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Il sistema di protezione dei rifugiati

Rovesciare la narrativa: le radici del sistema di protezione dei rifugiati sono coloniali e razziste

di Sana Mustafa (attivista femminista dei diritti umani e amministratore delegato di Asylum Access, una famiglia di organizzazioni che si batte per un sistema di risposta ai rifugiati più equo)

New York, 14 marzo 2023

In qualità di prima e unica donna direttrice di un’organizzazione internazionale per i diritti dei rifugiati con un’esperienza vissuta di fuga forzata dal proprio paese, sono dolorosamente consapevole che il colonialismo e la supremazia bianca sono centrali nella formazione e nel funzionamento del sistema globale di protezione dei rifugiati.

Dover dimostrare continuamente questa ovvietà è estenuante, ma so che fa parte della mia lotta per porre fine alla stigmatizzazione e all’oppressione sistematica delle persone sfollate con la forza operate delle stesse istituzioni che pretendono di aiutarci.

Sono stata costretta a lasciare il mio paese il 2 luglio 2013, quando mio padre – un importante attivista politico – è stato fatto sparire dal regime siriano per aver parlato a fianco di milioni di altre persone che chiedevano libertà, giustizia e stato di diritto.

All’epoca mi trovavo negli Stati Uniti, stavo frequentando un programma di scuola estiva nel Rhode Island ed ero seduta in una classe quando ho ricevuto un messaggio su Facebook da una delle mie sorelle: “L’hanno preso. Ce ne andiamo”, diceva. Mia madre e le mie sorelle sono fuggite immediatamente in Turchia. In quel momento ho perso mio padre, la mia casa e il mio Paese. Solo di recente ho avuto la possibilità di iniziare a digerire quello che è successo. Come molti altri rifugiati, ho dovuto innanzitutto darmi da fare per cercare di capire come sopravvivere. Ma nel momento in cui ho iniziato a esistere come donna queer, dalla pelle scura e rifugiata, ho anche capito che la mia lotta per l’inclusione e i diritti non finiva in Siria. Ho scoperto che, pur continuando a sostenere le persone che protestavano per i diritti fondamentali nel mio Paese, dovevo anche combattere le ingiustizie nel mio nuovo ambiente di vita.

Un ruolo obbligato

Ho iniziato a percepire come il colonialismo e la supremazia bianca condizionino quasi immediatamente l’esperienza di essere una persona rifugiata. Alcuni membri statunitensi della comunità, non rifugiati, hanno messo in dubbio che avessi davvero bisogno di protezione. Non corrispondevo all’immagine di indigenza e povertà dei rifugiati che avevano visto nel materiale di raccolta fondi delle organizzazioni umanitarie, e spesso mi dicevano che “parlavo un ottimo inglese”.

Mi sono anche resa conto che il sistema di protezione dei rifugiati negli Stati Uniti e nel resto del mondo lasciava poco spazio alle persone che avevano vissuto in prima persona l’esperienza della fuga dal proprio paese per difendere i propri diritti o per contribuire – per non parlare di guidare – le conversazioni politiche che riguardavano direttamente le nostre vite. Sono stata invitata a eventi per organizzazioni che raccolgono fondi a sostegno dei rifugiati, dove il mio ruolo era quello di dare un volto al problema e fare un appello emotivo per le donazioni. Ma quando si trattava di parlare di soluzioni o di ciò che si doveva fare, mi sentivo messa a tacere ed esclusa.

Invece, le conversazioni sui rifugiati e sulle migrazioni erano dominate da “esperti” occidentali che non hanno mai vissuto l’esperienza di rifugiati e che vivono a migliaia di chilometri di distanza dai luoghi in cui avvengono effettivamente la repressione politica, i conflitti e le violazioni dei diritti umani che allontanano le persone dalle loro case.

Questi “esperti” sono stati in grado di definire le nostre esperienze e di definire le politiche che riguardano le nostre vite, mentre le persone come me sono state escluse dalle stanze in cui si prendono le decisioni. Questo fatto non è involontario: è un prodotto di come è stato progettato il sistema di protezione globale per i rifugiati.

Le radici del sistema

L’anno scorso ho letto le note della conferenza delle Nazioni Unite convocata per redigere la Convenzione sui Rifugiati del 1951. L’incapacità dei Paesi di offrire un rifugio sicuro alle persone perseguitate e uccise dalla Germania nazista durante la Seconda Guerra Mondiale è stato il principale catalizzatore di questo sforzo. Ma leggendo gli appunti – nonostante tutto quello che ho vissuto – sono rimasta sbalordita nel vedere quanto disumanizzante e razzista fosse stata la discussione.

Secondo un osservatore contemporaneo della società civile: “[Si] poteva facilmente avere l’impressione che il rifugiato medio fosse un trafficante di valuta, un fallito, un pericoloso criminale, un agente nemico, una minaccia per il mercato del lavoro e una persona inadatta all’istruzione superiore”.

In altre parole, molti dei delegati che hanno creato l’architettura del sistema di protezione globale vedevano i rifugiati come minacce economiche e alla sicurezza – una percezione problematica che continua a dominare le narrazioni sugli sfollati.

E chi erano questi delegati? All’epoca gli Stati membri dell’ONU erano 60, contro i 193 di oggi. Molti Paesi in Africa, Asia, Caraibi e Pacifico erano ancora colonizzati. Secondo Ulrike Krause, ricercatrice e docente di migrazione forzata e studi sui rifugiati, i Paesi del Nord globale esercitarono una notevole influenza sulla stesura della Convenzione.

Il risultato fu la decisione di estendere la protezione dei rifugiati delle Nazioni Unite solo alle persone sfollate in Europa prima del 1951. I principali promotori della Convenzione sui rifugiati – tra cui Stati Uniti, Francia e Italia – non volevano che gli sfollati provenienti dall’India e dal Pakistan, recentemente divisi, dal Medio Oriente e da altre regioni raggiungessero i loro confini e chiedessero protezione.

La limitazione geografica su chi poteva ottenere lo status di rifugiato è stata eliminata nel 1967, dopo che molti Paesi colonizzati avevano ottenuto l’indipendenza ed erano entrati a far parte delle Nazioni Unite. Ma il sistema di protezione internazionale e le narrazioni sui rifugiati continuano a riflettere gli stessi atteggiamenti coloniali e i pregiudizi razzisti mostrati nel 1951. La diversa percezione e il diverso trattamento dei rifugiati ucraini e non ucraini da parte dei Paesi del Nord globale ne è una testimonianza.

Nel contesto dell’Ucraina, abbiamo visto cosa è possibile fare quando tutti gli attori si uniscono per rispondere a una comunità di sfollati con dignità e rispetto dei loro diritti umani. Questa è la risposta giusta. Ed è quella che tutti i rifugiati – a prescindere dalla razza, dall’etnia, dal genere o dalla classe – dovrebbero ricevere, ma che non ricevono.

Verso un settore più equo

Nel 1975, la scrittrice Toni Morrison disse: “La funzione molto seria del razzismo è la distrazione. Ti impedisce di fare il tuo lavoro. Ti obbliga a spiegare, ancora e ancora, la tua ragione d’essere”.

Le comunità sistematicamente emarginate – comprese le persone rifugiate – si trovano a dover recitare il ruolo di educatore più e più volte per spiegare ingiustizie sistemiche concrete e altamente documentate come quella appena descritta. Nel frattempo, le organizzazioni puntano su miglioramenti piccoli o simbolici come motivo di celebrazione, invece di fare il duro lavoro di cercare effettivamente di cambiare. Come ho detto prima, è estenuante.

Troppo spesso ci si nasconde dietro l’idea di “aiutare gli altri” o di “fare del bene” per evitare di affrontare conversazioni difficili su come il colonialismo e il razzismo costituiscano le fondamenta stesse del settore della protezione dei rifugiati.

Invece di rivangare all’infinito quello che dovrebbe essere un dibattito consolidato, dobbiamo chiederci come possiamo muoverci verso un settore di risposta ai rifugiati più giusto ed equo, in cui le persone che hanno vissuto la fuga forzata dal proprio paese siano alla guida delle soluzioni per le loro comunità.

Il settore non può farcela da solo. Abbiamo bisogno di un movimento di base in cui i rifugiati e i loro alleati possano costruire fiducia e riconciliazione attraverso il riconoscimento e la responsabilità dei torti subiti in passato e del funzionamento attuale del settore. Abbiamo bisogno di un movimento in cui i rifugiati facciano da guida, mentre i loro veri alleati si assicurino di non sottrarre potere e capacità di azione alle persone in nome del loro empowerment.

La buona notizia è che questo movimento è già iniziato. Collaborazioni eque tra iniziative guidate da rifugiati e da loro alleati stanno dimostrando che è possibile spostare potere e risorse verso il lavoro dei rifugiati. Tuttavia, affinché si verifichi un cambiamento trasformativo, un numero maggiore di persone nel settore deve fare il duro lavoro di esaminare i propri pregiudizi, i propri posizionamenti e i propri privilegi. E le organizzazioni devono intraprendere lo stesso percorso per poter realizzare l’equità sul posto di lavoro, nei nostri programmi e nelle nostre collaborazioni per costruire un settore di protezione dei rifugiati guidato dai rifugiati, per i rifugiati.

 

Da: THE NEW HUMANITARIAN – Journalism from the heart of crises

The New Humanitarian mette un giornalismo indipendente e di qualità al servizio dei milioni di persone colpite da crisi umanitarie in tutto il mondo. Raccontiamo dal cuore dei conflitti e dei disastri per informare la prevenzione e la risposta.

(traduzione di Francesca Gonzato)

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