemico: io posso essere solidale nei confronti del mio amico, ma non sono solidale, anzi sono aggressivo e respingente nei confronti del mio nemico. E’ esattamente la logica di chi dice: “Ma perché dai da mangiare a quello lì?”. E’ dentro di noi la questione della solidarietà: quanto più riconosciamo, tanto più siamo solidali. Ma facciamo fatica! Riconosciamo il migrante, sì, certo, ma riconosciamo un po’ meno il migrante che per sopravvivere fa dei piccoli furti. Se poi per sopravvivere entra per rubare in casa nostra, comincia a essere diverso. Non abbiamo tutti quanti una scala di solidarietà? Questo sì, questo un po’ meno, questo ancora meno. Non è con l’essere umano che siamo solidali, ma con quell’essere umano, e va a finire che lo decidiamo noi con quale essere solidali. Più che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è la nostra Costituzione che se ne è curata, chi l’ha scritta, magari con qualche incertezza, con qualche titubanza, ma ha pensato a questo. E che l’ha pensato lo capiamo proprio se guardiamo alla Costituzione come sistema. Comincia dall’articolo 1, ma sotto il profilo del contenuto comincia dall’articolo 3, e precisamente da quella parte dell’articolo 3 che noi generalmente dimentichiamo: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”, cioè tutte le persone, per il fatto che sono persone, sono degne. Attenzione, tutte sono degne, tutte. Qui c’è già tutta la Costituzione, o no? Sarebbe interessante andare a vedere la 12^ disposizione di attuazione della Costituzione: “E’ vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48 sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista”. Ciò significa che oggi questi limiti al diritto di voto e alla eleggibilità non ci sono più perché tutti i cittadini hanno pari dignità sociale. Capite a cosa arriva? Questa è una rivoluzione, assolutamente pacifica, ma è una rivoluzione rispetto a ciò che esisteva prima. Articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Le discriminazioni ci sono ancora oggi. Pensiamo alla discriminazione di genere, a quella religiosa. Pensiamo alla discriminazione politica: chi ha scritto la Costituzione alla 12^ disposizione dice “5 anni”, poi basta. E chi è in prigione? Quante persone sono convinte che chi ha commesso un reato debba essere degradato! Perché obbligare alla sofferenza vuol dire degradare. La Costituzione rovescia il modo di stare insieme. Ma la Costituzione ha 70 anni, li ha compiuti l’1 gennaio, e 70 anni rispetto alla storia dell’umanità che cosa sono? Niente! E allora fa di più la storia di millenni rispetto a quello che fa la storia degli ultimi 70 anni! Ma attenzione, fa di più anche per noi, che per autodefinizione facciamo parte dei buoni. E’ da questo punto di partenza che deriva tutto il resto, reato di solidarietà, la solidarietà è bene o è male: tutto deriva dalla considerazione che abbiamo per chi non è d’accordo, dalla considerazione dell’altro inteso proprio come colui che non ha la stessa appartenenza, sotto tutti i profili, genere, etnia, religione. E lì è dove si fa fatica. Siamo un pochino tutti colpevoli di reato di solidarietà nel momento in cui non accettiamo le persone con le quali non siamo d’accordo. E allora facciamo a meno di scandalizzarci che altri commettano reati di solidarietà perché la differenza sta nello stare da questa parte piuttosto che dall’altra. Quanta solidarietà esiste con coloro che escludono l’altro? Pensiamo alla nostra storia, noi siamo diventati stato in questo modo, al prezzo dell’esclusione dell’altro. E allora bisogna riuscire a capirla questa Costituzione, perché se riusciamo a capirla entriamo in un’ottica che ci mette sulla strada del lavorare su noi stessi per riuscire a testimoniarla: è una cosa difficile per ciascuno di noi, perché la cultura è cultura, quello che abbiamo dentro ci è stato tramandato praticamente da sempre. Non si tratta di genomi, non si tratta di DNA, si tratta proprio di educazione. Pensiamo com’era l’Italia 40, 50 anni fa, e vediamo come la solidarietà e la Costituzione c’entravano poco con la mentalità corrente. Pensiamo ai disabili: non erano “visibili”, andavano tenuti “nascosti” perché diversi, e c’era collegato a questo un qualche calvinistico senso di colpa, erano il segno della lontananza da Dio.
P: La legge sull’integrazione scolastica dei disabili è del 1977.
Solo negli anni ‘70 sono state fatte la riforma del diritto di famiglia, la riforma dell’ordinamento penitenziario. E si è arrivati fino ad un certo punto, poi è prevalsa la cultura e si è tornati un po’ indietro. La legge può esistere, ma poi può essere applicata o può non essere applicata. Esistono delle leggi che sono applicate ed esistono delle leggi che non sono applicate. E abbiamo proprio l’esempio clamoroso della nostra Costituzione, che esiste e non è applicata, dal cittadino molto spesso, però a volte anche dalla magistratura. Perché tutte le volte che esiste conflitto fra la cultura e la legge, a perdere è la legge. Non c’è niente da fare, tutte le volte che il sentire comune dei cittadini non coincide con la legge, la legge non trova applicazione. Hai voglia a dire che tutti hanno uguali dignità, e poi scopri che una donna che svolge le stesse mansioni lavorative di un uomo guadagna anche il 30% in meno. Fino al 1975 il Codice Civile sotto la rubrica “autorità maritale”, e il titolo già la dice lunga, diceva che il marito è il capo della famiglia: altro che articolo 3 della Costituzione!
P: Don Rito cosa faceva di fronte alle ordinanze del sindaco che vietavano di dar cibo e ospitalità ai migranti a Ventimiglia? Non le osservava.
Di fronte ad un conflitto si hanno due possibilità: o si obbedisce alla legge mettendo da parte il proprio senso di giustizia oppure si obbedisce al proprio senso di giustizia e ci si assume la responsabilità di non osservare la legge. Come si è giunti in Italia all’abrogazione del servizio di leva obbligatorio? Ha cominciato qualcuno a dire che si rifiutava di fare il servizio militare perché per lui ammazzare una persona sarebbe stata la cosa peggiore che potesse succedergli e fare il servizio militare senza imparare ad ammazzare le persone è impossibile. Ma non fare il servizio militare era reato, perciò quella persona andava in prigione. E quando usciva dopo un paio d’anni, siccome la chiamata alla leva era valida, mi pare, fino ai 45 anni d’età, quella persona subiva un altro processo e andava in prigione un’altra volta. Questo fintanto che non si sono decisi e accanto al servizio militare hanno introdotto il servizio civile. Per introdurre il servizio civile è stato necessario che cambiasse la finalità del servizio. Pensate a don Milani, pochi anni prima soltanto era stato processato per la sua lettera ai cappellani militari.
P: Abbiamo sempre bisogno di martiri?
Abbiamo bisogno di testimoni, e i martiri sono i testimoni. Siamo noi che cambiamo le cose; nella vita, se vogliamo andare avanti, le cose dobbiamo farle. Ma perché possiamo fare le cose è necessario anche che abbiamo le idee chiare. E non si dica che la solidarietà è una bella cosa, però con chi sono solidale, chi riconosco, lo decido io! E il nostro paese, poveretto, è in difficoltà sotto questo punto di vista, basta vedere il numero dei partiti politici che abbiamo, ci si distingue anche solo per una virgola: ciò dimostra l’esistenza di un’estrema difficoltà a riconoscersi. Nonostante la Costituzione, anzi, direi a dispetto della Costituzione, siamo molto più disponibili a non riconoscerci piuttosto che a riconoscerci. La Costituzione dà l’idea del riconoscimento universale, mi chiede di riconoscere che tutti i cittadini hanno pari dignità, e tutti i cittadini vuol dire tutte le persone, e poi vi riferisco il meccanismo attraverso il quale io posso sostenere che qui cittadini vuol dire persone.
P: Ma ci sono limiti rispetto a chi devo riconoscere dignità? Quando la dignità umana può essere ridotta?
Mai, mai! Quella persona che in Norvegia ha sterminato più di 70 giovani sta in carcere, non per tutta la vita, e sta in un carcere nel quale la sua dignità è rispettata. Mai! Questo è un principio che non può essere messo in discussione. Per la verità la Costituzione in un articolo, il 22, lo mette in discussione quando dice che “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”. Questo implica che nome e cittadinanza per motivi non politici possono essere persi, cancellati. E’ una particolarità non in linea con tutto il resto della Costituzione, però c’è.
P: Nel caso dell’articolo 2, secondo il quale la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, possiamo certamente dire che la legge è più avanti della cultura. Come dobbiamo comportarci nei confronti di coloro che non rispettano l’articolo 2? Noi sappiamo che stanno per essere elette persone che non rispettano l’articolo 2, abbiamo il diritto di opporci?
Abbiamo il diritto di opporci, abbiamo tutta una serie di diritti, ma questi diritti vanno esercitati tenendo conto che chiunque va rispettato.
P: Come si fa a perdere il nome?
Fino alla riforma del 1975 i detenuti erano chiamati per numero; credo che negli Stati Uniti d’America succeda ancora così. E pensiamo ai malati in ospedale, o peggio ai campi di sterminio. In Italia ci sono diversi pensieri sul tema dei diritti: provate a pensare qui dentro, tra di voi, che pure costituite un’assemblea di persone solidali perché appartenete tutti alla Rete, quanti opinioni diverse ci possono essere sul tema della fine vita. C’è sicuramente tra voi chi pensa che è giusto che uno decida sulla propria fine vita, e c’è sicuramente anche chi invece pensa che sia da vietare che uno decida in ordine alla propria vita. Sono cose serie. Torniamo alla dignità. Dignità vuol dire riconoscibilità, vuol dire identificazione dell’altro nella stessa natura di sé. Siccome noi in genere ci consideriamo degni, ci piace essere rispettati, ci sentiamo importanti, banalizzando possiamo dire che tutti i cittadini sono importanti tanto quanto me.
P: Per quanto riguarda il diritto al lavoro ci sono vari modi di interpretare la legge. C’è chi si permette di licenziare, chi nella stessa situazione riammette al lavoro…
La Costituzione è un sistema, tutto è legato naturalmente, perciò andiamo all’articolo 4 che dice che “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Cosa vuol dire? Che il diritto al lavoro non si ha naturalmente, è complesso, ha bisogno che esistano le condizioni grazie alle quali la gente trovi da lavorare, è necessario che ci si attivi per fare in modo che esista il lavoro. Problema non semplice, in nessun paese al mondo credo ci sia l’occupazione piena, 0% di disoccupazione. La Costituzione si preoccupa anche di non essere eccessivamente teorica, tiene conto delle situazioni concrete. Torniamo infatti all’articolo 3, che afferma che tutti hanno pari dignità e le loro peculiarità (genere, lingua, religione…) non possono essere causa di discriminazione: poiché esiste tutta una serie di ostacoli che si oppongono a rendere vero ciò che è detto nella prima parte dell’articolo, si aggiunge che è compito della repubblica, cioè di tutti noi, di ciascuno di noi, rimuovere quegli ostacoli. E’ importante che giungiamo a condividere la Costituzione, perché in realtà la condividiamo fino ad un certo punto: siamo disposti ad essere solidali sì, ma solo con chi ci piace, non con tutti, cioè non riconosciamo tutti come degni allo stesso modo. Ad esempio fatichiamo a riconoscere la dignità di chi commette reati odiosi, di chi ha idee sociali estremamente diverse dalle nostre, e così via. Dunque, dicevo, per condividere la Costituzione chiediamoci perché l’hanno scritta ancor prima della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, perché a chi l’ha scritta è venuto in mente di rovesciare una direzione millenaria, ultramillenaria, che aveva avuto peraltro delle affermazioni di una pesantezza eccezionale. Pensiamo alle leggi razziali, che in Italia sono state scritte nel 1938: neanche 8 anni dopo hanno cominciato a scrivere la Costituzione. Non tutti si erano indignati per le leggi razziali, tanti ne hanno tratto vantaggi, anche qualche padre della patria, della democrazia era stato contento di guadagnarci una cattedra universitaria prima occupata da un ebreo.
P: Solidarietà verso chi? L’articolo 3 parla di tutti i cittadini. E i non cittadini? Nella percezione comune cittadino è solo chi ha la cittadinanza.
La percezione comune va resa meno superficiale. Per la Costituzione cittadini sono tutte le persone. Andiamo coi piedi di piombo: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, dice l’articolo 3, ma subito prima l’articolo 2 aveva detto che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, non del cittadino, dell’uomo.
P: Non la donna!
Di questa precisazione linguistica allora ancora non ci si curava. 11 mesi dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, scritta in inglese, parla di essere umano. Se noi scrivessimo la Costituzione oggi al posto di “tutti i cittadini” metteremmo “tutti gli esseri umani” o “tutte le persone”. Nella Costituzione stessa, comunque, ci sono altri passi che confermano che il senso da dare alla parola “cittadini” è quello di “persone”. All’articolo 13 si dice che la libertà personale è inviolabile, non la libertà dei cittadini; al 14 che il domicilio è inviolabile, non il domicilio dei cittadini; al 15 che la corrispondenza è inviolabile, e poi al 32 che la tutela della salute è fondamentale diritto dell’individuo, e al 43 che la scuola è aperta a tutti. Le differenze riguardano pochissime cose, la più evidente riguarda il voto. Facendo un bilancio complessivo vediamo che “cittadino” corrisponde a “persona”. Nell’articolo 10 è scritto che “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Capite come non esiste differenza: se lo straniero a casa sua ha tutti gli stessi diritti che abbiamo qui, è uguale al cittadino; se per caso a casa sua non ha gli stessi diritti, lo accogliamo, ha il diritto di essere accolto. Tutto questo conferma che per cittadino si intende persona, essere umano.
Torniamo indietro: ci stavamo chiedendo perché chi ha scritto la Costituzione si è permesso di rovesciare il sistema che ha sempre retto il mondo, compreso quando hanno fatto la rivoluzione francese. E’ stato un guardare al passato e insieme un guardare al futuro. Nel giro degli ultimi 20, 30 anni c’erano state due guerre mondiali, quanti milioni di morti, e quanti invalidi, quanti senza lavoro, quante case distrutte, e che fame! Certo, anche la Shoah, ma io credo che ad impressionare maggiormente le persone che vivevano a quel tempo sia stata la bomba atomica. A quasi tutti noi la bomba atomica non ha cambiato la vita, quando sono nato la bomba atomica c’ era già. Noi sentiamo di tante morti terribili dovute a siccità, maremoti, vulcani, carestie, e la bomba atomica è una disgrazia come ce ne sono molte altre. Alle persone di quel tempo invece la bomba atomica ha cambiato il futuro: prima non c’era, all’improvviso invece si scopre che esiste un’arma talmente potente da fare quello che nessun’arma fino ad allora aveva saputo fare. Per quanto impegno ci abbiano messo gli Alleati a lanciare bombe su Berlino, se andate ora a Berlino trovate edifici costruiti prima della guerra ancora in piedi, e quanti berlinesi si sono salvati! A Hiroshima e Nagasaki invece… Nel Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani si dice che essa è stata scritta anche considerando che “il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità”. Essa poi inizia con una specie di parafrasi dell’articolo 3 della Costituzione Italiana. La nostra Costituzione, a parte quel dettaglio che vi ho citato dell’articolo 22, ha una coerenza estrema al suo interno. Per esempio, l’articolo 27, a proposito del riconoscimento della dignità di tutti, dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Alla luce di questo articolo io personalmente ho qualche perplessità sul regime carcerario 41 bis, ma certamente altri hanno perplessità contrarie e adducono esigenze di sicurezza; io però dico che queste esigenze di sicurezza devono essere contemperate. L’articolo 13, che esordisce dicendo che “la libertà personale è inviolabile”, aggiunge che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”: violenza fisica e psicologica, la parola violenza viene usata qui per la prima e unica volta in tutto il testo della Costituzione. Allora capite come sia importante, quando si parla di solidarietà, uscire da degli schemi limitati, altrimenti continuiamo ad opporci e non riusciamo a trovare una soluzione. La soluzione secondo me si trova attraverso un cammino necessariamente di mediazione, ed è lì il problema, quello di essere capaci di uscire dalla logica secondo cui solidarietà va insieme con la parola “parte”. Solidarietà non ha limiti, però i limiti glieli mettiamo noi. Pensiamo a Gesù che va in casa di Zaccheo, il più odiato da tutti. Ancora noi ci misuriamo coi lavoratori dell’ultima ora…
P: Come faccio ad essere solidale con una persona che ha commesso crimini odiosi ed è stata condannata? Come faccio a essere solidale con Riina?
Io sono di quest’idea anche nei confronti di Riina, ma lei può pensare quello che vuole, io non la giudico, ho passato la mia vita ad emettere sentenze. Se la logica è quella di cui abbiamo parlato, io non posso dire che siccome Riina nella sua vita ha commesso le più grandi nefandezze lui in carcere ci muore. Nel momento in cui le sue condizioni di salute sono tali per cui non è più pericoloso, devo rispettare la sua dignità. Ci sono due articoli del codice penale che prevedono la sospensione obbligatoria e la sospensione facoltativa della detenzione.
P: Concordo su ciò che ci siamo detti, che legalità e giustizia sono due concetti che non sempre vanno d’accordo, che la solidarietà non deve avere limiti, ma io vorrei che non si uscisse da questa stanza senza dire che il fascismo non è un’opinione, e quindi lì un limite lo poniamo.
Una cosa secondo me essenziale è separare i fatti dalle persone: il fascismo è una cosa terribile, però le persone che sono state fasciste continuano ad essere persone. Martin Buber, ebreo, si è battuto chissà quanto perché Ben Gurion commutasse la pena di morte inflitta ad Eichmann in ergastolo. Questo significa distinguere il fatto da chi l’ha commesso, indipendentemente dalla circostanza che chi ha commesso il fatto si sia ravveduto. Ma Eichmann è stato condannato a morte. Io, Gherardo Colombo, non posso dire: “Sono contrario alla pena di morte, ma…”, dico: “Sono contrario alla pena di morte” e basta! Perché la dignità della persona sta qui.
Don Rito Alvarez
Per chi a Ventimiglia si occupa un po’ anche di dare una mano a passare una persona che ti chiede, tu diventi davvero uno che fa un reato.
E’ bello il titolo del convegno, ma vi dico una piccola cosa: se io andassi nella comunità?????? indigena in Colombia e dicessi: “Il reato di solidarietà…”, mi direbbero: ” Ci spieghi cosa vuol dire! Ma la solidarietà é una cosa buona! Come é possibile che diventi un reato una cosa buona che tu fai perché tu sei un umano? Perché tu hai una coscienza e perché tu ti rendi conto quando fai una cosa per l’altro, quando quell’altro é tuo fratello, chiunque esso sia… ma mi spieghi questo concetto!”
Badate che noi in questo momento dobbiamo elaborare nuovi concetti, perché se avessimo detto, a mio nonno, a mia nonna, “il reato di solidarietà…”; a casa mia, dove le porte erano sempre aperte a chiunque passasse, e siccome noi abbiamo sempre vissuto in prima persona proprio questa situazione, noi a casa nostra abbiamo aiutato chiunque; a chiunque passava davamo da mangiare a dei guerriglieri, da bere, se necessitava davamo un angolo dove dormire. Una volta é arrivato l’esercito regolare ed ha portato via mio padre, perché avevamo dato da mangiare a dei guerriglieri, ma noi non sapevamo che erano guerriglieri! L’hanno portato via tre giorni e volevano metterlo in galera. Perciò già da un po’ di tempo comincio a capire. In questo mondo in cui viviamo, dove i grandi poteri e la mancanza di buon senso, perché oggi io davvero vorrei parlarvi di coscienza, di umanità e di buon senso. ma quando noi parliamo di reato subito pensiamo che stiamo andando contro la legge e che stiamo facendo una cosa gravissima.
Pensa che noi con la Caritas il 31 Maggio 2016, vedendo centinaia di persone che erano centoottanta quella sera, che abbiamo aperto la Chiesa. Non avevano dormire e dove mangiare, la polizia li stava perseguitando, perché erano sotto un ponte, però il sindaco aveva fatto un’ordinanza di sgombero e quindi in un primo momento un sacerdote aveva aperto il salone parrocchiale ma poi non li poteva tenere lì e così la popolazione ha cominciato proprio a ribellarsi. Andavano a nascondersi di quà e di là come i topi e la polizia li inseguiva. A un certo punto si sono rifugiati anche nel cortile della caritas, dove abbiamo uno spazio molto piccolo. Mi chiama Maurizio, il responsabile della Caritas: ” Don, cosa facciamo?” Io gli ho risposto, guarda a pochi metro dal ?????? c’é la chiesa di San Bertoldo, ho degli spazi, ho due tre bagni e una cucina: accogliamoli. Quella sera del 31 Maggio abbiamo aperto le porte, ma con questo gesto di solidarietà io sono diventato un criminale per tanti della popolazione, anzi, per tanto dei miei parrocchiani, che venivano a Messa, io non sono stato più il loro parroco, ma uno che stava facendo delle cose brutte e che meritava di essere cacciato via da Ventimiglia, perché… E io non dovevo comportarmi in questo modo, anzi altri mi dicevano che avevo fatto un sacrilegio, perché mai avevo pensato di aprire gli spazi della Chiesa anche per dei musulmani. Pensate che da quel giorno che abbiamo aperto questa chiesa cominciano dei problemi seri. La prima settimana di giugno pioveva tutti i giorni, non avevano dove dormire, dormivano sul campo, nei saloni, sul sagrato, però a un certo punto ho detto.- facciamo una cosa un po’ fuori dal diritto; io tolgo il Santissimo, lo metto da parte, offro la Chiesa e faccio dormire in Chiesa almeno i bambini, le donne, i minori. Tra questi c’era anche una signora incinta che ha partorito dopo tre giorni ed un bambino di 3 anni e così via dicendo… Apriti cielo! me ne hanno detto di tutti i colori. Pensate che un giorno passava di lì una signora che di solito veniva a cantare nel coro e che veniva spesso con sua figlia e me ne ha detto di tutti i colori: -Don Rito, io spero che ti venga qualche malanno o che il Vescovo ti mandi da qualche parte, perché hai rovinato la nostra parrocchia ed hai consegnato la Chiesa ai musulmani. Ed hanno messo le voci cattive che io avevo tolto tutti i segni sacri dalla chiesa. Ed allora ho detto:- Ma perché nessuno é venuto a chiedermi chi erano quelle persone? Presentavo ???????, che aveva 3 anni, la sorella che era incinta ed ha partorito dopo tre giorni, l’altra bambina e l’altra donna, gli altri… perché per noi l’esperienza che abbiamo vissuto a Ventimiglia é stata quella; perché io pensavo: – i migranti, che a volte tu ti fermi a guardare i social, ti fermi, guardi quello che la gente scrive e cominci a pensare davvero ci sono situazioni cattive, che qualcuno sta per invaderti, che magari qualcuno uccide, qualcuno ti toglierà???????????
Quando invece ho cominciato a conoscere le persone per me non erano più migranti , erano i nomi, quando cominci a conoscere queste persone, la storia di queste persone, ti rendi conto che non é un problema, che non siamo più umani, che non abbiamo più una coscienza e allora ho cominciato ad accoglier tutti, in un momento in cui le istituzioni erano completamente assenti, quindi i migranti non avevano nessuna assistenza. Abbiamo iniziato e sono arrivate tante persone volontarie, sono arrivate tantissime persone che sono venute ad aiutarci, a chiederci di cosa avete bisogno?????????, per cominciare a raccogliere viveri. Dopo un po’ di tempo, il 15 Luglio la Prefettura ha deciso di aprire un luogo dove accogliere questi migranti, un campo, anche se ci sono dei passaggi molto particolari. A un certo punto io non ce la facevo più, é arrivata l’ASL che ha fatto un verbale che non finiva più, dicendo che io non ero in regola, che quelle aule del catechismo non erano adatte per accogliere queste persone, che c’erano pochi bagni, ecc.. Io ho detto, ci vuole proprio l’ASL per capire che nello spazio della parrocchia non possono stare mille persone e che stiamo facendo veramente i miracoli. Dopo il verbale dell’ASL mi arriva anche il verbale del comune, dicendo che io ero veramente fuori regola, che stavo violando le regole e che mi stavo comportando davvero come un cattivo cittadino. E allora tutto questo ha portato all’apertura del campo della Croce Rossa, una cosa molto bella , però per andarci occorreva fare 4 km a piedi, attraversano una superstrada senza passaggio a livello, dove dopo un po’ purtroppo alcuni sono finiti sotto le macchine, ci sono stati 3 morti. Noi abbiamo protestato. Io nella chiesa, a seguito di accordi con la Prefettura potevo accogliere le donne, i bambini, i minori non accompagnati ed i malati Tutti gli altri dovevano andare nel campo. però alcuni non volevano andare, perché vicino alla chiesa c’era la stazione ed anche l’inizio dei sentieri. Perché capite che uno che poi deve farsi 4 km per trovare qualcuno che lo passa o qualcuno che gli indica la strada. Ed allora la gente si é organizzata ed hanno detto:- Siccome ci sono alcune persone che stanno fuori, qui ci sono alcuni solidali noi andiamo a dargli da mangiare a queste persone, fuori, gli diamo dell’acqua, qualcosa da mangiare. Un giorno hanno fatto delle foto a questi che mangiavano, li hanno cariato su facebook dicendo:- guardate come i migranti hanno distrutto la nostra città. Pochi giorni dopo l’ordinanza del Sindaco: ” Reato dar da mangiare a chiunque per strada e dare da bere a chiunque”. Mi viene da piangere. Una volta sono arrivati i solidali, é arrivata la polizia ed ha fatto il verbale a tutti quanti, tutti quanti avevano violato la legge, perché avevano dato da mangiare a delle persone che avevano fame. Guardate che certe cose dovremo cercare di distinguerle e capirle bene. Tu rimani là pensare:- ma da quanto é reato dar da mangiare al povero?
Ed il Vangelo dice “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere…”
Ma la cosa più triste é vedere le persone, anche quelle che venivano a messa , dalle finestre e dai balconi gioire, oppure chiamare la polizia “Guardate che là, in quell’angolo ci sono due che stanno dando da mangiare. Ragazzi, non abbiamo coscienza, ma c’é qualcosa che non funziona, c’é qualcosa che non va nel nostro cuore, nella nostra mente e nella nostra società. Noi dobbiamo muoverci, fare qualcosa, ma questo non é normale, questo é un mondo inumano, un mondo dove non possiamo assolutamente capire!
Pensiamo che vicino alla chiesa a un certo punto io potevo accogliere quelle persone, ma dovevo dare da mangiare a quelli oltre il cancello, ma non potevo dare neanche una bottiglia d’acqua. Pensate che più di una volta ho fatto la spedizione, la polizia, perché avevano scoperto che noi, alcuni dei miei volontari avevano dato delle coperte o una bottiglia d’acqua o avevano passato un pacchettino da mangiare o magari la signora lì o però il fratello e qualcun altro era fuori, per cui di nascosto dal cancello e consegnava un pacchettino…; però il giorno dopo il comitato di quartiere : ” Don Rito, ti dobbiamo parlare. – Cosa é successo? Ieri sera guarda che i tuoi volontari hanno dato delle bottiglie d’acqua, hanno dato da mangiare ai migranti quà e là. Oh ragazzi! io dicevo.-sì. é vero, era una cosa grave? ma non sai dell’ordinanza del sindaco? Ed alla fine, cosa vuoi rispondere a queste persone? Non c’é niente da rispondere, c’é solo da metterti a piangere. E allora i solidali hanno organizzato , c’era un tubo, vi hanno piazzato un rubinetto vicino a questo posto di fortuna che hanno organizzato i solidali, dove dormivano sotto i tunnel, ferrovia e così via dicendo, noi di nascosto sempre violando la legge, davamo i sacchi a pelo, qualche materassino, ma sempre di nascosto, in sacchi neri, facendo finta che era della spazzatura, e poi loro venivano, la prendevano e potevano dormire. Pensate, se qualcuno ci sentisse e non sanno di cosa parliamo…..
E allora ecco che in tutto questo ti rendi conto che davvero la situazione é complessa. Io poi nei prossimi giorni avrò l’occasione di condividere con voi la mia esperienza, vi potrei raccontare mille cose. Ma quando tu sei dentro e cominci a conoscere le persone a conoscere queste situazioni, in italiano si direbbe “mi piange il cuore”, di rendermi conto di in quale mondo si vive. Io come sacerdote per me é una sofferenza, poi come alcune delle persone fedelissime, che venivano a messa non mi hanno parlato più perché avevo fatto una cosa grave ed ancora oggi io devo essere mandato via da Ventimiglia perché sono una persona che causa tanti danni a Ventimiglia perché incentivo la popolazione ad aiutare i migranti.
Solidarity Watch
[Chiara Pettenella]
Buongiorno a tutte e a tutti. È vero, il sito alla fine non è ancora online, ma non tarderemo. Vorremmo ringraziarvi non solo per averci invitato questo fine settimana, ma anche per la fiducia che si è espressa nei nostri scambi di questi mesi via mail, e del vostro sostegno non solo spirituale…ma anche economico.
Ci presentiamo un po’. Solidarity Watch è una squadra di quattro persone, ci manca la quarta collega, che è rimasta a Marsiglia, che è il nostro campo-base. [Solidarity watch nasce] lì, nell’estate del 2017. Siamo tutte ricercatrici, le [colleghe] francesi, e io, che sono il lato italiano. Stiamo facendo tutte un dottorato di scienze politiche all’università di Aix-en Provence, che si trova appunto vicino a Marsiglia. Il lavoro che proponiamo con Solidarity watch è un lavoro di riflessione. Perché? Perché è un lavoro in cui mettiamo in gioco le competenze che ci vengono dalla ricerca, e il fatto di essere delle persone mobili. Contrariamente a molte e molti di voi che sono attive e attivi in modo molto concreto su dei territori – locali o internazionali, non importa -, noi ci troviamo ad essere per forza di cose poco legate a un territorio in particolare. Ci spostiamo attraverso il territorio, e questa è la nostra dimensione. Queste sono le competenze che mettiamo in gioco nella costituzione di questo progetto di Solidarity watch.
Partiamo dall’inizio, dal momento in cui ci siamo ritrovate a lavorare insieme. Era il novembre del 2016. Eravamo, tanto per cambiare, una in Turchia, una a Bruxelles, le altre in Francia…quindi cominciamo a lavorare insieme via skype e via mail. Succede che un collega, ricercatore dell’università di Nizza, Pierre-Alain Mannoni, viene incriminato per aver trasportato nella sua macchina delle persone migranti, senza documenti, alla frontiera franco-italiana. Circola questa voce nelle mailing-list universitarie, e ci ritroviamo ad agire, di fronte a questa cosa: scriviamo una lettera aperta che raccoglie, nel giro di pochi giorni, più di settecentocinquanta firme, mandiamo questa lettera alla presidenza della repubblica francese, al primo ministro e al ministro degli interni francesi, per denunciare la criminalizzazione di questa persona. Per la cronaca, Pierre-Alain Mannoni è stato assolto in primo grado, poi condannato in appello a due mesi con condizionale ed è attualmente in attesa del giudizio in cassazione.
Quello che capiamo immediatamente nel novembre del 2016 è che non si tratta di un caso non è isolato, e che questa storia che si svolge alla frontiera franco-italiana ricorda storie simili che si stanno svolgendo nel nord della Francia, a Calais, in Italia, e a molte altre frontiere dell’Europa. E la moltiplicazione di questi casi ci spinge a porci due domande: la prima, molto semplicemente, quanti ne stanno succedendo di questi casi; e la seconda, che cosa questi casi di criminalizzazione di persone che hanno fatto degli atti di solidarietà nei confronti dei migranti, che cosa questi casi ci dicono della società in cui viviamo. E nasce Solidarity watch per cercare di dare una risposta a queste domande. E quello che osserviamo quasi subito è che quello che questi casi di criminalizzazione ci dicono va molto al di là della “semplice” criminalizzazione di atti di solidarietà nei confronti dei migranti, perché fanno vedere che l’attacco dei diritti delle persone, la criminalizzazione di pratiche solidali, si producono in spazi molto diversi e colpisce pratiche molto diverse: dai militanti ecologisti [mobilitati] per la difesa di certe regioni, di certe zone, al lavoro di informazione – c’è un fotografo che, poco dopo il caso del nostro collega ricercatore, è stato anche lui messo sotto processo mentre stava documentando quello che succedeva alla frontiera; [le manifestazioni in opposizione alle] violenze della polizia, agli abusi di potere… A partire da questa prima osservazione, la necessità che diventa centrale nel nostro progetto di pensare in modo desettorizzato. Se non fossimo arrivate a questa prima conclusione…il rischio era quello di riprodurre e rinforzare il discorso pro- o anti-migranti, cioè, avremmo fatto il gruppo pro-migranti, riproducendo il discorso che fa molto comodo alle destre xenofobe.
Quindi, il nostro lavoro è di ripensare la solidarietà come parola, come valore sociale, come pratica di resistenza. Ed è un lavoro che richiede una dimensione politica, che si fa in una dimensione politica. Ed è un lavoro indispensabile. Quello che diciamo noi è che una società solidale è un pleonasmo. Che cosa vuol dire? Dire “società solidale” è usare un’espressione sovrabbondante, che si forma con l’aggiunta di una parola o di un concetto che è già presente: la società è solidale, la società è legame. Diceva il sociologo francese Durkheim che la solidarietà corrisponde “a quei legami invisibili che legano tra di loro gli individui e che fanno in modo che la società resti unita”. Diceva che la solidarietà è il “cemento della società”.
Quindi parleremo, nel tempo che ci è dato, di solidarietà cercando di ricontestualizzare questa parola in modo storico; della solidarietà come pratica – quindi facendo una riflessione sull’organizzazione della solidarietà: che cosa vuol dire concretamente essere solidali nel 2018, nel mondo, nella società in cui viviamo; e poi avremo ovviamente il tempo di raccontarvi qualcosa in più proprio sulle tappe molto concrete del progetto di Solidarity watch che stiamo costruendo.
Il primo punto, dicevo, è un tentativo di ricontestualizzare la nozione, la parola solidarietà, in una prospettiva un po’ più storica, un po’ più lunga, per capire che cosa vuol dire oggi, nel 2018. Facciamo una premessa. Dicevo prima, siamo quattro ricercatrici, e stiamo facendo un dottorato in scienze politiche su temi diversi, però, ognuna di noi in realtà sta studiando – a partire da punti di vista lontani – i processi di costruzione di categorie di popolazione che dividono, creano delle frontiere all’accesso di questo o quell’altro gruppo di popolazione a determinati diritti, e sul ruolo che i governi e le istituzioni svolgano nella produzione e nella messa in atto, nella concretizzazione di queste frontiere giuridiche e amministrative. Dico questa cosa perché, per presentare la nostra riflessione, il nostro lavoro sulla solidarietà, dobbiamo per forza mostrare il legame tra queste due nozioni: “categoria” e “solidarietà”.
Allora, un pochino di storia, veramente una goccia. Guardiamo la questione dal punto di vista dello stato: la solidarietà dello stato, la solidarietà istituzionale. Lo stato sociale, nella sua costruzione, nasce come strumento che ha per obiettivo di mantenere lo status quo ed evitare le manifestazioni più estreme di disuguaglianza sociale. Il concetto di “assurance universelle” in francese – di garanzia universale – mira proprio a mantenere sotto un certo livello di rischio le disuguaglianze sociali, ridistribuendo determinate risorse. Questo ha funzionato, più o meno, finché c’è stata un’idea di stato sociale. E poi, poi arrivano le cosiddette crisi economiche, lo stato sociale si ripiega, e questa nozione di garanzia universale viene sostituita dall’idea, dalla nozione di assistenza selettiva. Perché? Perché in questo contesto, in particolare a partire dagli anni novanta, di ripiegamento dello stato sociale e di crisi economica – cioè del potere che si giustifica attraverso il discorso della crisi economica – è il modello del cosiddetto new public management che si impone nella gestione dello stato. Che cosa vuol dire? I teorici di questa teoria del new public management dicono che lo stato deve comportarsi come un’impresa privata, deve fare profitto. E quindi si comincia a selezionare sempre di più quei gruppi di persone che avranno un diritto. E si diffonde sempre di più, in parallelo – dinamica fondamentale per capire quello che diremo dopo -, si diffonde sempre di più un sistema fondato sul sospetto che queste popolazioni a cui accordiamo un certo diritto siano degli approfittatori. Visto che il new public management dice che lo stato deve fare profitto, bisogna stare attenti a distribuire il budget, queste risorse, solo a chi ne ha veramente bisogno, e quindi si va a selezionare sempre di più, sempre di più, sempre di più, delle parti sempre più fini e sottili di popolazione a cui attribuiremo queste risorse. E quindi si sospetta che i richiedenti asilo siano dei falsi richiedenti asilo – per no parlare di migranti, che in realtà sono sempre migranti economici che ne approfittano -, ma si sospetta anche che i disoccupati siano dei finti disoccupati, che chi chiede un aiuto per pagare la casa sia in realtà un approfittatore, eccetera eccetera.
Io ho detto prima che stiamo facendo di tutto, nel nostro progetto di Solidarity watch, per non restare ancorate a questa divisione pro/anti migranti. Adesso mi ritrovo a parlare di migranti: dicevo, i falsi e veri richiedenti asilo, eccetera. C’è un senso, se si parte da qui. C’è un senso perché c’è una specificità dei migranti, o meglio, c’è una specificità delle politiche migratorie. Qual è questa specificità? Le politiche migratorie sono un laboratorio, molto semplicemente, delle politiche neoliberali, delle politiche di sicurezza, delle politiche di restrizione o di negazione di diritti fondamentali, sociali, politici. Perché? Perché i migranti, come categorie che non ha voce, per definizione – pensate semplicemente al diritto di voto – sono la categoria di popolazione più facilmente attaccabile, la categoria sulla quale si possono testare delle pratiche liberticide, delle politiche liberticide. Quindi attenzione, quando si parla di politiche liberticide nei confronti dei migranti, questa cosa è uno specchio di quello che succede nelle nostre società a un livello molto più generale. La cosiddetta “crisi dei migranti” – questo non lo diciamo noi, lo dicono in tanti e in tante – è chiaramente una crisi delle nostre società.
L’ultimo punto, prima di dare la parola a Sarah. Parliamo di criminalizzazione di persone solidali, giusto? Quello che succede è che, se si pensa che delle persone assistite, che hanno – avrebbero – diritto, che hanno bisogno dell’aiuto dello stato, se si pensa che queste persone, secondo la logica del sospetto, approfittano del sistema, per forza di cosa, chi si mostra solidale con queste persone, cerca di aiutarle ad avere accesso a questi diritti è considerato come qualcuno che contribuisce a approfittare di queste poche risorse che lo stato dichiara di avere. E quindi c’è un legame molto chiaro e diretto tra la delegittimazione delle persone che chiedono l’aiuto dello stato – ancora una volta, non solo i migranti, i richiedenti asilo [, ma anche] i disoccupati, le persone che hanno bisogno di aiuto per la casa, eccetera – e la delegittimazione delle persone che si muovono, con gesti solidali di vario tipo per aiutare chi è delegittimato, chi [dovrebbe essere] aiutato dallo stato. E su questa nozione di delegittimazione e di criminalizzazione è Sarah che continua.
[Sarah Sajn]
Buongiorno. Il mio italiano non è buono, devo leggere un testo che abbimo scritto.
La questione della criminalizzazione della solidarietà, e quindi della delegittimazione di certe forme di solidarietà, solleva la questione della definizione e della forma dominante dell’organizzazione della solidarietà nei nostri paesi europei. Questa questione è profondamente politica. Ma spesso viene trattata in termini umanitari, e in modo molto settorizzato, in particolare perché ci sono delle figure professionali, dei ministeri, delle linee budgetarie, degli strumenti particolari…in funzione dei settori d’intervento dello Stato e delle categorie: migrazioni, sicurezza, ambiente, questioni sociali…
Ma è il funzionamento stesso della nostra società che è rimesso in questione, come diceva Chiara prima. Non è una questione di aspetti marginali, di settori particolari, o delle categorie di persone, perché la criminalizzazione della solidarietà tocca direttamente le regole e i criteri del nostro vivere insieme.
Per rispondere a questa sfida è quindi necessario uscire dalle categorie imposte.
È in particolar modo situandosi ai margini di ciò che è legittimo per lo stato che possiamo trovare delle forme di solidarietà che sono in rottura con le categorie imposte [e] che tendono a escludere le forme primarie di solidarietà, piuttosto che a includerle.
Alcune forme di solidarietà resistono, esistendo ai margini del riconoscimento da parte dello stato e costituiscono il terreno dove possiamo ripensare il nostro sistema di vita in comune. Ma attenzione perché si tende a pensare che delle forme individuali, auto-gestite, di solidarietà [pre-esistono] ai margini della solidarietà legittima definita dallo stato. In realtà, lo stato resta la forma più importante di organizzazione politica in Europa e continua ad avere il monopolio della violenza legittima. Questo è un punto importante della riflessione, perché lo stato controlla queste forme di solidarietà, di fatto, e ha il potere di distruggerle usando la violenza. Quello che vediamo in Francia in questi giorni è un uso disproporzionato della forza per reprimere dei movimenti sociali che tendono a convergere e a rimettere in causa le categorie [d’azione e di selezione delleapopolazione] usate dallo stato. Abbiamo studenti, degli operai; abbiamo la questione di questo aeroporto – non so se conoscete – Notre Dame de Landes [comune a 30 km dalla città di Nantes che vede una forte mobilitazione contro la costruzione di un nuovo aeroporto e in difesa della regione e dell’ambiente, violentemente repressa da parte forze dell’ordine.] Abbiamo molte forme di solidarietà che convergono e questo sembra essere un problema per lo stato.
Riprendendo le parole e la definizione di Gherardo Colombo che abbiamo ascoltato all’inizio di questo congresso: lui diceva che la solidarietà funziona su una comunità ristretta, e [attraverso l’identificazione di] un nemico; un Noi e un Loro. Dunque ci sono dei criteri per includere e escludere le persone, per definire chi merita di essere [incluso nei legami di] solidarietà. Ora, se torniamo alla questione degli “assistés” – delle persone assistite – dobbiamo chiederci chi abusa di questi legami [sociali]. Chi prende senza dare? Chi si serve delle risorse comuni per il suo proprio interesse? Chi approfitta delle risorse comuni per arricchirsi personalmente? E se guardiamo bene, non sono i più poveri, loro beneficiano – in proporzione, in volume, in euro, diciamo – poco della solidarietà. Quelli che sono i veri assistiti sono in realtà gli evasori fiscali e le multinazionali che beneficiano di tanto aiuto da parte dello stato e quindi della comunità. Ecco perché dobbiamo riappropriarci la solidarietà come nozione, come valore; ma anche riappropriarci i criteri che la definiscono. Non posso sviluppare, ma c’è sicuramente [in gioco] una questione di democrazia, alla fine. Chi decide di questi criteri?
Il nostro progetto richiede ambizione ma anche modestia. Evidentemente non pensiamo di essere le prime a pensare queste questioni, di essere più rivoluzionarie, di partire da zero. Abbiamo molti strumenti sviluppati dalla sociologia, dai partiti, sindacati, organizzazioni come la Rete…Sono in molti ad aver riflettuto sulla questione della solidarietà.
Oggi, quello che constatiamo non è facile[, ma deve farci reagire]. Le idee fasciste e le forme di solidarietà che queste idee propongono guadagnano terreno. Lo stiamo vedendo in tante elezioni in giro per l’Europa: le idee fasciste stanno ridefinendo la solidarietà, la sua organizzazione politica, i criteri identitari sui quali si fonda, cioè l’identità di gruppo. Per esempio, a marzo a Marsiglia ha aperto un centro che si chiama Bastione sociale, che si ispira all’esperienza italiana di Casapound e che propone un’azione di solidarietà nei confronti delle persone francesi, solo francesi, di cui lo stato non si occupa, in nome di quella che in francese viene chiamata la “priorità nazionale”. Usano il linguaggio umanitario che sentiamo usare dalle ONG e se non si fa attenzione, se non siamo vigilanti, sembrerebbe un discorso semplicemente umanitario.
Allora abbiamo un problema: qualcosa non ha funzionato [nelle idee] di sinistra.
Come diceva il filosofo Walter Benjamin, “dietro ogni fascismo, c’è una rivoluzione fallita”. Il fascismo si avvicina, stiamo attenti a non mancare il tempo della rivoluzione!
[Chiara Pettenella]
Concludo con due informazioni sull’evoluzione del nostro progetto.
L’idea è molto semplice. Sarebbe quella di legare le emozioni , il sentimento di ingiustizia quotidiano che tante persone vivono, a una riflessione politica [collettiva]. Questo è quello che vogliamo fare sul nostro sito di Soidarity watch che sarà ben presto online.
Come vogliamo farlo? Il fatto di cominciare dall’idea della criminalizzazione della solidarietà nei confronti migranti – anche se abbiamo detto che vogliamo uscire da questa logica di [opposizione tra] aiutare i migranti/non aiutare i migranti -, il fatto di cominciare da questo fatto, ci permetti di rimettere al centro delle cose un po’ essenziali come il diritto a mangiare, dormire, non avere freddo; poter partorire in un luogo normale anziché in mezzo alla neve attraversando le montagne; mangiare del cibo sano, bere dell’acqua pulita senza aver paura di ammalarci… I principi di base della vita! Ed è da lì che bisogna ripartire, chiaramente, per ricostruire i legami che uniscono tra di loro gli esseri umani che vivono su uno stesso territorio, che è la nostra definizione di società, indipendentemente da dove vengono. Quindi per rispondere alle domande che sollevava Sarah sull’organizzazione della solidarietà.
Sul sito, concretamente: partire dalla criminalizzazione della solidarietà significa, prima di tutto contare le persone che sono confrontate a questa delegittimazione, renderle visibili, anche per prendere coscienza del nostro potenziale di cambiamento rispetto a questi fenomeni di criminalizzazione della solidarietà – lo diceva Sarah -[, ristabilendo] dei criteri di solidarietà che non sono necessariamente quelli imposti dallo stato e che funzionano per categorie sempre più strette, sempre più sottili. Quindi ci sono tre cose che facciamo sul sito: la prima, è la costruzione di un database in cui raccogliamo nel modo più ampio possibile su scala europea i casi di criminalizzazione delle solidarietà; seconda cosa, raccogliamo testimonianze, cioè facciamo in modo di ricordare che questi fenomeni sono le storie di persone – dare dei volti e delle voci: quindi video, audio, racconti, immagini…; terza e ultima cosa, vogliamo proporre su questo sito delle analisi più concettuali, o più globali, con contributi di ricercatori, esperti, militanti, associazioni…che possono avere una visione più astratte e politica di queste problematiche.
E su questo ultimo punto concludo dicendo che vi ringraziamo tantissimo del vostro sostegno e del vostro aiuto anche economico, e che vorremmo chiedervi di partecipare. Cioè, questo lavoro che stiamo lanciando è un lavoro fatto collettivamente, [che si costruisce ]attraverso contributi – a partire da tanti punti di vista: militanti, politici, eccetera – che devono incontrarsi sul nostro sito per ridefinire la solidarietà come parola, coma valore sociale e come pratica. Abbiamo degli obiettivi grandissimi, l’utopia è la nostra parola d’ordine, e abbiamo tante piccole cose da fare. Per esempio, permettere a tante persone di tanti paesi europei di poter utilizzare la nostra piattaforma, e quindi un lavoro di traduzione di testi, di ricerca di testi in altre lingue – tutte le lingue dell’Europa… [Questo] spazio di scambio che esiterà solo se arriveranno contributi dalle persone più varie, compresi voi, quindi sentitevi assolutamente chiamati in causa.
Saremo molto felici di avere le vostre domande e commenti e vi ringraziamo molto.
Intervista a Cedric Herrou VIDEO
Cimitero di Mentone VIDEO
“Aiutiamoli a casa loro”: questo slogan riecheggia spesso nella nostra epoca di rigurgiti po-pulisti e xenofobi. L’idea, in sé, non sarebbe neppure sbagliata: gran parte dei nostri simili sta bene a casa propria e, se migra, lo fa per bisogno o disperazione. Migliorare le condizioni di vita nei luoghi di provenienza, potrebbe realmente ridurre il fenomeno migratorio. Sbagliato è l’uso ipocrita che se ne fa: chi pronuncia questa frase, quasi sempre non ha la minima idea di come fare o, avendola, non ha la minima intenzione di farlo. Ecco, dunque, cinque “semplici” consigli, per “aiutarli a casa loro”.
1. Riconvertire la nostra industria bellica.
Secondo lo “Stockholm International Peace Research Institute”, l’Italia è al nono posto nel mondo ed al quinto in Europa tra i paesi esportatori di armi, con circa il 2,5 % del totale . Tra i maggiori acquirenti, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Algeria, Israele, Marocco, Qatar, Taiwan e Singapore. Il nostro Paese ha una lunga tradizione in materia di produzione armiera: gli aerei e gli elicotteri in provincia di Varese, le mine e le pistole in provincia di Bresca, le navi a La Spezia, sono solo alcune delle “eccellenze”. In teoria, la vendita di armi a paesi stranieri è disciplinata dalla Legge 9 luglio 1990 n° 185 che prevede, tra l’altro, il divieto assoluto di vendita ai paesi in stato di conflitto armato o responsabili di violazione dei diritti umani. Divieto sistematicamente ignorato, come dimostrano le recenti forniture ad Arabia Saudita (conflitto in Yemen) e ad Israele (conflitto a Gaza). Per non parlare del-le c.d. “triangolazioni”, ossia vendite a paesi “puliti”, utilizzati come mere stazioni di transito. Inutile dire che i principali acquirenti di armi sono i paesi in guerra o che, a loro volta, arma-no milizie impegnate in guerre civili. Banalmente, le armi alimentano le guerre e le guerre produco-no morti e rifugiati. Vero è che l’industria armiera, come qualsiasi altra, crea ricchezza: ma a quale prezzo? Tra l’altro, molti studi hanno ormai accertato che l’aumento della spesa bellica non produce automatica-mente lavoro. Un programma di riconversione dell’industria bellica in industria civile potrebbe consentire al nostro paese di “chiamarsi fuori” da una delle principali cause di migrazione, senza incidere negativamente sull’occupazione.
2. Porre termine alle nostre “missioni di pace”.
L’art. 11 della nostra Costituzione stabilisce che “l’Italia ripudia la guerra … come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Infatti, ogni volta che, in ambito NATO, i nostri mili-tari sono impegnati all’estero, si parla di “missioni di pace”. Ma lo sono davvero? Iraq, Afghanistan, Libia, Siria sono terreni in cui abbiamo portato la pace? Con quali criteri sono stati scelti questi terreni? Perché, per esempio, non ci sono state “missioni di pace” per fermare le guerre civili in Repubblica Democratica del Congo o in Repubblica Centrafricana? Gheddafi era certamente un dittatore, ma non era l’unico e, probabilmente, neppure il più sanguinario. E’ evidente che l’impiego dei nostri militari risponde a logiche geopolitiche, più che umanitarie. E queste guerre, comunque si voglia definire la nostra partecipazione, hanno prodotto profughi, immigrati, richiedenti asilo. Basti pensare alla Libia divenuta, da paese accogliente per gli immigrati dell’Africa equatoriale, “porta” per il loro ingresso in Italia, attraverso il Mediterraneo.
3. Lottare concretamente contro i cambiamenti climatici.
Siccità, carestie, riduzione delle terre coltivabili sono la principale causa delle migrazioni c.d. “economiche”. Sempre che vi sia qualche differenza tra chi emigra per non morire in guerra e chi lo fa per non morire di fame. I cambiamenti climatici in atto stanno, del resto, colpendo principalmente i paesi poveri, in cui l’ecosistema è più fragile e l’economia si regge, in gran parte, sull’agricoltura di sussistenza. Con il triste paradosso che chi ne subisce le maggiori conseguenze è responsabile solo in minima parte della produzione dei “gas serra”, ormai quasi unanimemente indicati come causa del riscalda-mento globale. Eppure, il nord del mondo, che ne è invece il principale responsabile, non riesce assolutamente a trovare un accordo per limitare concretamente la loro produzione, malgrado l’esistenza, ormai da decenni, di valide tecnologie per la produzione di energia più pulita: basti pensare al foto-voltaico o ai motori ibridi, per le autovetture. E’ anche chiaro che, in questo ambito, l’iniziativa individuale serve a poco: è del tutto inutile, ad esempio, acquistare un’auto elettrica se, poi, l’energia che si usa è ancora prodotta da fonti fossili. Non solo: manca addirittura il coraggio di pubblicizzare e sostenere iniziative di “restituzione”, quale, ad esempio, la realizzazione, con il contributo di ONU e Banca Mondiale, della “Great green wall”, una muraglia di alberi larga 15 chilometri e lunga 8.000, destinata ad attraversare l’Africa dalla costa atlantica a quella dell’oceano indiano, per fermare l’espansione del deserto .
4. Boicottare le multinazionali agroalimentari e favorire il commercio equo.
Le multinazionali del settore alimentare fanno certamente parte del problema. Occupano il territorio con enormi appezzamenti di monocultura, distruggendo l’agricoltura di sussistenza ed impoverendo i terreni. Si appropriano delle risorse idriche, spesso scarse e le sfruttano in maniera indiscriminata (i nostri amici Mapuche ne sanno qualcosa). Utilizzano fertilizzanti chimici e pesticidi, senza preoccuparsi delle ricadute sull’ambiente e sulla popolazione. Sfruttano il lavoro dei locali, retribuendoli con paghe da fame. Tutto per portare sui banchi dei nostri supermercati le banane a 2 €. il chilo o il caffè a 2,5 €. la confezione e realizzare enormi profitti. Già molti anni fa, padre Alex Zanotelli diceva che oggi è possibile fare politica anche tra i banchi di un supermercato, semplicemente decidendo cosa comprare. Boicottare le grandi multinazionali e favorire il commercio equo, anche a costo di spendere di più, potrebbe essere un buon modo per “aiutarli a casa loro”.
5. Assumere iniziative internazionali contro il “land grabbing”.
Il “land grabbing” (accaparramento della terra) è un fenomeno geopolitico che consiste nel-l’acquisizione di terreni agricoli su scala globale da parte si soggetti stranieri, spesso con la connivenza del governo locale. Poco importa l’uso che poi se ne faccia: in realtà rurali, ciò causa l’allontanamento delle popolazioni che quella terra coltivavano da generazioni e la loro migrazione, nella migliore delle ipotesi, nelle grandi periferie urbane. Non si creda, poi, che tale modo di procedere sia una prerogativa esclusivamente cinese: basti pensare agli enormi latifondi della famiglia Benetton, in Argentina. E’ evidente che accordi internazionali volti a limitare il “land grabbing”, se concretamente rispettati, potrebbero rimuovere una delle cause del fenomeno migratorio.
Facile, vero? Sarebbe un modo per riconsegnare loro la speranza, l’unico vero motivo per non partire. Mentre ci organizziamo dovremmo, però, tutelare davvero chi, anche per causa nostra, attraversa deserti e mari per cercare, da noi, un mezzo per sopravvivere dignitosamente. Sarebbe un’occasione per restituire almeno una parte di quanto abbiamo loro tolto.
Rete di Varese
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