Circolare nazionale Marzo 2022
Rete Radiè Resch, Circolare nazionale del marzo 2022
A cura della Rete di Pisa-Viareggio
Quando abbiamo iniziato questa circolare, l’attenzione dei nostri media era tutta concentrata sulla elezione del presidente della repubblica. Cominciavano a venire fuori i primi nomi, e Salvini, nel presentare una possibile candidata, aveva detto che era espressione della destra, una destra moderata, liberale e «identitaria». Emergeva una autodefinizione della nostra destra politica: “moderata”, cosa su cui qualche dubbio è lecito nutrire, “liberale”, certamente in senso economico ma molto poco in senso culturale e politico, e infine “identitaria”. E qui si poneva il problema di cosa questo termine davvero significasse. Considerato chi lo aveva usato, ci è venuto subito da pensare agli immigrati, a quei disperati che tentano di raggiungere le nostre coste e che Salvini, quando era ministro degli interni, aveva cercato in tutti i modi di respingere e lasciare in mare. D’altra parte, erano quelli i giorni in cui era molto presente sui giornali la crisi dei profughi ai confini fra Polonia e Bielorussia. Si parlava della costruzione di un muro, mentre migliaia di persone, intere famiglie, erano bloccate al confine, abbandonate a se stesse, con temperature polari, senza nessuna assistenza né prospettiva.
Tutto questo, anche lì, in nome dell’identità, la nostra identità europea e cristiana minacciata da masse di non europei e musulmani. Qualcuno aveva tirato fuori anche la cosiddetta “teoria della sostituzione”. Sostituzione, voluta naturalmente dai poteri forti, Soros in testa, che avrebbe come obiettivo un cambiamento etnico radicale della popolazione europea.
Mentre scriviamo è in pieno svolgimento un’altra crisi, la crisi Ucraina. Una crisi estremamente pericolosa, con possibili derive verso guerre più ampie, se non globali e anche nucleari. Le motivazioni di questa crisi sono tante, e non possiamo trattarle qui, ma anche in questo caso ricompare il tema dell’identità. Vediamo, scrive Politi sul Corriere della sera, “le immagini fino a ieri inimmaginabili di «sovranisti» polacchi e ungheresi che accolgono generosamente i profughi, perché europei come loro, e a loro accomunati dalla minaccia russa.” Quelle frontiere davanti alle quali fino a poco fa si accalcavano migliaia di disperati, respinti senza alcuna pietà, ora si aprono. È l’identità che fa la differenza. E lo stanno sperimentando in questi giorni le migliaia di studenti asiatici e africani, iscritti alle università ucraine, che si vedono respinti alle frontiere, a quella polacca in particolare, quando cercano di tornare a casa per fuggire dalla guerra. “Gli ucraini passavano con i loro cani e gatti. Anche loro sono trattati meglio degli studenti indiani”, Dice a un giornalista Muhammad, uno studente indiano che non riesce a lasciare il paese. Ma qualcosa di simile accade anche in Israele, pronta ad accogliere i profughi provenienti dall’Ucraina, purché ebrei. Gli altri “vengono espulsi o obbligati a versare costosi depositi per garantire che alla fine se ne andranno.”1
Ma cosa è l’identità? È intesa troppo spesso come qualcosa che divide, che distingue/separa, «noi» da un lato e «loro» dall’altro. È proprio questa identità, vista come qualcosa di statico, definito una volta per tutte, che ci permette di respingere chi riteniamo «altro» da noi, portatore di una identità diversa, dalla quale non vogliamo essere inquinati. È anche qualcosa per cui crediamo che valga la pena morire, ma anche uccidere! E, curiosamente, di questo sembrano particolarmente convinti proprio coloro per cui la vita è sacra e inviolabile, soprattutto quando si parla di aborto e di eutanasia.
Che l’identità possa essere all’origine di violenze lo abbiamo visto negli ultimi decenni in tanti posti, Kosovo, Bosnia, Ruanda, Timor, Israele-Palestina, Sudan, …, e ora anche in Ucraina. Noi che seguiamo con interesse e solidarietà le vicende della Palestina lo abbiamo visto recentemente ad esempio nei tentativi di ebraicizzare Gerusalemme con l’espulsione delle famiglie palestinesi, e lo vediamo quotidianamente nella politica di apartheid perseguita sistematicamente dal governo israeliano.
Il rapporto fra identità e violenza è proprio il tema di un bel libro del premio Nobel Amartya Sen, economista e filosofo. Indiano, Sen non può non partire dalla sua memoria di bambino, ai tempi della decolonizzazione dell’India, ricordando la “velocità con cui gli esseri umani di gennaio si trasformarono negli implacabili indù e negli spietati musulmani di luglio”, e le violenze sofferenze che portarono alla formazione di due stati, uno indù e uno musulmano. Dobbiamo sempre ricordare, ci dice Sen che “siamo diversamente differenti. La speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede in gran parte in una comprensione più chiara delle pluralità dell’identità umana, e nel riconoscimento che tali pluralità sono trasversali e rappresentano un antidoto a una separazione netta lungo una linea divisoria fortificata e impenetrabile.” Dovremmo riuscire a capire che l’identità è in realtà qualcosa di molteplice e soprattutto dinamico/fluido. Non siamo quello che siamo, ma quello che “siamo essendo”.
Viene da pensare a un filosofo particolarmente amato da un caro amico della Rete, a cui molto dobbiamo, Arturo Paoli. Si tratta di Emmanuel Lévinas: “Il Messia è il giusto che soffre, che ha preso su di sé la sofferenza degli altri […]. E, concretamente, questo significa che ognuno deve agire come se fosse il Messia.” Se vogliamo realizzare un mondo nuovo, una società più giusta, quella che la tradizione ebraica definisce come «messianica», dobbiamo accogliere l’altro/altra e identificarci con lui/lei. È esattamente l’opposto della difesa dell’identità. È richiesto un cambiamento radicale. Questo ha diverse conseguenze. Ne vogliamo qui considerare due, apparentemente molto diverse. Ma lo sono davvero?
Noi, gli «autoctoni» ci sentiamo nel diritto di «respingere» chi pensiamo non lo sia, o, magari invece, siamo disponibili ad «accogliere», ma comunque siamo sempre noi che ci arroghiamo il diritto di decidere se accogliere o respingere. Ma che vuol dire essere «autoctono», e chi si può legittimamente considerare tale? In realtà siamo tutti migranti in una terra che non è «nostra», che non possiamo possedere. Semmai, siano noi, tutti, a essere «suoi», della terra. E questo ci riporta al nostro rapporto con la terra, il «Creato», che stiamo distruggendo.
Il concetto di «autoctonia» è strettamente legato a quello di «patria». Per i sacri confini della «patria» è bello morire, e naturalmente si può uccidere. E per difenderli si può anche respingere il migrante, fino a permettere che muoia, di freddo e fame in un campo o annegato in mare. Ma per difendere i confini bisogna anche armarsi. Non è un caso che Minniti che ha fortemente contribuito a definire la politica dei respingimenti (a lui si deve l’accordo con il premier della Libia Fayez al-Sarraj che l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha giudicato “disumano”), e che ha contribuito alla persecuzione giudiziaria di Lucano, ora guidi Med-Or, la nuova fondazione di Leonardo, la ex Finmeccanica, partecipata dallo Stato, che opera nei settori di difesa, aerospazio, sicurezza (cyber e non).
Più volte come Rete abbiamo condannato le politiche riguardanti le spese per gli armamenti (+2,6% nel 2020, anno della piena pandemia, arrivate a 1981 miliardi di dollari e in continua crescita. Fonte SIPRI), in un mondo in cui le guerre non si sono MAI fermate. Nel 2021 erano 30 effettive + 15 situazioni di crisi, inclusa l’Ucraina, dove una delle guerre più mortifere tra quelle cosiddette ‘a bassa intensità’ si è protratta dal 2014, mentre i Salvini e i Berlusconi di turno lodavano “il grande statista” Putin. Particolare e ‘dimenticata’ recrudescenza hanno poi avuto, recentemente, i conflitti in Etiopia e nel Sahara Occidentale (Fonte Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, 2021).
Ci preme qui sottolineare: lo stato permanente di guerra nel mondo; il fatto che le guerre non nascono a caso, come funghi, ma che ci sono sempre cause complesse che le determinano e attori diversi che le originano; il rapporto tra armi e affari, e il nesso tra sistema economico ed escalation militare; la totale deregulation delle vendite di armi; la quotazione in borsa delle aziende produttrici di armi, sia private che pubbliche (sono ben 195 le aziende italiane produttrici di armi quotate in borsa), per cui per sostenere il titolo si va a caccia di mercati e c’è una continua accelerazione degli investimenti2; il fatto che il nostro paese sia, a livello mondiale, all’11° posto per le spese militari, passate nel 2021 da 64 a 70 milioni di euro al giorno, e sia presente, con le sue forze armate, in 50 teatri di guerra.
Invitando tutte e tutti a riascoltare la lezione magistrale di Gino Strada “Verso un mondo senza guerre”, alla festa Scienza filosofia del 15/06/20183, intervento di un’attualità stringente, ricordiamo qui alcuni temi su cui ci sembra importante continuare a lavorare e riflettere:
- La costruzione di un movimento internazionale per l’abolizione delle guerre come unica strada realistica per evitare l’autodistruzione del mondo.
- La realizzazione di un percorso di disarmo, graduale ma progressivo, a livello di ONU, tema che purtroppo l’Assemblea ONU non ha ancora mai affrontato.
- La diffusione di una cultura della pace, che ci aiuti, da un lato, a comprendere le cause delle guerre, e, dall’altro, a individuare percorsi nonviolenti per prevenirle e, una volta iniziate, per farle terminare.
- La promozione di iniziative per portare le aziende di armi sotto il controllo pubblico, in modo che la loro produzione e commercializzazione dipenda dalle esigenze di sicurezza del paese piuttosto che dalle forze del mercato e della finanza.
Vogliamo ricordare infine, in chiusura, l’importanza della piena applicazione della Legge 185/90 sull’export di armi, attraverso un severo controllo del Parlamento, in attuazione dell’Art 11 della Costituzione. Va ricordato che lo spirito della legge è quello di promuovere una politica estera basata sul rispetto delle norme internazionali, con l’obiettivo anche di promuovere la costituzione di una agenzia europea per il controllo delle esportazioni di armi. Pertanto, non può essere considerata una legge sull’“industria militare”: deve controllare, non FAVORIRE l’export di armi! La legge contiene poi anche programmi relativi alla riconversione al civile, purtroppo mai realizzati in trenta anni.
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1 Zehava Galon, “Does ‘never again’ only refer to Jews?”, Haaretz, 7/3/2022.
2 Raoul Caruso, relazione su “Spese militari, industria di armi e conflitti al servizio del sistema economico”, seminario dell’Accademia delle Alpi Apuane, 4/03/2022.
3 https://www.arcoiris.tv/scheda/it/16880/addC