Rete Radiè Resch, Circolare nazionale del marzo 2022

A cura della Rete di Pisa-Viareggio

Quando abbiamo iniziato questa circolare, l’attenzione dei nostri media era tutta concentrata sulla elezione del presidente della repubblica. Cominciavano a venire fuori i primi nomi, e Salvini, nel presentare una possibile candidata, aveva detto che era espressione della destra, una destra moderata, liberale e «identitaria». Emergeva una autodefinizione della nostra destra politica: “moderata”, cosa su cui qualche dubbio è lecito nutrire, “liberale”, certamente in senso economico ma molto poco in senso culturale e politico, e infine “identitaria”. E qui si poneva il problema di cosa questo termine davvero significasse. Considerato chi lo aveva usato, ci è venuto subito da pensare agli immigrati, a quei disperati che tentano di raggiungere le nostre coste e che Salvini, quando era ministro degli interni, aveva cercato in tutti i modi di respingere e lasciare in mare. D’altra parte, erano quelli i giorni in cui era molto presente sui giornali la crisi dei profughi ai confini fra Polonia e Bielorussia. Si parlava della costruzione di un muro, mentre migliaia di persone, intere famiglie, erano bloccate al confine, abbandonate a se stesse, con temperature polari, senza nessuna assistenza né prospettiva.

Tutto questo, anche lì, in nome dell’identità, la nostra identità europea e cristiana minacciata da masse di non europei e musulmani. Qualcuno aveva tirato fuori anche la cosiddetta “teoria della sostituzione”. Sostituzione, voluta naturalmente dai poteri forti, Soros in testa, che avrebbe come obiettivo un cambiamento etnico radicale della popolazione europea.

Mentre scriviamo è in pieno svolgimento un’altra crisi, la crisi Ucraina. Una crisi estremamente pericolosa, con possibili derive verso guerre più ampie, se non globali e anche nucleari. Le motivazioni di questa crisi sono tante, e non possiamo trattarle qui, ma anche in questo caso ricompare il tema dell’identità. Vediamo, scrive Politi sul Corriere della sera, “le immagini fino a ieri inimmaginabili di «sovranisti» polacchi e ungheresi che accolgono generosamente i profughi, perché europei come loro, e a loro accomunati dalla minaccia russa.” Quelle frontiere davanti alle quali fino a poco fa si accalcavano migliaia di disperati, respinti senza alcuna pietà, ora si aprono. È l’identità che fa la differenza. E lo stanno sperimentando in questi giorni le migliaia di studenti asiatici e africani, iscritti alle università ucraine, che si vedono respinti alle frontiere, a quella polacca in particolare, quando cercano di tornare a casa per fuggire dalla guerra. “Gli ucraini passavano con i loro cani e gatti. Anche loro sono trattati meglio degli studenti indiani”, Dice a un giornalista Muhammad, uno studente indiano che non riesce a lasciare il paese. Ma qualcosa di simile accade anche in Israele, pronta ad accogliere i profughi provenienti dall’Ucraina, purché ebrei. Gli altri “vengono espulsi o obbligati a versare costosi depositi per garantire che alla fine se ne andranno.”1

Ma cosa è l’identità? È intesa troppo spesso come qualcosa che divide, che distingue/separa, «noi» da un lato e «loro» dall’altro. È proprio questa identità, vista come qualcosa di statico, definito una volta per tutte, che ci permette di respingere chi riteniamo «altro» da noi, portatore di una identità diversa, dalla quale non vogliamo essere inquinati. È anche qualcosa per cui crediamo che valga la pena morire, ma anche uccidere! E, curiosamente, di questo sembrano particolarmente convinti proprio coloro per cui la vita è sacra e inviolabile, soprattutto quando si parla di aborto e di eutanasia.

Che l’identità possa essere all’origine di violenze lo abbiamo visto negli ultimi decenni in tanti posti, Kosovo, Bosnia, Ruanda, Timor, Israele-Palestina, Sudan, …, e ora anche in Ucraina. Noi che seguiamo con interesse e solidarietà le vicende della Palestina lo abbiamo visto recentemente ad esempio nei tentativi di ebraicizzare Gerusalemme con l’espulsione delle famiglie palestinesi, e lo vediamo quotidianamente nella politica di apartheid perseguita sistematicamente dal governo israeliano.

Il rapporto fra identità e violenza è proprio il tema di un bel libro del premio Nobel Amartya Sen, economista e filosofo. Indiano, Sen non può non partire dalla sua memoria di bambino, ai tempi della decolonizzazione dell’India, ricordando la “velocità con cui gli esseri umani di gennaio si trasformarono negli implacabili indù e negli spietati musulmani di luglio”, e le violenze sofferenze che portarono alla formazione di due stati, uno indù e uno musulmano. Dobbiamo sempre ricordare, ci dice Sen che “siamo diversamente differenti. La speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede in gran parte in una comprensione più chiara delle pluralità dell’identità umana, e nel riconoscimento che tali pluralità sono trasversali e rappresentano un antidoto a una separazione netta lungo una linea divisoria fortificata e impenetrabile.” Dovremmo riuscire a capire che l’identità è in realtà qualcosa di molteplice e soprattutto dinamico/fluido. Non siamo quello che siamo, ma quello che “siamo essendo”.

Viene da pensare a un filosofo particolarmente amato da un caro amico della Rete, a cui molto dobbiamo, Arturo Paoli. Si tratta di Emmanuel Lévinas: “Il Messia è il giusto che soffre, che ha preso su di sé la sofferenza degli altri […]. E, concretamente, questo significa che ognuno deve agire come se fosse il Messia.” Se vogliamo realizzare un mondo nuovo, una società più giusta, quella che la tradizione ebraica definisce come «messianica», dobbiamo accogliere l’altro/altra e identificarci con lui/lei. È esattamente l’opposto della difesa dell’identità. È richiesto un cambiamento radicale. Questo ha diverse conseguenze. Ne vogliamo qui considerare due, apparentemente molto diverse. Ma lo sono davvero?

Noi, gli «autoctoni» ci sentiamo nel diritto di «respingere» chi pensiamo non lo sia, o, magari invece, siamo disponibili ad «accogliere», ma comunque siamo sempre noi che ci arroghiamo il diritto di decidere se accogliere o respingere. Ma che vuol dire essere «autoctono», e chi si può legittimamente considerare tale? In realtà siamo tutti migranti in una terra che non è «nostra», che non possiamo possedere. Semmai, siano noi, tutti, a essere «suoi», della terra. E questo ci riporta al nostro rapporto con la terra, il «Creato», che stiamo distruggendo.

Il concetto di «autoctonia» è strettamente legato a quello di «patria». Per i sacri confini della «patria» è bello morire, e naturalmente si può uccidere. E per difenderli si può anche respingere il migrante, fino a permettere che muoia, di freddo e fame in un campo o annegato in mare. Ma per difendere i confini bisogna anche armarsi. Non è un caso che Minniti che ha fortemente contribuito a definire la politica dei respingimenti (a lui si deve l’accordo con il premier della Libia Fayez al-Sarraj che l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha giudicato “disumano”), e che ha contribuito alla persecuzione giudiziaria di Lucano, ora guidi Med-Or, la nuova fondazione di Leonardo, la ex Finmeccanica, partecipata dallo Stato, che opera nei settori di difesa, aerospazio, sicurezza (cyber e non).

Più volte come Rete abbiamo condannato le politiche riguardanti le spese per gli armamenti (+2,6% nel 2020, anno della piena pandemia, arrivate a 1981 miliardi di dollari e in continua crescita. Fonte SIPRI), in un mondo in cui le guerre non si sono MAI fermate. Nel 2021 erano 30 effettive + 15 situazioni di crisi, inclusa l’Ucraina, dove una delle guerre più mortifere tra quelle cosiddette ‘a bassa intensità’ si è protratta dal 2014, mentre i Salvini e i Berlusconi di turno lodavano “il grande statista” Putin. Particolare e ‘dimenticata’ recrudescenza hanno poi avuto, recentemente, i conflitti in Etiopia e nel Sahara Occidentale (Fonte Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, 2021).

Ci preme qui sottolineare: lo stato permanente di guerra nel mondo; il fatto che le guerre non nascono a caso, come funghi, ma che ci sono sempre cause complesse che le determinano e attori diversi che le originano; il rapporto tra armi e affari, e il nesso tra sistema economico ed escalation militare; la totale deregulation delle vendite di armi; la quotazione in borsa delle aziende produttrici di armi, sia private che pubbliche (sono ben 195 le aziende italiane produttrici di armi quotate in borsa), per cui per sostenere il titolo si va a caccia di mercati e c’è una continua accelerazione degli investimenti2; il fatto che il nostro paese sia, a livello mondiale, all’11° posto per le spese militari, passate nel 2021 da 64 a 70 milioni di euro al giorno, e sia presente, con le sue forze armate, in 50 teatri di guerra.

Invitando tutte e tutti a riascoltare la lezione magistrale di Gino Strada “Verso un mondo senza guerre”, alla festa Scienza filosofia del 15/06/20183, intervento di un’attualità stringente, ricordiamo qui alcuni temi su cui ci sembra importante continuare a lavorare e riflettere:

  • La costruzione di un movimento internazionale per l’abolizione delle guerre come unica strada realistica per evitare l’autodistruzione del mondo.
  • La realizzazione di un percorso di disarmo, graduale ma progressivo, a livello di ONU, tema che purtroppo l’Assemblea ONU non ha ancora mai affrontato.
  • La diffusione di una cultura della pace, che ci aiuti, da un lato, a comprendere le cause delle guerre, e, dall’altro, a individuare percorsi nonviolenti per prevenirle e, una volta iniziate, per farle terminare.
  • La promozione di iniziative per portare le aziende di armi sotto il controllo pubblico, in modo che la loro produzione e commercializzazione dipenda dalle esigenze di sicurezza del paese piuttosto che dalle forze del mercato e della finanza.

Vogliamo ricordare infine, in chiusura, l’importanza della piena applicazione della Legge 185/90 sull’export di armi, attraverso un severo controllo del Parlamento, in attuazione dell’Art 11 della Costituzione. Va ricordato che lo spirito della legge è quello di promuovere una politica estera basata sul rispetto delle norme internazionali, con l’obiettivo anche di promuovere la costituzione di una agenzia europea per il controllo delle esportazioni di armi. Pertanto, non può essere considerata una legge sull’“industria militare”: deve controllare, non FAVORIRE l’export di armi! La legge contiene poi anche programmi relativi alla riconversione al civile, purtroppo mai realizzati in trenta anni.

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1 Zehava Galon, “Does ‘never again’ only refer to Jews?”, Haaretz, 7/3/2022.

2 Raoul Caruso, relazione su “Spese militari, industria di armi e conflitti al servizio del sistema economico”, seminario dell’Accademia delle Alpi Apuane, 4/03/2022.

3 https://www.arcoiris.tv/scheda/it/16880/addC

Carissima, carissimo,
l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo e del governo di Putin è totalmente inaccettabile. Va fermata subito, le truppe russe devono rientrare immediatamente nei propri confini. Su questo non ci possono essere ambiguità e chi pensa ancora che “il nemico del mio nemico è mio amico”, arrampicandosi sugli specchi per giustificare l’ingiustificabile, continua a capire poco o nulla della storia e del presente.
Credo che lo sgomento e la sofferenza stia prendendoci ad ogni ora di più. Sulle cose che ciascuno già sente non saprei nemmeno assumermi un peso così terribile. In questa comunicazione voglio solo ricordare come chi ha visto insieme già da anni l’emergenza nucleare, climatica e della ingiustizia abbia colto il segno di una situazione in cui il tempo viene a mancare. Siamo molto oltre il limite e facciamo finta che niente debba cambiare. Occorre molto coraggio e anche la forza di non trovare solo in un nemico certamente spregevole le ragioni del precipitare della situazione. Purtroppo anche questa volta c’è di mezzo il potere delle armi e il dominio del denaro sotto molteplici forme e da più parti: nessuno è innocente, a partire dall’accaparramento delle risorse energetiche. Perché tutta questa frenesia ad accumulare, possedere e consumare fa parte del mondo che stiamo rendendo inabitabile?
Quello che sta succedendo non lascia le cose come prima e se vogliamo sconfiggere la cultura della guerra, dobbiamo anche essere in grado di realizzare quelle modifiche capaci di costruire davvero un’Europa sociale, un’Europa in cui non solo il problema dei profughi, ma quello più generale dell’integrazione diventi uno dei fondamenti per politiche diverse da quelle realizzate finora.
Credo che i movimenti e i popoli debbano opporsi alla guerra per andare più a fondo con la propria agenda: il radicamento territoriale per esercitare l’autonomia e l’autogoverno, costruendo “mondi altri”, nuovi e diversi da quelli capitalisti, patriarcali e coloniali. Nelle guerre, i popoli perdono sempre e vincono le grandi imprese capitaliste che si preparano a ridisegnare i territori conquistati a proprio vantaggio, sfruttando i beni comuni per mercificarli. Per questo è necessario boicottare le guerre, perché non ci sono guerre giuste, dal momento che quelle realmente esistenti sono guerre di espropriazione attraverso il genocidio.
Purtroppo oggi la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi.
Attualmente sono 22 le guerre regionali, penso alla tragedia dei bambini in Yemen, ne muoiono a centinaia di fame, alla tragedia che si sta consumando in Afghanistan, alla Siria, al Sudan… che si combattono nell’indifferenza generale perchè sono lontane, riguardano “altri”. Assistiamo ad una continua  spoliazione dei popoli originari, neri, contadini e meticci per accelerare e affermare il nostro dominio, lasciando miliardi di uomini, donne, vecchi e bambini nell’indigenza più assoluta. Oggi il compito dei popoli, in questo periodo di guerre atte a confermare il potere, è quello di preservare la vita e prendersi cura della madre terra e di evitare i genocidi. 
Come funziona la macchina dei media e delle opinioni al tempo della guerra all’Ucraina? Segue lo schema già collaudato con la pandemia, con i grandi temi storici e con le gravi crisi: in primo luogo diventa monomaniacale, ossessivo, pervasivo, passa da tema principale a tema unico dei telegiornali, degli approfondimenti. Non accadde neanche durante la guerra mondiale che i giornali fossero ridotti al solo tema principale di quei giorni.
La fabbrica del consenso fornisce poi la ripetizione all’infinito dell’Identico: fiumi di servizi e di reportage che si discostano poco o nulla, che riferiscono ogni giorno la stessa versione ufficiale dei fatti e commentano le stesse immagini restando nello stesso ambito, con un sottofondo da propaganda di guerra.
La guerra deve fermarsi immediatamente. Occorre aprire una discussione in cui la diplomazia affronti i temi che hanno condotto a questa situazione. Considerare la guerra uno strumento normale di regolazione dei conflitti e dei rapporti tra Stati e popolazioni è ciò che l’Europa deve evitare. Dobbiamo cogliere quello che c’è di positivo in mobilitazioni, per consolidare i valori democratici attorno all’Europa affinché propositi diversi convergano verso un fine comune, di sostegno e solidarietà. Non possiamo non considerare i problemi non risolti: dal ruolo della Nato, alla questione delle minoranze e delle popolazioni non integrate, agli interessi delle singole nazioni.
Ma non voglio prolungare questa prospettiva bellicosa, veramente insana al punto di essere suicida. Ma questo scontro di poteri rivela l’incoscienza degli attori sullo schermo sui rischi reali che gravano sul pianeta che, anche senza armi nucleari, potrebbero mettere in pericolo la vita umana. Si dice che tutte le armi di distruzione di massa si siano rivelate del tutto inutili e ridicole di fronte a un virus minuscolo come il Covid-19.
Questa guerra rivela che i responsabili del destino umano non hanno imparato la lezione di base del Covid-19. Questo, non ha rispettato le sovranità e i limiti nazionali. Ha colpito l’intero pianeta. L’epidemia richiede che la governance globale sia stabilita di fronte a un problema globale. La sfida che va oltre i confini nazionali, è quella di costruire la Casa Comune.
Non si sono resi conto che il grande problema è il riscaldamento globale. Siamo già al suo interno, perché sono visibili gli eventi fatali di inondazioni di intere regioni, tifoni e scarsità di acqua dolce. Abbiamo solo 9 anni per evitare una situazione di non ritorno. Se entro il 2030 raggiungiamo 1,5 gradi Celsius di calore, non saremo in grado di controllarlo e andare nella direzione di un collasso del sistema Terra e del sistema vitale.
Adesso siamo di fronte alla tragedia dei profughi, credo che non solo l’Italia ma tutta l’Europa dovrà prepararsi, anche perché i primi profughi arriveranno proprio nei paesi che li rifiutano. Penso che sarà l’occasione per rivedere il famoso regolamento di Dublino.
La cosa ancora più vergognosa è quello a cui assistiamo oggi… il razzismo nell’accoglienza. La Polonia, che fino a ieri (e oggi ancora!!!) usava cani, idranti, droni, per respingere dietro il filo spinato poche migliaia di disperati ammassati al confine, anche loro in fuga da guerre sanguinose e povertà, oggi spalanca le frontiere a milioni di persone, senza alcun problema; ovviamente guardando bene al tono della loro pelle. Quelli “troppo scuri” da anni emigranti lavoratori in Ucraina non vengono fatti passare. Tutto questo è uno schiaffo a tutto il genere umano. E pare tutto così “bello, buono”… ma quant’è brava, l’Europa, ad accogliere…
“Le guerre sono fatte da persone che si uccidono senza conoscersi… per gli interessi di persone che si conoscono ma che non si uccidono” scriveva Pablo Neruda. È ciò a cui assistiamo anche oggi in Ucraina, con l’ennesimo carico di morti, feriti, terrore e distruzione e le centinaia di migliaia di persone che fuggono disperatamente dal loro Paese.
Urge costruire la cultura del dialogo, ricostruire una nuova Comunità mondiale che poggi sulla ricchezza delle differenze e sull’empatia.
                                   

Carissima, carissimo,
questa pandemia ci sta insegnando una cosa importante, che nessuno si salva da solo, che la nostra vita (anche se non lo vogliamo) è connessa con il resto del mondo e che ne possiamo uscire solo tutti insieme. Lo abbiamo annunciato con uno slogan dai balconi nella primavera di 2 anni fa con quel Ce la faremo”.
La lezione dei vaccini sta nella vittoria del “noi” sull’io”, sul farsi carico tutti insieme di questo tempo e di prodigarsi per dare ciascuno il proprio contributo per uscire dalla pandemia. Facile a dirsi e difficile a farsi. Ragionare in termini di “noi” è scomodo, ci costringe ad uscire dalle nostre sicurezze ed ad affrontare nuove esperienze. Per indole a nessuno piace cambiare se non si è costretti, troveremo mille motivi per desistere.
Questa pandemia ci sta insegnando che coltivare solo il proprio orticello non è la soluzione. La paura non può avere la meglio sul futuro. Ce lo ricorda Papa Francesco parlando dei vaccini come di “un atto di amore disinteressato, come di un modo semplice ma profondo di promuovere il bene comune e di prenderci cura gli uni degli altri”, bisogna intervenire a livello globale, far sì che anche ai paesi più poveri sia consentito l’accesso ai vaccini.
Con la pandemia le disuguaglianze sono aumentate.
Si è indebolire il diritto alla scuola, alla mobilità, alla formazione lavorativa, allo sport, alla fruizione della cultura, della natura, dell’intrattenimento, al gioco, alla convivialità e alla condivisione. Ciò ha significato allargare la forbice fra coloro che vedono garantito tutto questo dal normale stato di diritto e fra i pochi fortunati che riescono ad accedervi, anche in una situazione di emergenza, grazie a risorse e spazi privati.
Quello che abbiamo appena descritto è il risultato più nefasto della pandemia, ovvero un’accelerazione spaventosa delle diseguaglianze a livello mondiale.
A certificare questo vero e proprio solco tracciato tra ricchi e poveri, l’ultima in ordine di tempo, è stata l’Ong Oxfam, tramite il rapporto “La pandemia della diseguaglianza”, pubblicato a metà gennaio.
Lo studio rileva che nei primi 2 anni di pandemia i 10 uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato i loro patrimoni, passati da 700 a 1.500 miliardi di dollari, al ritmo di 15.000 dollari al secondo, nello stesso periodo si stima che 163 milioni di persone siano cadute in povertà a causa della pandemia.
Sempre per rendere l’idea vale la pena riportare qualche altro dato raccolto dalla Ong. “In questo momento le 10 persone più ricche del mondo detengono una ricchezza sei volte superiore al patrimonio del 40% più povero della popolazione mondiale, composto da 3,1 miliardi di persone” ha spiegato Gabriela Bucher, direttrice di Oxfam International. E ancora, il surplus patrimoniale del solo Jeff Bezos, fondatore di Amazon, nei primi 21 mesi della pandemia (+81,5 miliardi di dollari) equivale al costo completo stimato della vaccinazione per l’intera popolazione mondiale.
La pandemia ha infatti non solo ha contribuito ad allargare la distanza tra una minoranza di super ricchi e una fetta importante di popolazione mondiale che vive nell’indigenza ma ha inoltre lanciato e fatto definitivamente affermare alcuni settori della new economy e affossato altri dell’economia tradizionale. Ad esempio, questa accelerazione spaventosa ha offerto grandi opportunità di mercato che sono state colte dall’informatica, dalla cyber sicurezza, dal mangiare quotidiano e dalle grandi piattaforme digitali dell’intrattenimento ma ha spazzato via migliaia di posti nel commercio tradizionale, nella ristorazione e nel turismo. Molti lavoratori della classe media che conducevano tenori di vita più che dignitosi nella migliore delle ipotesi (nei Paesi che li prevedono) ora sopravvivono con sussidi e aiuti di ogni tipo.
I rapporti però ci dicono che la ricchezza non è sparita ma si è solo spostata concentrandosi sempre di più nelle mani di pochi. In un’ottica di una giusta redistribuzione c’è anche chi parla di un reddito unico universale per tutti coloro che restano senza lavoro. Una soluzione che non si può escludere ma sulla quale non può reggere la sostenibilità del sistema economico mondiale. Ancora più necessario sarebbe allargare le opportunità della tanto declamata transizione ecologica finanziando un piano mondiale di riconversione dei sistemi di produzione. Agricoltura, industria e servizi necessitano di nuove competenze che il mercato non offre e che potrebbero essere apprese da milioni di persone che chiedono di rientrare nel mercato del lavoro.
Per fare tutto questo, urge una rapida uscita dalla pandemia che mina anche il futuro dei più giovani. In questi due anni la dispersione scolastica ha raggiunto livelli record anche in molti Paesi occidentali dove sono aumentati i ragazzi che non studiano e non lavorano. Due anni di disagi e distanziamento hanno creato un barato educativo e didattico che avrà conseguenze nefaste per molti anni a venire e che si riverbera soprattutto sui figli delle famiglie meno abbienti, che non hanno i mezzi per colmare privatamente queste lacune formative.
E’ entrata con forza, senza chiedere il permesso una parola comune: paura. La paura, spesso, genera angoscia e paralizza non solo il corpo, ma anche la mente. Solo chi riesce ad affrontare le proprie paure allarga i confini dell’immaginazione e dell’azione. Affrontarla significa addentrarsi nell’ambito della ragione, significa osare mettere in discussione ciò in cui crediamo, ciò che siamo e che ci circonda, non allo scopo di confermare i nostri timori, ma per aprirci alla scoperta delle nostre origini e dei nuovi mondi a cui siamo esposti ogni giorno.
Dal Sud del mondo ci giungono continue grida di sofferenza, richieste di giustizia e di aiuto. I profughi aumentano ogni giorno per le cause che noi ben conosciamo -guerre, carestie, oppressioni civili e religiose, e per il cambiamento climatico- ma i governanti non hanno la capacità di vedere, pensare, agire per affrontare tutto ciò, hanno solo il desiderio di parlare all’egoismo e alla paura che abbiamo dentro, quindi urge un’inversione di tendenza, urge impegnarsi quotidianamente per creare una nuova coscienza planetaria che contempli una nuova azione politica e di solidarietà.                                                                                            

Febbraio 2022

La circolare di questo mese vuole presentare le ragioni della scelta del Coordinamento di accogliere l’invito lanciato dall’associazione Linea d’ombra ad aderire all’ICE “STOP BORDER VIOLENCE” (vedi e-mail inviata da Lucia Capriglione il 6 febbraio)

Di proposito non la chiameremo campagna in quanto si tratta, ben oltre la richiesta di adesione, di dare il nostro contributo a un’azione dal basso volta a produrre un cambiamento delle politiche migratorie della UE. Chiediamo un cambiamento che arrivi a mettere a nudo, ancora una volta, l’ingiustizia che segna i rapporti tra il mondo occidentale e tutto ciò che sta ai suoi margini, perché finalmente si trovino nuove e diverse modalità di co-abitare questa nostra terra. Come dice la filosofa Donatella Di Cesare “coabitare la terra impone l’obbligo permanente e irreversibile di coesistere con tutti coloro che, più o meno estranei, più o meno eterogenei, sulla terra hanno uguali diritti”(Cfr. D. Di Cesare, Stranieri Residenti).

L’iniziativa è resa possibile grazie a uno strumento di partecipazione diretta alla politica della UE che prende appunto il nome di ICE: Iniziativa Cittadini Europei. Attraverso questo strumento i cittadini possono chiedere alla Commissione Europea di proporre nuovi atti legislativi. Per ottenere che un’ICE venga accolta si deve raccogliere almeno un milione di firme distribuite su sette Paesi europei; dopo di che la Commissione decide quali azioni intraprendere.

L’ICE “STOP BORDER VIOLENCE” chiede che abbiano termine le torture e i trattamenti degradanti perpetrati nei confronti dei migranti dalle polizie dei vari stati alle frontiere d’Europa. Questo in ottemperanza all’articolo 4 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che afferma: “Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

L’ iniziativa è nella prima fase: si sta tessendo una larga rete di realtà il cui scopo è assicurare la metà delle firme necessarie, cinquecentomila, già alla partenza. In realtà in un primo tempo gli organizzatori avevano pensato di consegnare l’ICE tra fine febbraio e inizio marzo; ma poi è sembrato più sicuro per la riuscita dell’iniziativa presentare l’istanza avendo già raccolto metà delle firme.

Riteniamo che sia molto utile darsi più tempo. L’iniziativa, infatti, diventa l’occasione per sensibilizzare e offrire spazio a un confronto serio e articolato sulle politiche migratorie della UE, con tutte quelle realtà che si riuscirà a coinvolgere. Sta qui forse l’aspetto più propriamente politico dell’impegno a cui ogni rete locale è invitata, nel territorio in cui si trova ad operare, al di là del successo a livello istituzionale, pure sperato e importante.

Come recita il manifesto di “STOP BORDER VIOLENCE” (questo è il link:

https://www.stopborderviolence.org/it/eci-sbv-ita/#manifesto) dobbiamo davvero

Riprenderci l’Europa” di fronte alla “militarizzazione e alla esternalizzazione delle frontiere interne ed esterne; ai respingimenti brutali; alle violenze perpetrate nell’ambito degli Stati membri e nei Paesi terzi con cui l’Europa ha stretto accordi per impedire l’ingresso nel proprio territorio dei richiedenti asilo.” La spaventosa vicenda ai confini tra la Polonia e la Bielorussia ne è soltanto la più recente e violenta dimostrazione.

Per limitarci solo ad alcune note sulla politica migratoria dell’Italia, sappiamo la vergogna del Memorandum d’Intesa con la Libia il cui 5° anniversario è stato proprio il 2 febbraio 2022. Amnesty International scrive nel suo rapporto che le morti in mare nel 2021, di cui è stato possibile avere documentazione, sono state 1.553 e che le persone riportate in Libia sono state 32.425, un vero e proprio record (vedi articolo di “Domani” del 2/2/2022). E questo mentre la Corte Europea dei Diritti Umani, con una sentenza del 2012, aveva sancito che intercettare persone in mare e riportarle in Libia equivaleva a torturarle. Dunque, il Memorandum si è rivelato un trucco per aggirare il diritto internazionale. Lo stesso Ammiraglio Stefano Turchetto, capo della missione Irini (pace in greco) che opera nel quadro della difesa e della sicurezza della UE nel Mediterraneo, in un rapporto confidenziale di poco più di una settimana fa (fonte Associated Press) ha dovuto riconoscere che i guardiacoste libici continuano a macchiarsi di “uso eccessivo della forza” piuttosto che seguire “standard comportamentali adeguati…. in linea con i diritti umani”. Tra parentesi ricordiamo che l’Italia ha la facoltà di ritirare la firma dal Memorandum entro il 2 novembre prossimo, prima che si rinnovi automaticamente per altri tre anni.

Anche per quanto riguarda la frontiera orientale è risaputo che la polizia italiana ha compiuto gravi atti di violenza, compresi respingimenti di minori. Il settimanale on line Comune-info (Comune-info.net.) del 18 dicembre 2021, pubblica un’intervista a Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà, tra i fondatori del sistema di accoglienza Sprar (oggi Sai) e aderente all’ASGI (Associazione studi giuridici sull’immigrazione). Schiavone, nell’analizzare il sistema di accoglienza italiano, sottolinea che con una “decisione politica totalmente illegale” erano state date “istruzioni alla polizia di frontiera terrestre del Friuli Venezia Giulia di impedire, tutte le volte che ciò fosse possibile, ai cittadini stranieri che arrivavano dalla rotta balcanica di presentare domanda d’asilo in Italia e contestualmente respingerli in Slovenia. Non come richiedenti asilo, perché ciò non sarebbe stato possibile secondo la legge, ma come semplici “clandestini” che non avevano mai presentato la domanda di protezione internazionale”. Solo nel maggio 2020 la cosa è venuta alla luce.

Scriviamo questo per ribadire, ancora una volta, che la solidarietà per essere tale deve continuare ad assumersi la responsabilità di azioni che possano incidere politicamente contro le ingiustizie e in particolare le violazioni dei diritti umani.

Il Testo dell’Iniziativa, che si trova di seguito al Manifesto, invita a dare la massima diffusione all’ICE usando tutti i canali possibili e sottolineando che non basta condividere il sito su facebook, ma che è necessaria un’azione politica capillare, come dicevamo all’inizio. Dal punto di vista pratico le firme potranno essere raccolte sia on line che in cartaceo, ma riguardo alla raccolta attendiamo indicazioni più precise sui tempi e le modalità.

Per concludere ci sembra molto calzante quest’altro pensiero della filosofa Donatella Di Cesare che vorremmo diventasse l’augurio della buona riuscita di questa Iniziativa: “Occorre una politica che prenda le mosse dallo straniero, inteso come fondamento e criterio della comunità”.

Un caro saluto a tutti e tutte

Maria, Rete di Verona

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