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Circolare Nazionale Rete Radiè Resch

Novembre 2015

Sulla speranza

Nelle circostanze attuali, mondiali e italiane, parlare di speranza può sembrare illusorio ma non può, non deve essere così. La speranza nel futuro è connaturata all’uomo, non ne può prescindere, altrimenti si voterebbe a un destino dove i valori umani perderebbero ogni significato e si piomberebbe nelle tenebre. Poiché nessuna persona ragionevole si rassegna a questo, quel briciolo di speranza che ciascuno coltiva in fondo all’animo deve essere alimentato con cura affinché produca i suoi frutti benefici per sé e per la comunità umana. Allora bisogna guardare attentamente a quel che accade intorno a noi o in luoghi lontani alla ricerca dei motivi che ci diano la forza di agire nella giusta direzione, suscitando speranze non effimere capaci di costruire – al termine di un lungo percorso – concordia e pace nella società e in un mondo oggi devastato da tragedie, dolore e disperazione. Limitandoci per il momento al nostro paese, voglio citare qualche esempio a sostegno della mia convinzione. Il 4 aprile 1944 il partigiano Paolo Braccini, condannato a morte dai fascisti, scriveva alla moglie e alla figlia nell’ultima sua lettera: “Il mondo migliorerà, siatene certe: e se per questo è stata necessaria la mia vita, sarete benedette”. In una intervista data a Enzo Biagi per “il Corriere della Sera” del 19 gennaio 1975 Giorgio La Pira alla domanda su cosa fosse più urgente fare così rispondeva: “Dare il gusto della speranza, che c’è davanti. Qualcosa deve morire in noi per rifiorire. Si pota perché poi vengono i frutti”. Giovanni Falcone nella sua celebre frase (vado a memoria): “La mafia sparirà un giorno come tutte le cose umane” esprimeva una speranza più che una certezza, nonostante la formulazione usata. Il suo assunto assolveva la funzione di rafforzare la volontà in tutti gli onesti di combattere strenuamente il fenomeno mafioso, tuttora in espansione, ma che vede anche la volontà di tanti giusti di estendere il contrasto al crimine organizzato (si pensi all’esperienza di “Libera” e al coraggio di taluni imprenditori e a quello di molti giovani nelle regioni meridionali). E’ stato assegnato al “Quartetto del dialogo” tunisino il Nobel per la pace, dopo che le varie primavere arabe avevano fallito, con il ritorno al potere delle consuete tiranniche dittature militari. Segno che le speranze alimentate in Tunisia dalla Rivoluzione dei gelsomini non erano del tutto sopite. Alcune persone determinate e animate da forte speranza sono riuscite a salvare l’obiettivo del loro popolo. Se ne parla poco ma, anche per dar loro coraggio bisogna continuare a scriverne e a seguire il processo democratico avviato. In queste settimane gli avvenimenti terribili in Israele-Palestina, dolorosissimi per entrambi i popoli e forieri di più ampi disastri (si parla di “terza Intifada dei coltelli”, totalmente diversa dalle precedenti) paiono aver risvegliato l’attenzione della sempre dormiente comunità internazionale finalmente accortasi, almeno in certi settori, che il dominio incontrastato dell’occupazione israeliana che dura dal 1948 e che dal 1967 ha assunto il carattere di vera e propria dominazione coloniale va fermato in un modo o nell’altro, nella certezza che le infinite sofferenze dei palestinesi non cesseranno con una ripresa degli eterni e inutili “colloqui di pace” tra le parti. In questo caso dove si devono cercare elementi di speranza? Solo, a mio avviso, nella volontà di pochi cittadini di Israele (e alcune loro associazioni) che volenterosamente da anni tentano di far comprendere le ragioni che dovrebbero indurre i loro compatrioti a non considerare nemici da opprimere i vicini palestinesi, e a trattarli con umanità ed equità, riconoscendo la lunga serie dei propri torti e porvi riparo. Possibile che i secoli di persecuzione subiti dai loro antenati durante la diaspora ebraica non insegnino nulla agli attuali figli d’Israele? Ascoltino le voci autorevoli e sensate di persone come Gideon Levy e di altri intellettuali, ma anche quelle di umili cittadini e cittadine – per ora poche in verità, ma ci auguriamo in aumento – invitanti alla calma, alla riflessione e alla buona volontà. Noi facciamo voti perché lo spirito di pace e l’amor di giustizia si facciano strada nel cuore degli israeliti, decisi come siamo a collaborare da lontano in tutti i modi possibili al conseguimento di tale sacrosanto obiettivo. Sulle speranze suscitate dalla venuta di papa Francesco, simili a quelle destate a suo tempo da papa Giovanni, non occorre soffermarsi. Colui che ha voluto prendere il nome del poverello di Assisi ha già suscitato aspettative luminose specialmente tra i popoli oppressi. Sta a tutti noi ascoltarlo e dar seguito alle sue ispirate esortazioni. Chi ha fede preghi perché il suo cammino non subisca intralci malevoli. A questo punto voglio collegare le speranze nel mondo a quelle che i Medici Contro la Tortura, operanti a Roma (uno dei nostri impegni storici), resuscitano nelle vittime di tortura di cui si prendono cura, provenienti da molti Paesi in cui infuriano guerre, tirannie, fame, malattie. Da poco si è stabilito un collegamento operativo tra i MCT e “Medici senza frontiere”, altra organizzazione assai benemerita e conosciutissima perché impegnata a diverse latitudini. La notizia mi ha fatto gioire e credo che altrettanto accadrà a chi mi legge. E non dimentichiamo Emergency, voluta e guidata dall’italiano Gino Strada, esempio di volontariato silenzioso ed eroico in più continenti (da qualche anno presente pure nel nostro Meridione), sempre in soccorso dei colpiti dalla barbarie di guerre assurde e dal terrorismo cieco. Torno all’Italia e alle tante attività mosse dalla speranza di arrecare sollievo materiale e spirituale a quella parte del nostro prossimo che più necessita di attenzioni fraterne e disinteressate. Innanzitutto il volontariato, nelle sue infinite versioni talvolta geniali. Impossibile citarle anche solo in parte, ma mi sembra giusto ricordare almeno chi si adopera a favore dei carcerati, uomini e donne che non si sentono più membri della società umana e che invece, grazie ai volontari, capiscono di potervi rientrare. Uno di loro ha detto “che i volontari sono un filo colorato che li tiene legati al mondo, ai loro cari, alla speranza di un futuro diverso” (dalla rivista della “Caritas”). Ancora altri modi esistono per essere solidali con le genti del Sud del mondo. Uno di questi è rappresentato dal “commercio equo e solidale”, che paga il giusto prezzo alle cooperative che producono le materie prime che poi vengono lavorate e vendute in Italia; mitigando così il dominio dei mercati internazionali che pagano a prezzi irrisori il frutto delle fatiche dei produttori. E a ben vedere ogni progetto della nostra Rete non è forse animato dalla sottintesa speranza di compiere, per molto o poco che sia, azione di giustizia verso chi è stato ed è depredato dall’Occidente (ora anche dalla Cina), con l’intento di “restituire” un poco del maltolto? Teniamo presente che i bambini “rifugiati” nel mondo assommano a oltre 30 milioni. Sono dati dell’UNHCR (l’Unione ONU per i rifugiati) e quindi attendibili. Il triste fatto deve farci riflettere e lo faremo. Della speranza si parla molto nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Persino nel Corano si dice più volte di sperare nel perdono di Allah. Presumo che ogni religione includa il concetto della speranza. Tutti i giorni, può dirsi ora dopo ora, pervengono da ogni angolo del pianeta notizie inquietanti, tali da farci temere il peggio. Possiamo però opporgli la nostra speranza in un futuro migliore; spetta a noi – se ne saremo degni – e a tutti gli uomini amanti della pace e della giustizia per correre senza indugi questa via. Vi lascio con questo augurio nella certezza che sia condiviso da voi tutti.

Mauro Gentilini

Rete di Roma

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