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Intervista a José Nain

José Nain: nel territorio mapuche invaso dalle imprese forestali, solo il dialogo risolverà il conflitto

Claudia Fanti 25/09/2022, 19:13

Tratto da: Adista Notizie n° 33 del 01/10/2022

41222 SANTIAGO DEL CILE-ADISTA. Solo qualche mese fa le forze della destra cilena – screditate e messe all’angolo dalla rivolta antigovernativa del 2019 e poi dal “plebiscito di entrata” del 2020 sulla nuova Costituzione, con il successivo avvio dei lavori della Convenzione costituzionale (per di più presieduta da una attivista mapuche e con forte partecipazione dei movimenti sociali) – non avrebbero mai potuto immaginare, neanche nei loro sogni più felici, che il cosiddetto “plebiscito di uscita” avrebbe restituito loro il protagonismo che avevano perso. Perché è chiaro che, dopo la clamorosa sconfitta dell’Apruebo – il Cile è il primo Paese della storia a respingere una proposta di Costituzione scritta da un organismo eletto dal voto popolare –, si trovano ora decisamente in una posizione di forza per negoziare la continuità del processo costituzionale.

E se un accordo sembrava ormai raggiunto attorno alla proposta di affidare il compito di elaborare una nuova Costituzione a un organismo interamente eletto dal popolo, con parità di genere, con la presenza di rappresentanti indigeni e di indipendenti e con il sostegno di un comitato di esperti, la coalizione di destra Chile Vamos lo ha di fatto sconfessato, prendendosi altro tempo per presentare le proprie proposte. Le quali sembra che includano, tra altre cose, proprio l’eliminazione di quel principio di plurinazionalità che era stato uno dei tratti innovativi della Costituzione bocciata.

Una pessima notizia per il popolo mapuche, già molto tiepido, perlomeno in una sua parte consistente, nei confronti del processo di redazione di una nuova Costituzione, in parte per l’assenza di informazioni e in parte per il peso esercitato dal movimento più radicale di lotta per l’autodeterminazione, con il suo esplicito rifiuto del processo costituente in quanto tale.

Ne abbiamo parlato con José Nain Pérez, rappresentante delle comunità mapuche della provincia di Temuco unite nell’Associazione Folilko, in lotta per il recupero del territorio, l’espulsione delle imprese forestali e la promozione di un dialogo costruttivo, in uguaglianza di condizioni, con lo Stato cileno. 

Tra le ragioni della bocciatura della nuova Costituzione c’è stato il timore che la costruzione di uno Stato plurinazionale potesse provocare la divisione del Paese. Eppure, nei Paesi che hanno riconosciuto la plurinazionalità non c’è mai stato tale rischio…

La destra politica ed economica si è molto allarmata di fronte al testo della nuova Costituzione. Perché il riconoscimento dei popoli indigeni, per la prima volta dopo più di due secoli, avrebbe comportato da parte dello Stato cileno l’avvio di un processo di restituzione dei nostri diritti territoriali, economici, sociali e culturali. Esiste una miopia trasversale della classe politica cilena, la quale, ogniqualvolta si parla del debito storico contratto con i popoli originari, si mette sulla difensiva come se ciò rappresentasse una minaccia per lo stato di diritto e per le sue istituzioni. E ciò malgrado i progressi raggiunti nel mondo in materia di diritti indigeni, a livello tanto di Nazioni Unite quanto di Organizzazione degli Stati Americani.

D’altro lato, per le organizzazioni più radicali, la plurinazionalità lascia intatti gli interessi del grande capitale nel Wallmapu, senza favorire il recupero del territorio e l’autodeterminazione…

In realtà, al di là del concetto assai ampio di plurinazionalità, la proposta di Costituzione riconosceva il diritto alle terre, ai territori, alle risorse naturali, alla giustizia indigena, obbligando lo Stato a realizzare politiche di riparazione del danno. Sarebbe stato un importante passo avanti in vista di un negoziato tra Stato cileno e nazione mapuche per una possibile soluzione del conflitto. Quello che è chiaro è che il popolo mapuche e le imprese forestali non possono coesistere nello stesso territorio e che ad andarsene devono essere le imprese, le quali hanno provocato un danno irreparabile alla biodiversità e agli ecosistemi, hanno impoverito, isolato ed espulso le nostre comunità e hanno determinato la scomposizione del tessuto socio-culturale del nostro popolo.

In cosa ha sbagliato la Convenzione costituzionale?

Penso che abbia peccato di ingenuità e di esperienza politica. Perché, nella misura in cui avanzava nel riconoscimento dei diritti sociali e nell’ambito delle riforme strutturali, non si rendeva conto che la destra stava preparando un’imboscata e che occorreva rispondere con un’adeguata strategia comunicativa.

Perché non tutti i mapuche hanno votato per l’“Apruebo?”

Ci sono mapuche della linea più radicale che non sono andati a votare, nella convinzione che il conflitto possa risolversi con la ribellione. A mio avviso si tratta di un’utopia: è un’azione legittima, ma nella pratica non produce alcun progresso nella riconquista dei nostri diritti.

Ci sono poi i mapuche che si sono schierati con il Rechazo. Ma non è una sorpresa per le nostre comunità, perché si tratta di mapuche nati in città, immersi nel consumismo capitalista e diventati militanti dei partiti politici, senza alcun radicamento nella madre terra e senza legame con il proprio popolo e la propria cultura. Ragionano come cileni e basta, vittime di un colonialismo feroce che li ha condotti a rinunciare ai propri diritti come popolo. Molto diversa è invece la visione di noi che viviamo nelle comunità, che soffriamo la mancanza d’acqua e la perdita di biodiversità, che dipendiamo dalla terra e da ciò che essa produce, che parliamo la nostra lingua, pratichiamo la nostra cultura e lottiamo permanentemente per la restituzione delle nostre terre e dei nostri luoghi sacri.

Di quanto appoggio godono le organizzazioni armate come il Coordinamento delle Comunità in Conflitto Arauco-Malleco (Cam)?

Negli ultimi anni le organizzazioni mapuche hanno a poco a poco radicalizzato la loro posizione, come risposta all’incapacità dello stato cileno di assumersi la propria responsabilità politica nel conflitto: è stata la latitanza dei partiti e della classe politica in generale, con le sue espressioni discriminatorie e razziste, a indurre i giovani mapuche a prendere le armi come misura di pressione. Tuttavia questa pratica non gode di grande consenso tra le organizzazioni tradizionali della nazione mapuche, le cui autorità sono consapevoli che non solo la via armata non risolverà il conflitto, ma, al contrario, potrebbe addirittura aggravarlo, sacrificando la vita di molti giovani. Secondo le autorità mapuche, questa è una questione di carattere politico e va risolta attraverso il dialogo e con una forte volontà da parte dello Stato e delle sue istituzioni.

Qual è la migliore forma di lotta per il recupero del territorio e la conquista dell’autodeterminazione?

Credo che il popolo mapuche debba avviare un processo di riorganizzazione interna, respingere ogni forma di colonialismo e qualsiasi ingerenza esterna e avanzare verso l’unificazione politica. Solo così potrà affrontare nelle condizioni migliori un processo di dialogo franco con lo stato attorno a un piano di azione che porti al ritiro delle imprese forestali e minerarie e di altri invasori dai territori indigeni e al riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, come via per garantire la pace nel Wallmapu.

I sabotaggi contro l’industria forestale, idroelettrica, mineraria sono legittimi?

Le imprese forestali si sono introdotte nel nostro territorio con il sostegno dello Stato e della dittatura di Pinochet. La loro presenza, la presenza dello Stato cileno nel nostro territorio, sono viste dal popolo mapuche come un’azione di invasione e di occupazione militare, nel segno della violenza e del genocidio. In questo quadro il sabotaggio deve essere uno strumento deciso dalle comunità e non da piccoli gruppi armati che pretendono di sostituirsi alle nostre autorità tradizionali. Ritengo però che la lotta mapuche debba svolgersi mediante l’azione politica e la mobilitazione sociale, non mettendo a repentaglio vite umane con il ricorso alle armi. Perché, trovandoci di fronte a uno Stato militarmente potente e aggressivo, il rischio è quello di un massacro delle nostre comunità.

Come valuti il governo Boric?

La sua vittoria era stata vista come una svolta storica rispetto alla vecchia, corrotta e screditata politica dei governi precedenti, e le aspettative che aveva generato erano enormi. La sua leadership, però, sta perdendo forza e questo mette in pericolo il suo programma di governo, indebolendo la sua azione in materia di giustizia, di diritti sociali, di riconoscimento dei popoli indigeni. La pressione della destra politica ed economica gli ha impedito di portare avanti la sua agenda, soprattutto in relazione al conflitto in territorio mapuche, che è ancora sotto il controllo dell’esercito cileno nel quadro dello stato d’eccezione costituzionale.

Che succederà ora?

La polarizzazione del Paese mostra quanto sia fragile la democrazia. La vittoria del Rechazo ha rafforzato la destra conservatrice e pertanto saranno i partiti di destra a fissare l’agenda per un possibile nuovo processo costituente. In realtà è difficile capire cosa passi per la testa dei cileni, che prima hanno lottato per cambiare la Costituzione e poi, di fronte al nuovo testo, lo hanno bocciato.

È il momento che il presidente Boric prenda il toro per le corna e guidi un nuovo processo costituzionale coerente con i principi del suo programma, incorporando i popoli indigeni come soggetti di diritti.

 

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