Circolare nazionale Gennaio 2019
“Aiutiamoli a casa loro”: questo slogan riecheggia spesso nella nostra epoca di rigurgiti po-pulisti e xenofobi. L’idea, in sé, non sarebbe neppure sbagliata: gran parte dei nostri simili sta bene a casa propria e, se migra, lo fa per bisogno o disperazione. Migliorare le condizioni di vita nei luoghi di provenienza, potrebbe realmente ridurre il fenomeno migratorio. Sbagliato è l’uso ipocrita che se ne fa: chi pronuncia questa frase, quasi sempre non ha la minima idea di come fare o, avendola, non ha la minima intenzione di farlo. Ecco, dunque, cinque “semplici” consigli, per “aiutarli a casa loro”.
1. Riconvertire la nostra industria bellica.
Secondo lo “Stockholm International Peace Research Institute”, l’Italia è al nono posto nel mondo ed al quinto in Europa tra i paesi esportatori di armi, con circa il 2,5 % del totale . Tra i maggiori acquirenti, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Algeria, Israele, Marocco, Qatar, Taiwan e Singapore. Il nostro Paese ha una lunga tradizione in materia di produzione armiera: gli aerei e gli elicotteri in provincia di Varese, le mine e le pistole in provincia di Bresca, le navi a La Spezia, sono solo alcune delle “eccellenze”. In teoria, la vendita di armi a paesi stranieri è disciplinata dalla Legge 9 luglio 1990 n° 185 che prevede, tra l’altro, il divieto assoluto di vendita ai paesi in stato di conflitto armato o responsabili di violazione dei diritti umani. Divieto sistematicamente ignorato, come dimostrano le recenti forniture ad Arabia Saudita (conflitto in Yemen) e ad Israele (conflitto a Gaza). Per non parlare del-le c.d. “triangolazioni”, ossia vendite a paesi “puliti”, utilizzati come mere stazioni di transito. Inutile dire che i principali acquirenti di armi sono i paesi in guerra o che, a loro volta, arma-no milizie impegnate in guerre civili. Banalmente, le armi alimentano le guerre e le guerre produco-no morti e rifugiati. Vero è che l’industria armiera, come qualsiasi altra, crea ricchezza: ma a quale prezzo? Tra l’altro, molti studi hanno ormai accertato che l’aumento della spesa bellica non produce automatica-mente lavoro. Un programma di riconversione dell’industria bellica in industria civile potrebbe consentire al nostro paese di “chiamarsi fuori” da una delle principali cause di migrazione, senza incidere negativamente sull’occupazione.
2. Porre termine alle nostre “missioni di pace”.
L’art. 11 della nostra Costituzione stabilisce che “l’Italia ripudia la guerra … come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Infatti, ogni volta che, in ambito NATO, i nostri mili-tari sono impegnati all’estero, si parla di “missioni di pace”. Ma lo sono davvero? Iraq, Afghanistan, Libia, Siria sono terreni in cui abbiamo portato la pace? Con quali criteri sono stati scelti questi terreni? Perché, per esempio, non ci sono state “missioni di pace” per fermare le guerre civili in Repubblica Democratica del Congo o in Repubblica Centrafricana? Gheddafi era certamente un dittatore, ma non era l’unico e, probabilmente, neppure il più sanguinario. E’ evidente che l’impiego dei nostri militari risponde a logiche geopolitiche, più che umanitarie. E queste guerre, comunque si voglia definire la nostra partecipazione, hanno prodotto profughi, immigrati, richiedenti asilo. Basti pensare alla Libia divenuta, da paese accogliente per gli immigrati dell’Africa equatoriale, “porta” per il loro ingresso in Italia, attraverso il Mediterraneo.
3. Lottare concretamente contro i cambiamenti climatici.
Siccità, carestie, riduzione delle terre coltivabili sono la principale causa delle migrazioni c.d. “economiche”. Sempre che vi sia qualche differenza tra chi emigra per non morire in guerra e chi lo fa per non morire di fame. I cambiamenti climatici in atto stanno, del resto, colpendo principalmente i paesi poveri, in cui l’ecosistema è più fragile e l’economia si regge, in gran parte, sull’agricoltura di sussistenza. Con il triste paradosso che chi ne subisce le maggiori conseguenze è responsabile solo in minima parte della produzione dei “gas serra”, ormai quasi unanimemente indicati come causa del riscalda-mento globale. Eppure, il nord del mondo, che ne è invece il principale responsabile, non riesce assolutamente a trovare un accordo per limitare concretamente la loro produzione, malgrado l’esistenza, ormai da decenni, di valide tecnologie per la produzione di energia più pulita: basti pensare al foto-voltaico o ai motori ibridi, per le autovetture. E’ anche chiaro che, in questo ambito, l’iniziativa individuale serve a poco: è del tutto inutile, ad esempio, acquistare un’auto elettrica se, poi, l’energia che si usa è ancora prodotta da fonti fossili. Non solo: manca addirittura il coraggio di pubblicizzare e sostenere iniziative di “restituzione”, quale, ad esempio, la realizzazione, con il contributo di ONU e Banca Mondiale, della “Great green wall”, una muraglia di alberi larga 15 chilometri e lunga 8.000, destinata ad attraversare l’Africa dalla costa atlantica a quella dell’oceano indiano, per fermare l’espansione del deserto .
4. Boicottare le multinazionali agroalimentari e favorire il commercio equo.
Le multinazionali del settore alimentare fanno certamente parte del problema. Occupano il territorio con enormi appezzamenti di monocultura, distruggendo l’agricoltura di sussistenza ed impoverendo i terreni. Si appropriano delle risorse idriche, spesso scarse e le sfruttano in maniera indiscriminata (i nostri amici Mapuche ne sanno qualcosa). Utilizzano fertilizzanti chimici e pesticidi, senza preoccuparsi delle ricadute sull’ambiente e sulla popolazione. Sfruttano il lavoro dei locali, retribuendoli con paghe da fame. Tutto per portare sui banchi dei nostri supermercati le banane a 2 €. il chilo o il caffè a 2,5 €. la confezione e realizzare enormi profitti. Già molti anni fa, padre Alex Zanotelli diceva che oggi è possibile fare politica anche tra i banchi di un supermercato, semplicemente decidendo cosa comprare. Boicottare le grandi multinazionali e favorire il commercio equo, anche a costo di spendere di più, potrebbe essere un buon modo per “aiutarli a casa loro”.
5. Assumere iniziative internazionali contro il “land grabbing”.
Il “land grabbing” (accaparramento della terra) è un fenomeno geopolitico che consiste nel-l’acquisizione di terreni agricoli su scala globale da parte si soggetti stranieri, spesso con la connivenza del governo locale. Poco importa l’uso che poi se ne faccia: in realtà rurali, ciò causa l’allontanamento delle popolazioni che quella terra coltivavano da generazioni e la loro migrazione, nella migliore delle ipotesi, nelle grandi periferie urbane. Non si creda, poi, che tale modo di procedere sia una prerogativa esclusivamente cinese: basti pensare agli enormi latifondi della famiglia Benetton, in Argentina. E’ evidente che accordi internazionali volti a limitare il “land grabbing”, se concretamente rispettati, potrebbero rimuovere una delle cause del fenomeno migratorio.
Facile, vero? Sarebbe un modo per riconsegnare loro la speranza, l’unico vero motivo per non partire. Mentre ci organizziamo dovremmo, però, tutelare davvero chi, anche per causa nostra, attraversa deserti e mari per cercare, da noi, un mezzo per sopravvivere dignitosamente. Sarebbe un’occasione per restituire almeno una parte di quanto abbiamo loro tolto.
Rete di Varese