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Circolare nazionale Settembre 2022 a cura della Segreteria Laboratorio.
Questa lettera è volutamente costellata di tanti nomi con l’unico scopo di trasmettere il senso della coralità del lavoro ed invitare ad ogni persona che lo desideri a rilevarne una parte ed andare avanti.
Nella semplicità.
Abbiamo chiamato “Segreteria Laboratorio” il tentativo di rispondere all’assenza di candidature per la segreteria della Rete alla fine del biennio 2018- 2020 ( si era proposta solo Caterina lanciando insieme l’idea di un “viaggio con le Reti”).
Da parte di Antonio Vermigli, Lucia Capriglione, Nadia Zamberlan e Caterina Perata, che lanciarono l’idea nel settembre 2020 a Sezano, non c’era una premeditazione di cambiamenti epocali, piuttosto ricerca.
Marta Bergamin, preziosa tesoriera, era dimissionaria ma in attesa di una sostituzione continuò a coprire l’incarico, gli altrettanto preziosi Marco Lacchin, Marco Zamberlan e Gigi Bolognini rinnovarono la disponibilità per i verbali e la parte informatica, Presto Paolo Guglielminetti, Maria Rita Vella e Nadia Zamberlan formarono il gruppo Progetti.
Laboratorio è stato fino a qui.
Laboratorio per cercare di attraversare il momento storico.
Pandemia e la necessità di forti prese di posizione individuali su novità come il green pass, grave crisi politica ed economica che ha toccato da vicino molti membri della stessa Rete, una guerra vicina che ha ridisegnato la geopolitica e per finire le imminenti elezioni politiche in Italia che ci chiamano ancora una volta a rispondere sempre e comunque guardando agli Ultimi.
Ma è inutile ricordare cos’è stato il biennio 2020-2022 sotto i punti di vista a chi, come noi della Rete, ha cercato di viverlo in consapevolezza e nel confronto sincero.
Per la parte strettamente logistica sono stati organizzati i coordinamenti nelle nuove forme “a distanza” o “mista”, le assemblee di bilancio, la divisione delle circolari, i bilanci stessi , i versamenti e le revisioni dei progetti.
E poi qualche novità:
Germana Signa ed Enrico Vallarino sono subentrati a Marta Bergamin nel servizio di tesoreria, Maria Rita Vella ha curato un certosino lavoro di “Storia dei progetti”, Caterina Perata ha iniziato le prime tappe del “viaggio con le Reti”, è stato organizzato un fine settimana a Rimini corto come un seminario ma con l’intensità di un convegno in cui sono stati incontrati “ a distanza” tanti testimoni e referenti delle operazioni.
Altre proposte come il “forum visioni”, le “circolari circolanti”, la “griglia di condivisione delle attività delle Reti” hanno avuto poco riscontro ma è sempre importante proporre idee nuove senza curarsi della possibile accoglienza.
La parte principale dell’attività è però quella in corso : rileggere in questomomento storico l’essere Rete nella sua essenza ed i criteri che individuano
le operazioni.
Dopo confronti attraverso lettere e discussioni durante i coordinamenti si è istituito un gruppo di lavoro che ha condiviso un primo documento il quale sarà discusso tra qualche giorno nel coordinamento…due anni dopo l’inizio di questo esperimento.
Alleghiamo alcuni scritti che possano aiutare a rileggere il percorso.
Crediamo che la Rete sia davvero ancora capace di cambiare per andare avanti e continuare questo laboratorio può essere un modo.
Chi se la sente?
La segreteria laboratorio

Settembre 2022
Carissima, carissimo,
la Madre Terra la (Pacha Mama), il creato e le sue creature gridano per la condizione in cui versa la Casa Comune. In balia dei nostri eccessi consumistici, essa geme e ci implora di fermare i nostri abusi e la sua depauperazione. Molte specie si stanno estinguendo ma gridano anche gli uomini e in particolare i Popoli nativi e i più poveri, esposti alla crisi climatica: sono già 90 milioni i profughi climatici. Soffrono l’impatto con la siccità, inondazioni, uragani e ondate di caldo sempre più intense e frequenti.
Urge cambiare, modificare gli stili di vita, lo stato della Casa comune merita la medesima attenzione di altre sfide globali quali le gravi crisi sanitarie e i molteplici conflitti bellici ancora esistenti.
Piangiamo ogni giorno per gli incendi, lo scioglimento dei ghiacci, la siccità; ma siamo disposti a chiedere con forza alla politica una cambiamento radicale. Penso alla gestione dei rifiuti fortemente in mano mafiosa, lo dimostrano i continui incendi di milioni di tonnellate di rifiuti stipate stipati in grandi magazzini o il loro trasferimento in Africa corrompendo sistemi locali. Quando comprenderemo che il futuro dipende principalmente da noi?
Urge una coscienza critica, una coscienza che si fa realmente critica di quella mentalità che noi chiamiamo buon senso che è gestito da chi ha in mano le leggi del potere e dell’informazione, per cui i buon senso -che non interroga, che non indigna- diventa tenere le cose come sono a vantaggio di chi ha, la stragrande minoranza dell’umanità: noi!
La coscienza critica, invece, sta nel mettere in crisi questo tipo di struttura di potere e guardare alla realtà di come vengono divisi i beni della Madre Terra, chi ne usufruisce e chi li agogna. Oggi viviamo nella ragionevolezza della politica, l’attuale campagna elettorale ce lo dimostra in modo chiaro, quali sono i problemi: il prezzo del gas, l’inflazione, i sussidi, la diminuzione delle tasse, le bollette… tutto a salvaguardia del mondo dei potenti e per chi è già nel benessere, ma la vera politica è quella di orientare il mondo a vantaggio delle donne e degli uomini concreti, degli impoveriti (nessuno nasce povero, è questo sistema che poi lo crea), dell’indifeso.
Oggi è follia il mantenimento del mondo a vantaggio dei potenti: l’unica possibilità rimastaci è quella di lavorare per un mondo che sia a misura di uomo. In questo senso penso alla follia della pace. Possiamo anche chiamarla utopia, nel senso che è una cosa grande e difficile che forse non riusciremo a pieno a realizzare, ma che per questo siamo chiamati a realizzarla  giorno dopo giorno.
Penso a papa Francesco, grande contestatore di fatti concreti, penso alla Laudato Si con la proposta dell’ ecologia integrale, alle sue prese di posizioni su tutte le guerre, al suo continuo richiamo alla riscoperta del Vangelo, troppo spesso lasciato ad impolverarsi nei cassetti delle scrivanie, urge renderlo vivo, facendoci impegnare tutti, credenti e non credenti alla creazione della pazzia di un mondo migliore, di vita e di libertà per tutti, per esorcizzare la presunta ragionevolezza che ci viene insegnata dai potenti e dai ricchi, e che preparerebbe invece la follia della distruzione umana.
Viviamo in un mondo organizzato secondo lo scambio di favori. Chi vuole funzionare nella società moderna, deve entrare in una rete di vari rapporti in cui si deve sempre dare qualcosa per guadagnare qualcos’altro di nostro interesse. Sembra una cosa normale; partendo dall’educazione in famiglia fino ai rapporti commerciali. Ma, d’altro lato, sappiamo bene che nei rapporti umani non basta solamente il conto di guadagni e di perdite. Ciò che veramente conta tra gli uomini sono i rapporti non stimabili con prezzi e favori.  Quindi, ci sono due misure, due modi di relazionarsi con le persone. Potrebbero essere definiti uno “commerciale” e l’altro “disinteressato”. Il primo è rappresentato dal circolo continuo e sempre più radicato nella rete dei favori. Le persone sono viste come risorse potenziali di favori: più qualcuno è potente, più persone cercano di relazionarsi con lui. Non importa la qualità umana di questa persona, ma solamente i favori che può offrire. Questa è la logica, in vari contesti sociali le persone vengono classificate a seconda del loro potenziale di offrire favori. Il primo posto a nozze o a qualsiasi banchetto di solito viene riservato a qualcuno di importante, a cui dobbiamo (o potremmo dovere) molto. La vergogna dell’ultimo posto significa semplicemente che in un gruppo abbiamo una posizione misera. Non significhiamo niente.  Quindi non possiamo offrire molto, allora non possiamo sperare di molti favori. Le configurazioni sociali esprimono proprio queste differenze essenziali tra le persone. Non tutti siamo uguali. Sono quindi due le logiche: quella dello scambio e la prospettiva disinteressata. Non possiamo evitare la prima, che dovrebbe essere gestita bene, con tanta prudenza, umiltà e sensibilità, rispettando la misura umana, la seconda è quella della creazione della fraternità. 
Antonio

SIGNOR

GABRIEL BORIC FONT

PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DEL CILE.

PRESENTE.

Signor Presidente della Repubblica del Cile,

siamo un gruppo di comunità che appartengono all’onorevole Nazione Mapuche, dai comuni di Puerto Saavedra, Carahue, Nueva Imperial, Chol Chol, Galvarino, Traiguen, Lumaco, Lautaro, Padre las Casas, Pitrufquen, Freire, Villarrica, Curarrehue, Melipeuco e Vilcun, delle Province di Cautin e Malleco; della Regione dell’Araucania. Fin dall’antichità abbiamo abitato il cono meridionale dell’America, un vasto territorio che si estende dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico, dalla Valle del Mapocho a sud e dalla parte argentina dalla Provincia di Buenos Aires sempre a sud. Dopo un lungo processo di invasione da parte della Corona Spagnola siamo stati ridotti in un territorio dal Rio Bio Bio a sud.

Dalla nostra convergenza mapuche, abbiamo ottenuto una profonda riflessione sul nostro passato, presente e futuro come Popolo. Quindi, da questa realtà in cui siamo immersi come Nazione Originaria, in questo senso siamo riusciti ad avanzare nel rivitalizzare, valorizzare e riconoscere la guida delle nostre Autorità Tradizionali: Lonko, Machi, Kimche, Ngempin, Weupife e Werken. La partecipazione attiva del movimento Mapuche, così come i consigli e le istanze rilevanti di tipo culturale, spirituale, sociale e politico, sono le questioni che possono convalidare qualsiasi tentativo di dialogo in cui vengano affrontati argomenti relativi alla Nazione Mapuche e ai suoi diritti. Quelle e quelli di noi che vi partecipano non sono rappresentanti della Nazione Mapuche nel suo insieme, ma rappresentiamo le nostre comunità e i relativi spazi territoriali tuttavia, non per questo, cessiamo di essere meno importanti e significativi per gettare le basi per un trattamento diverso dello Stato del Cile verso la Nazione Mapuche.

La violenza è una questione traboccante, ha prevalso sul dialogo e sulla diplomazia. Questo è accaduto fondamentalmente perché lo Stato del Cile e i suoi governanti non hanno mai avuto la volontà politica di affrontare con fermezza e decisione il conflitto dal fiume Bio Bio a sud. La Repubblica del Cile ha non ha mai riconosciuto il ruolo sproporzionato e l’imposizione brutale che ha esercitato contro il popolo mapuche e le sue comunità e, di fronte a quel vuoto, ha preso la strada politica sbagliata e l’ha mutata in una questione interna, trasferendo la responsabilità alla polizia e ai tribunali cileni.

Dopo una prolungata invasione del territorio della Nazione Mapuche da parte della Corona Spagnola, vi fu una permanente resistenza all’ingresso totale degli Spagnoli nel nostro territorio mapuche, perché non fu mai perso di vista il concetto di territorio. Questione molto fortemente accentuata da uno degli uomini più visionari del nostro Popolo Mapuche, Toki Pelantraru, che mantenne una guida fortemente energica dal 1570 al 1590. Per sua convinzione ebbe sempre l’idea di tenere gli spagnoli a nord del Rio Bio Bio, un forma per mantenere l’unità della Nazione Mapuche e del suo territorio (Wallmapu). L’esercizio dell’Autodeterminazione sarebbe stato pienamente mantenuto, garantendo pace e tranquillità. Poi va segnalato il Trattato di Tapihue del 1825, concordato dalla Repubblica del Cile e dalla Nazione Mapuche, che riconosce la Libera Determinazione e l’autonomia territoriale dal Bio Bio a sud.

Consapevoli di questa teoria, riaffermiamo che in effetti il ​​nostro popolo avrebbe potuto proiettare meglio se stesso, la sua cultura, economia e spiritualità fondate fondamentalmente sul rispetto e sulla valorizzazione della biodiversità che ci ha dato cibo, medicine e salute, per i membri delle nostre comunità mapuche. Per noi, per i nostri capi mapuche che resistettero all’invasione, c’era sempre assoluta chiarezza sul fatto che le nostre terre e il nostro territorio avevano un posto per i figli e le figlie di Ngenemapun (forza della terra) ai quali avevano affidato il compito di custodirlo e proteggerlo da qualsiasi aggressione. Quella convinta missione è ciò che muove i Mapuche a difendere la loro madre terra.

Dopo tre secoli di incontri e scontri, battaglie dopo battaglie, gli Spagnoli riuscirono a capire che non potevamo convivere all’interno dello stesso territorio, cioè dal fiume Bio Bio a sud. Era uno spazio assolutamente mapuche, quindi accettarono di creare il confine e i valichi di frontiera che delimitavano entrambe le istituzioni, sia della Corona spagnola che della Nazione Mapuche. Nell’anno 1641 (6 gennaio) fu firmato il primo Parlamento o Patto di Quilin. Francisco López de Zúñiga firma con il Lonko sulle rive del fiume Quillen (l’attuale provincia di Cautín), e il trattato di Tapihue del 1825 concluso con lo Stato del Cile e il nostro popolo Mapuche. Quest’ultimo Parlamento ha riaffermato l’impegno storico a rispettare gli accordi stabiliti, cosa che attualmente permetterà di gettare le basi e stabilire una carta di navigazione più chiara e coerente con la realtà che viviamo nel Wallmapu.

Dopo aver stabilito misure di convivenza basate sul riconoscimento di entrambi i Popoli – della Corona Spagnola e della Nazione Mapuche (circa 300 anni) – inizia in America il processo di indipendenza dei Creoli. Questi, tutelati nei loro litigi e desideri economici e politici, iniziarono a generare destabilizzazione nel nostro territorio che creò confusione e rivalità in settori sostenuti dai detti trattati (o parlamenti) da parte di coloro che volevano solo distruggere quanto stabilito. Questo portò a grandi battaglie contro gli Spagnoli e la persecuzione della Nazione Mapuche rispetto agli accordi stabiliti in clima coloniale.

All’inizio del 1800 comincia a delinearsi il concetto di Repubblica, che si conclude infine con l’istituzione del Primo Consiglio Nazionale per stabilire le linee guida e i pilastri della Repubblica del Cile. In questo senso la Corona Spagnola inizia a perdere forza, mentre nel caso del Popolo Mapuche inizia la minaccia al nostro territorio che sfocia infine in un provvedimento arbitrario e fiscale che vincola con la forza il territorio mapuche alla sua giurisdizione. In tal senso ci è stata mposta la nazionalità cilena, le sue istituzioni, le dogane e leggi, che ci mantengono spogliati dei nostri diritti più elementari.

Durante il processo di occupazione del territorio mapuche da parte dello Stato del Cile (noto come la pacificazione dell’Araucanía), molti mapuche furono assassinati, le nostre madri e sorelle violentate, i nostri anziani uomini e donne furono uccisi, bambini e bambine assassinati, essi furono rinchiusi nei Ruka (antiche abitazioni mapuche, ndt) e bruciati vivi. Secondo le cronache dei giornali della zona 1881-1906, furono divise le terre e il territorio mapuche come veri criminali e teppisti.

Per quanto riguarda l’usurpazione delle nostre terre, lo Stato del Cile ha consegnato a ogni colono arrivato dall’Europa oltre 500 ettari di terra, 60 ettari per ogni famiglia di cileni e per ogni famiglia mapuche 6,5 ettari. Tuttavia, i coloni, non soddisfatti del bottino, hanno continuato con abusi, assedi, uccisioni, inganni e espropriazioni, il tutto protetto e convalidato da tribunali corrotti e giudici del tempo e in collusione con l’oligarchia e i militari. In questo modo hanno consolidato il genocidio del nostro popolo mapuche e del loro territorio, distruggendo la ricchezza culturale e naturale dei Wallmapu, isolando le nostre comunità mapuche in piccoli pezzi di terra che chiamavano “riduzione indigena”.

Nel corso degli anni l’invasione del nostro popolo mapuche si è consolidata. Tuttavia, non abbiamo mai accettato né convalidato la vostra invasione militare come un’azione legittima, anzi, è sempre stata vista come un’azione di malafede, piena di odio e di meschini interessi che cercavano solo di impadronirsi delle ricchezze che avevamo nelle nostre terre, del desiderio mercenario che li accecava, portandoli a commettere atti disumani, descritti dagli storici dell’epoca nelle loro cronache. Se il popolo cileno sapesse cosa è realmente accaduto dal fiume Bio Bio a sud, forse potrebbe capire più a fondo la gravità della questione.

Signor Presidente, è attualmente in corso un’azione politica, legale e istituzionale da parte dello Stato che Lei rappresenta, una misura che colpisce gravemente la libertà del nostro popolo mapuche e delle sue comunità nel Wallmapu. Lo Stato di eccezione costituzionale è un provvedimento che è stato applicato anche durante l’invasione, forse con altro nome e modalità diversa. Il Suo Stato, attraverso l’esercito cileno, immobilizzò le comunità Mapuche per evitare che difendessero le loro terre e il loro territorio dai mercenari e dopo 141 anni tornano a proteggere il potere economico, i coloni invasori, i proprietari terrieri e le compagnie forestali, presumibilmente per evitare sabotaggi e attacchi.Tuttavia sono questi stessi attori che continuano a distruggere il Wallmapu.

Quello che stiamo vivendo attualmente sono momenti senza dubbio complessi e difficili, ma non impossibili da risolvere. Per noi Mapuche non sarebbe la prima volta che ci sediamo in Parlamento per riaffermare le nostre convinzioni nella storia e la nostra condizione di Nazione Originaria. Mettiamo sul tavolo in primo luogo la volontà politica, il rispetto, la storia e che ciascuno assuma le responsabilità che gli corrispondono per il ruolo che ciascuno ha in questo passaggio storico.

Pertanto, e tenuto conto di quanto sopra, dobbiamo chiarire che il Vostro Stato è arrivato nel nostro territorio senza che nessuno dei Mapuche vi invitasse. Quindi il Vostro Stato è arrivato senza il nostro aiuto per atto di malafede, poi sono arrivate le Vostre istituzioni: leggi, usi e costumi estranei alla nostra cultura. Successivamente sono stati portati investitori e uomini d’affari, lasciando il nostro territorio mapuche alla loro mercé affinché potessero svolgere le loro attività economiche nonostante i danni irreversibili alle nostre vite, alla biodiversità e a tutte le risorse naturali che preesistevano alla Vostra Repubblica.

Nel processo di invasione e colonizzazione del territorio mapuche, i coloni iniziarono l’abbattimento della foresta nativa endemica che faceva parte del mantello naturale che proteggeva la nostra cultura mapuche, ospitava la nostra conoscenza e filosofia di vita, alimentava la nostra spiritualità e proiettava la nostra antica cultura verso uno splendido futuro, che a poco a poco stava perdendo forza a causa della distruzione estranea alle nostre antiche pratiche.

Le aziende forestali, beneficiate dalla dittatura militare, furono la goccia che fece traboccare il vaso. Protette dal decreto legge 701, arrivarono a generare l’ecocidio del clima. Rasero al suolo e bruciarono gli ultimi resti di foresta nativa endemica del cono meridionale d’America provocando un’accelerazione nel processo della crisi climatica che stiamo vivendo oggi. Nessuno è stato in grado di visualizzare l’accaduto solo perché protetto dal denaro e dal potere.

In questo contesto, la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, nel suo articolo 28 afferma: “I popoli indigeni hanno diritto al risarcimento mediante mezzi che possono includere la restituzione o, quando ciò non è possibile, un indennizzo equo per le terre, i territori e le risorse che hanno tradizionalmente posseduto o occupato o utilizzato e che sono stati confiscati, presi, occupati, utilizzati o danneggiati senza il loro libero, preventivo e informato consenso”.

Nonostante tutto quanto sopra indicato e confortato dalla verità storica e assoluta, lo Stato che Lei guida e rappresenta deve intervenire in materia e generare meccanismi chiari per risolvere il conflitto, considerando che la storia Le offre un’opportunità unica. Non permetta che si perpetuino violenze e ingiustizie nei confronti del nostro Popolo e le sue comunità e non continui ad alimentare con il nostro sangue i malvagi che, per ricchezza e potere, violentarono e assassinarono i figli e le figlie mapuche.

Lei e il Suo governo dovete chiamare le vostre istituzioni all’ordine e migliorare il comportamento disumano dei vostri alleati economici, le aziende forestali, i coloni. Insieme dovete stipulare accordi di riparazione per i danni causati alla Nazione Mapuche e alle sue Comunità. Occorre favorire un accordo trasversale di carattere nazionale tra governo, opposizione, imprese forestali e proprietari di fondi. Da questa istanza politica si creano le condizioni per avviare un processo di concertazione sull’agenda di lavoro discussa e concordata insieme con la Nazione Mapuche.

Assi tematici da considerare all’interno di un processo di dialogo (o Parlamento) tra la Repubblica del Cile e la Nazione Mapuche.

TERRITORIO E TERRE MAPUCHE.

Il chiarimento storico e la riparazione del processo di usurpazione delle terre e del territorio mapuche, consapevoli dell’invasione, delle cattive pratiche e delle atrocità commesse dallo Stato del Cile, dal fiume Bio Bio a sud, dovrebbero essere indagati da una Commissione speciale accompagnata da una agenzia specializzata delle Nazioni Unite, in merito alle procedure e ai criteri giuridici utilizzati nel processo di usurpazione del Wallmapu.

Revisione di tutti i Titoli della Misercordia e dei Commissari (praticamente riserve o luoghi di confino, ndt) concessi dallo Stato del Cile alle comunità attraverso la legge di insediamento e colonizzazione delle terre mapuche, per poi riparare completamente, restituendo le terre originali a ciascuna comunità, riconoscendo altresì che gran parte delle proprietà erano state stipulate contestualmente alla concessione dei Titoli della Misericordia e Commissiariali. Per tale motivo, una notevole quantità di terreno non risulta censita a favore delle comunità mapuche.

Allo stesso modo vanno ricercati meccanismi per la restituzione di luoghi comuni e luoghi sacri appartenenti alla visione del mondo e alla spiritualità mapuche. Come aree protette, parchi nazionali, monumenti naturali, riserve naturali, da dove lo Stato cileno ha spostato ed espulso le comunità mapuche.

Quanto sopra descritto in termini di Terre, Territori e risorse naturali, è correlato a quanto stabilito nel sistema di diritto internazionale sui popoli indigeni, in particolare a quanto richiamato nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, sottolineando l’articolo 40: “I Popoli Indigeni hanno diritto a procedure eque e giuste per la composizione di conflitti e controversie con gli Stati o con altre parti, e a una pronta decisione su tali controversie, nonché un rimedio effettivo per qualsiasi violazione della loro persona e dei diritti collettivi. In tali decisioni devono essere presi in debita considerazione i costumi, le tradizioni, le norme e gli ordinamenti giuridici dei Popoli Indigeni interessati e gli standard internazionali in materia di diritti umani”.

Sulla stessa linea l’articolo 25: “I popoli indigeni hanno il diritto di mantenere e rafforzare la propria relazione spirituale con le terre, i territori, le acque, i mari costieri e le altre risorse che hanno tradizionalmente posseduto o occupato e utilizzato e di assumersi le responsabilità che a tal fine spetta loro per le generazioni a venire”.

E l’articolo 26: “I popoli indigeni hanno diritto alle terre, al territorio e alle risorse che hanno tradizionalmente posseduto, occupato o utilizzato o acquisito“.

ESERCIZIO DI LIBERA DETERMINAZIONE

Per quanto riguarda l’esercizio dell’autodeterminazione, le Nazioni Unite, attraverso la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, riconoscono che l’autodeterminazione è un diritto inalienabile e imprescrittibile e che deve essere applicato ed esercitato dai popoli indigeni nelle loro terre e territori.

Articolo 3: “I popoli indigeni hanno diritto all’autodeterminazione. In virtù di tale diritto, determinano liberamente il proprio status politico e perseguono liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale”.

Allo stesso modo l’articolo 4: “I popoli indigeni, nell’esercizio del loro diritto all’autodeterminazione, hanno il diritto all’autonomia o all’autogoverno nelle questioni relative ai loro affari interni e locali, nonché ad avere i mezzi per finanziare la loro funzioni autonome”.

In questo contesto, come meccanismo di risoluzione dei conflitti, riacquistano importanza i trattati firmati tra la Corona Spagnola e la Nazione Mapuche, durante l’epoca coloniale. Questi strumenti fungerebbero da antecedenti storici della legittimità della nostra rivendicazione.

DIRITTO ALL’ACQUA

La crisi climatica si è aggiunta a questo. Le pratiche dannose delle aziende forestali hanno generato molta perdita di biodiversità e di ecosistemi che hanno dato vita a spiritualità, salute, medicine, che sono ormai elementi praticamente perduti. Non abbiamo acqua nemmeno per il consumo umano, questo è indubbiamente un attacco alla vita mapuche, visto che le Nazioni Unite nel 2010 hanno dichiarato che il diritto all’acqua è un diritto umano, che deve essere assicurato e garantito dagli Stati del mondo alla popolazione.

Va risolta la mancanza di acqua per il consumo umano, per gli animali e per lo sviluppo produttivo delle comunità mapuche.

Sono da definire piani e programmi per la crisi climatica e la perdita di biodiversità.

DIRITTO DI PARTECIPAZIONE E CONSULTAZIONE PREVIA ED INFORMATA

In relazione a questa materia le Nazioni Unite fanno anche una menzione speciale nel loro articolo 19: “Gli Stati devono consultarsi e cooperare in buona fede con i popoli indigeni interessati, attraverso le loro istituzioni rappresentative, prima di adottare e applicare misure legislative o amministrative che li interessa al fine di ottenere il loro consenso libero, preventivo e informato”.

Interventi e investimenti nel territorio mapuche, progetti economici ad alto impatto con piena ed effettiva partecipazione attraverso una preventiva e consapevole consultazione con le comunità interessate.

PIANO DI INTERVENTO ED INVESTIMENTO PRODUTTIVO NELLE TERRE MAPUCHE

Piani e programmi di sviluppo produttivo nelle comunità mapuche devono essere promossi attraverso un processo di consultazione preventiva e informata al fine di considerare e includere i bisogni che lo stesso popolo mapuche definisce nelle sue attività economiche da sviluppare.

Incoraggiare e promuovere progetti più rispettosi dell’ambiente e della salute, per affrontare la crisi climatica e garantire la sicurezza alimentare delle famiglie mapuche.

Infine, signor Presidente, nella nostra lettera abbiamo delineato lo sfondo storico e i meccanismi che possono gettare luce su una possibile soluzione politica al conflitto che colpisce la nostra Nazione Mapuche e il suo Stato del Cile.

Le comunità mapuche che aderiscono all’opera sono convinte che attraverso la volontà politica si possa avanzare nella risoluzione del conflitto, ma con un dialogo politico, e non un dialogo di natura domestica come il piano del buon vivere promosso dal Suo governo nel territorio mapuche.

Ci auguriamo di avere un incontro (o Trawun) con Lei il prima possibile per sviluppare e avvicinare le posizioni politiche di entrambe le parti coinvolte nel conflitto. Se non avremo una risposta positiva, capiremo che il Suo governo non ha alcuna intenzione di trattare in modo diverso dai governi che lo hanno preceduto al potere, il che produrrà l’inutile prolungamento di questa difficile e grave situazione.

Cordiali saluti.

Comunità mapuche per l’autodeterminazione, l’autonomia economica, politica, sociale e culturale della regione dell’Araucanía, delle province di Malleco e Cautin, del Ngulu Mapu-Cile.

Teléfono de contactos : Werkenes (Voceros) ; Miguel Millacoi, 986459463, Ernesto Melin, 9 49911200, Mario Melillan, 9 74923758, José Nain P. 9 63348613.

Wallmapuche, Region de la Araucania, 28 de Julio de 2022.

GENOVA, LUGLIO 2022

Cari amici
mi scuso per il ritardo. Non è però come ripiego al mio ritardo che invio in questa circolare questo bellissimo articolo (a me sembra! e a voi?) apparso su “La Repubblica” di mercoledì 20 luglio dell’Avvocato Alessandra Ballerini, una di quelle sante di oggi, secondo me, un po’ come Gino Strada.
– Ho trovato questo articolo irto e aspro quasi a tracciare anche con le parole, la via della giustizia come un cammino impervio, aspro, faticoso.
La giustizia, parola Maestra, che apre le serrature quando vive, che placa i cuori quando riesce a farsi strada, premessa ad ogni altra possibile azione di umanità verso l’altro.
– Anche nel Vangelo si parla di questa via stretta, così faticosa per entrarvi e starvi dentro.
E poi si parla anche di un’altra “via”, spaziosa, facile, come una corsa in discesa. Quante volte ci accorgiamo, durante le nostre giornate, quante persone percorrono quest’ ultima via. Quante persone hanno scelto da tempo di prendere questa via, me lo dico, una vera vergogna! Grande scoramento, l’angoscia di sentirsi impotenti, sommersi, la rabbia, lo “scazzo”, il rischio di non combattere più.
La Ballerini ci mostra l’altra via, concreta, ostica, da combattimento. È la via che ci sta dinanzi, che dobbiamo percorrere, non ce n’è un’altra se vogliamo essere coerenti. Prepariamoci. Buona giornata.

Carissima, carissimo,
questa mattina mi sto interrogando sul rapporto che c’è tra la corretta gestione del tempo e la spiritualità. Abbiamo sempre fretta. Ci manca il tempo. Non abbiamo tempo. Il tempo vola. Anche le vacanze sono vissute sotto la pressione del tempo. In pochi giorni si deve riuscire a fare tanto. E magari si ritorna più stressati di prima o con l’impressione di non aver sfruttato bene il tempo.
Ritrovare se stessi, significa inevitabilmente fermarsi, rallentare, sostituire obiettivi pratici ed utilitaristici, con momenti di pura gratuità e riflessione; sedimentare le nostre esperienze di vita, coglierne il valore e il senso, sentirsi radicati nella propria interiorità e capaci noi di pilotare l’esistenza.
L’opposto dello sradicamento a cui ci porta la fretta, la necessità di fare tante cose, il bisogno di rendere, la preoccupazione di essere efficienti: Spesso il riuscire a fare tanto fa a pugni con il riuscire a fare bene.
Con l’avvento della tecnica, specie in questi ultimi decenni, la nostra società ha impresso l’acceleratore a tutto… Spesso nel nome del progresso!
Ciò fa si che sempre di più le persone che sentono la fatica di dover sempre correre, di doversi affannare in continuità per qualche cosa. Quante cose andrebbero in maniera ben diversa se invece di rincorrere le necessità a cui ci hanno obbligato i nostri sistemi di socializzazione, se sapessimo davvero fermarci, fare il punto della situazione, rivedere la gerarchia delle priorità che ci guidano. Per poi ripartire… Saper ricominciare sempre a tutti i livelli, è garanzia di saggezza e di sana spiritualità. Ciò implica sospendere l’uso sfrenato dell’acceleratore, per imparare a vivere più lentamente, più in profondità, assaporando, centellinando.

Certamente siamo tutti consapevoli che la pandemia e l’attuale l’invasione della Russia in Ucraina stanno cambiando le nostre relazioni. Non solo quelle personali e sociali, ma anche quelle politiche, commerciali, economiche…
Ha cambiato tutti il mondo della comunicazione in ogni ambito, rendendola più agile, almeno da un punto di vista di collegamenti, ma allo stesso tempo più continua e, anche, più insidiosa.
Una certezza, però è forte e chiara, c’è tanto da fare. E’ tempo di mettere da parte i conflitti e i protagonismi per essere responsabili e impegnarci a ripartire superando ogni tipo di distanza, non solo quella sociale, per costruire relazioni e rapporti affidabili.
È tempo di cambiare la mentalità crescente di conflittualità ed interessi per cercare veramente la convivenza di tutti e tra tutti, costruendo la pace nella solidarietà e nel rispetto reciproco.
Il bene comune sociale, la vita di ogni persona così come la sua dignità umana, non possono essere oggetto di teatrini politici e di baratti economici. La salute di un bambino come quella di un nonno, in qualunque continente, è un bene che non può in alcun modo essere oggetto di interessi economici e di brevetti privati.
La vita e tutti i beni comuni che ne sono garanzia di qualità e dignità, ci appartiene e ci riguarda tutti allo stesso modo.
La questione delle disuguaglianze sta sempre di più assillando l’opinione pubblica, per le conseguenze deleterie e minacciose che essa sta producendo in seno alla nostra società ma nel mondo intero. L’aumento progressivo della ricchezza da una parte e della povertà dall’altra, sono una mina vagante per l’avvenire dell’umanità. E’ inutile riportare ancora una volta qui le cifre di questo scandalo crescente. Sono cifre ormai note a tutti. La ricchezza mondiale è in mano a pochissimi individui e, su un piano più esteso a pochissimi popoli.
Tutto ciò avviene causa gli egoismi, le sopraffazioni, le ingiustizie di cui gli uomini da soli e in collettività sono maestri specializzati.
Chi porrà rimedio a tutto questo?
A noi la scelta, nasconderci o darci una mano!
La Rete Radié Resch, è nata per approfondire, per capire e denunciare, per questo abbiamo creato relazioni ugualitarie con le comunità referenti dell’America Latina, della Palestina, dell’Africa per poter confrontarsi e sostenersi.

Sappiamo quali sono i meccanismi che determinano la povertà della maggioranza degli abitanti del mondo, per questa presa di coscienza sociale, politica e religiosa (per chi è credente di qualsiasi religione) sosteniamo progetti di solidarietà verso comunità in cammino per la loro liberazione.
Antonio

29a Marcia per la giustizia
Quarrata (Pistoia)
Sabato 10 settembre 2022 ore 20,45

Ritrovo in piazza Risorgimento alle ore 20,45
Alle ore 21,00 inizieranno le riflessioni
da parte degli invitati

FERMIAMO TUTTE LE GUERRE
Antonietta Potente, teologa
don Luigi Ciotti, fondatore Gruppo Abele e Libera
don Mattia Ferrari, cappellano della nave Mediterranea
Mohamed BA, senegalese, attore e scrittore
Moni OVADIA, attore e poeta
Nello SCAVO, inviato di Avvenire

 

Attività del Tribunale Permanente dei Popoli 2021- 2022

L’agenda di lavoro del Tribunale Permanente dei Popoli (TPP) è stata particolarmente intensa e ha incluso le fasi conclusive di programmi avviati nel 2020 (come la sessione sulla Colombia) e l’attivazione e lo svolgimento di sessioni che giungeranno a termine nel corso dei prossimi mesi.

Il caso Colombia

L’atto di accusa che, a norma di Statuto, attiva la procedura che porta alla realizzazione della Sessione è stato ritenuto di competenza del TPP, il quale ha attivato nel corso del 2020 la sessione con la seguente formulazione: Genocidio politico, impunità e crimini contro la pace in Colombia. In termini profondamente mutati rispetto al processo svolto dal 2006 al 2008 – che aveva documentato la violazione sistematica dei diritti del popolo colombiano e i crimini contro l’umanità commessi da uno spettro di imprese transnazionali operanti nel paese, con una attiva connivenza e responsabilità delle istituzioni governative colombiane – la nuova richiesta, sottoscritta da oltre cento movimenti, associazioni, popoli indigeni e comunità contadine e afrodiscendenti, ha argomentato l’esistenza, lungo la storia degli ultimi 70 anni, di un esplicito e continuato genocidio. Le tappe della sessione hanno previsto un evento di presentazione dell’atto di accusa il 25 gennaio 2021 e tre udienze pubbliche ricche di rapporti originali e di testimonianze individuali e collettive, e che sono state realizzate a Bucaramanga, Medellín e Bogotà dal 25 al 27 marzo 2021, nella forma ibrida di presenza fisica e virtuale della giuria. Essa è stata composta da don Raúl Vera, Andrés Barreda, Lottie Cunningham, Esperanza Martínez, Graciela Daleo, Daniel Feierstein, Luis Moita, Antoni Pigrau Solé, Mireille Fanon, Michel Forst, Philippe Texier, Luciana Castellina e Luigi Ferrajoli. La sentenza, presentata il 17 giugno 2021 a Bogotà, ha accolto pienamente l’accusa e ha motivato il giudizio di genocidio. Il procedimento e la decisione del TPP sono stati riconosciuti di particolare rilevanza non solo per i loro contenuti dottrinalmente rigorosi, innovativi e aderenti alle esigenze di rivendicazione dei diritti fondamentali delle varie componenti del popolo colombiano, ma anche per il loro contributo ai lavori della Commissione Verità che si avvia alla conclusione del suo mandato ed alla presentazione del suo rapporto atteso entro la fine di giugno 2022.

Il caso del territorio e delle Popolazioni del Cerrado (Brasile)

La prima ipotesi di richiesta di considerare il territorio del Cerrado e le sue popolazioni come oggetto di indagine e giudizio da parte del TPP risale al 2019, in tempo pre-pandemia. Una piattaforma di organizzazioni, movimenti ed esperti ha posto in evidenza la sostanziale condizione di invisibilità, a livello nazionale ed internazionale, di una regione che copre nove stati federali del Brasile e che è abitata da una “minoranza” di 25 milioni di abitanti, tra cui popoli indigeni e comunità contadine.

Il Cerrado è una savana tropicale strategica per le sue risorse naturali, principalmente riserve di acqua e minerali, e rappresenta oggi il luogo di non-diritto anche a fronte dell’aumento drammatico e distruttivo della presenza di imprese multinazionali brasiliane e straniere. Se da un lato l’Amazzonia è divenuta centrale, per le sue problematiche, nell’immaginario della politica e dell’opinione pubblica, dall’altro lato il Cerrado continua ad essere sconosciuto e ignorato, rendendo così ‘invisibili’ i suoi popoli e impunibili le violazioni sistematiche di cui questi sono oggetto. Grazie al lavoro intenso di scambi, approfondimenti, ricerche condotte in collaborazione con le realtà richiedenti, si sono compiute tutte le fasi statutarie per la formulazione dell’atto di accusa e del programma delle udienze pubbliche, articolate nelle seguenti tappe: l’evento di presentazione dell’atto di accusa (10 settembre 2021), l’udienza sul tema dell’acqua (30/11-01/12/2021) e l’udienza sulla sovranità alimentare e la biodiversità (15-16/03/2022).

La giuria è stata composta in modo da includere non solo competenze ‘tecnicamente’ competenti sui capitoli classici dei diritti umani, dei popoli e ambientali, ma da rappresentare in modo significativo la storia e l’antropologia di un territorio così poco conosciuto: Antoni Pigrau Solé, professore di diritto internazionale dell’Università Rovira i Virgili di Tarragona, Spagna; Deborah Duprat, giurista ed ex Vice Procuratrice Generale della Repubblica del Brasile; Mons. José Valdeci della Diocesi di Brejo, Brasile; Eliane Brum, giornalista brasiliana; Enrique Leff, economista e sociologo ambientale messicano; Luiz Eloy Terena, giurista indigeno del popolo Terena e membro dell’APIB, Brasile; Rosa Acevedo Marín, sociologa venezuelana e docente presso l’Università Federale del Pará; Silvia Ribeiro, giornalista e ricercatrice uruguaiana del Gruppo ETC;  Teresa Almeida Cravo, docente portoghese di relazioni internazionali presso l’Università di Coimbra. Fa parte della giuria anche Philippe Texier, giurista francese e attuale presidente del TPP.

La conclusione del processo con la formulazione e la presentazione della sentenza e la sua ‘ri-consegna’ alle comunità (che hanno seguito da vicino, con un densissimo contributo di testimonianze e di visibilità culturale tutti i lavori) è prevista dall’8 all’11 luglio 2022 a Goiânia, Brasile.

Session on the murder of journalists

La sessione è stata richiesta dalle organizzazioni Free Press UnlimitedCommittee to Protect Journalists e Reporters Without Borders. Il lavoro di preparazione e accettazione dell’atto di accusa, e di attivazione del programma di sedute pubbliche della Sessione ha occupato uno spazio particolarmente importante per la Segreteria e la Presidenza del TPP. La rilevanza e attualità del problema non hanno bisogno di essere sottolineate e sono cresciute significativamente lungo la fase istruttoria, non solo nei paesi inclusi nell’atto di accusa e indicati come casi emblematici, che sono Messico, Sri Lanka e Siria. L’originalità dell’accusa rispetto alla dottrina e alle pratiche del diritto internazionale può essere riassunta ricordando i tassi di impunità di casi di giornalisti uccisi, sempre superiori al 90%, che sono il prodotto delle complessità dei contesti nazionali di riferimento, ma ancor di più del fatto che la ‘sistematicità’ degli eventi da considerare, non è riconducibile alla somma dei singoli episodi di omicidio-scomparsa- tortura , ecc. nell’uno o nell’altro paese. In questo senso il lungo lavoro di chiarificazione con le organizzazioni richiedenti è stato particolarmente difficile e stimolante. Dopo la Sessione di inaugurazione a L’Aia (2 novembre 2021), e le tre sessioni pubbliche dedicate ai tre scenari nazionali e realizzate, tra aprile e maggio, a Città del Messico e L’Aia, la giuria si trova attualmente nella sua fase deliberante. Essa è composta da Eduardo Bertoni (Argentina),  rappresentante dell’Ufficio Regionale per il Sudamerica dell’Istituto interamericano dei Diritti Umani; Marina Forti (Italia), giornalista e scrittrice, Gill H. Boehringer (Australia), già decano e senior research fellow onorario della School of Law, Macquarie University a Sydney; Mariarosaria Guglielmi (Italia), magistrato, vicepresidente di Medel (Magistrats Européens pour la Démocratie et Libertés); Helen Jarvis (Australia-Cambogia), Vicepresidente del TPP; Nello Rossi (Italia), Vicepresidente del TPP; Kalpana Sharma (India), giornalista indipendente, Philippe Texier (Francia), Presidente del TPP; Marcela Turati Muñoz (Messico), giornalista freelance.

La conclusione della sessione è programmata per il 19 settembre 2022 a L’Aia.

Session on “Pandemic and Authoritaniarism. The responsibility of the Bolsonaro government for systematic violations of the fundamental rights of the Brazilian peoples perpetrated through the policies imposed in the Covid-19 pandemic”. 

Contrariamente alle precedenti, questa Sessione, anch’essa giunta alla sua fase deliberante, ha avuto un iter preparatorio molto compatto, in un certo senso d’urgenza. I contenuti sono riassunti nel titolo ufficiale dato al processo (l’inglese è in questo caso la lingua ufficiale, su richiesta dei promotori, per l’obiettivo di visibilità e internazionale e di comunicazione). La richiesta è stata formulata negli ultimi mesi del 2021 dalla Commissione per la difesa dei diritti umani Dom Paulo Evaristo Arns – il quale è stato cardinale simbolo della resistenza alla dittatura militare – e da realtà rappresentative dalle forze di opposizione interne al Governo di J. Bolsonaro, come l’Articolazione dei popoli indigeni del Brasile (Apib), il Black coalition for Rights e il Public Services International (PSI).

I motivi della richiesta— molto ben dettagliati nel lungo atto di accusa—hanno messo in evidenza come le politiche e le pratiche adottate dal Governo Bolsonaro per il controllo della pandemia virale erano state programmaticamente rivolte ad accentuare le situazioni di marginalità, discriminazione, fino a politiche con caratteristiche di crimini contro l’umanità e direttamente genocidarie per intere popolazioni come quelle dei popoli originari ed afro discendenti. Le udienze pubbliche si sono tenute dal 24 al 25 maggio presso l’Aula Nobile della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di San Paolo e in forma ibrida.

La giuria ha ascoltato molti esperti e testimoni a sostegno dei diversi aspetti dell’atto di accusa, e ha avuto formalmente accesso alla documentazione prodotta negli ultimi mesi dalla Commissione del Senato brasiliano e da rapporti inviati all’attenzione della CPI sulle responsabilità di Bolsonaro nel trasformare la pandemia in una ‘sindemia’, nella quale il popolo brasiliano, specie in alcune sue componenti, era/è formalmente non il soggetto di diritti, ma il ‘nemico-l’altro’ da eliminare.

La giuria è presieduta da Luigi Ferrajoli, ed è composta da rinomati esperti nei campi del diritto, delle scienze sociali e della salute globale:

Sir Clare Roberts (Antigua e Barbuda), ex ministro della giustizia, ex presidente della Commissione interamericana per i diritti umani ed ex giudice della Corte suprema dei Caraibi orientali; Alejandro Macchia (Argentina), medico ed epidemiologo; Eugenio Raúl Zaffaroni (Argentina), ex membro della Corte suprema argentina ed ex giudice della Corte interamericana dei diritti umani – OSA; Joziléa Kaingang (Brasile), leader indigena e antropologa sociale; Kenarik Boujikian (Brasile), ex giudice d’appello della Corte di Giustizia di San Paolo; Rubens Ricupero (Brasile), ambasciatore, ex ministro, ex segretario generale della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo; Vercilene Dias Kalunga (Brasile), leader Quilombola e avvocato; Baronessa Vivien Stern (UK), membro della Camera dei Lord, specialista in diritto penale e diritti umani; ITALIA – Nicoletta Dentico (Italia), giornalista, scrittrice e consulente per la salute globale; Boaventura de Sousa Santos (Portogallo), docente senior, Facoltà di Economia, Università di Coimbra; Luís Moita (Portogallo), professore all’Università autonoma di Lisbona, specialista in studi sulla pace e sulla guerra;– Jean Ziegler (Svizzera), professore di sociologia all’Università di Ginevra, ex membro del Parlamento svizzero, ex relatore speciale del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite.

La complessità della situazione, che incrocia anche le crescenti tensioni di questo periodo pre-elettorale, e le difficoltà di un lavoro tutto da remoto, fanno prevedere che la fase deliberativa in corso non potrà concludersi prima della fine del luglio 2022.

Terza sessione sullo Sri Lanka e il popolo Tamil

Nella sua storia, il TPP ha avuto modo di interessarsi dell’etnia-popolo Tamil. In una prima Sessione svoltasi a Dublino nel 2010, all’indomani del massacro di un numero mai quantificato fino in fondo di decine-centinaia di migliaia di persone, da parte del governo militare dello Sri-Lanka, che aveva scatenato una guerra di repressione contro la minoranza Tamil con un forte supporto internazionale, diretto ed indiretto, di USA, UK, Israele, ed una posizione di chiara condanna, ma sostanziale silenzio diplomatico da parte internazionale. Una seconda Sessione del TPP condotta a Bremen nel 2013 aveva permesso ulteriormente di approfondire l’analisi dei documenti de-secretati, dei testimoni sopravvissuti ai campi, delle politiche di discriminazione sistematica, delle espulsioni, arrivando alla formulazione di un processo di genocidio, che tragicamente corrispondeva a tutte le definizioni più rigorose del crimine sancite a livello internazionale.

Una revisione della situazione del popolo Tamil — non tanto rispetto al genocidio già giudicato in modo definitivo, ma rispetto alla continuazione di comportamenti di violazione dei diritti fondamentali e della sua stessa identità nel popolo attualmente residente e nell’esilio — è stata richiesta al TPP con procedura di urgenza negli ultimi mesi del 2021 dalla comunità della diaspora Tamil sostenuta da uno spettro molto ampio di popoli ‘in esilio’, e da ONG attive internazionalmente nella difesa-affermazione dei diritti umani e dei popoli. Di particolare importanza in questa terza udienza pubblica è la denuncia della totalmente ingiustificata – e gravissima per le sue implicazioni giuridiche e pratiche – della qualifica di ‘terroristi’ da parte degli USA e dell’UK, con la connivenza passiva dell’UE. Questo ha creato una situazione di non-protezione generalizzata dei Tamil, e si configura come un crimine contro la pace, in un’area come quella del Sud-Est Asiatico che è divenuta uno degli scenari geopolitici più ‘armati’ del mondo, anche da punto di vista nucleare. Il territorio dei Tamil in Sri Lanka è in questo senso strategico per avere il porto-chiave per tutto il controllo dell’Oceano Indiano: il processo genocidario, che include anche religione, cultura, identità, è diventato ‘continuo’, ed integra, pur in altra forma, la assoluta criticità della situazione dei Rohingyas in Myanmar. La giuria, molto rappresentativa anche di popoli che condividono storie concrete che richiamano quella dei Tamil è composta da Denis Halliday, ex assistente del segretario generale delle Nazioni Unite e vincitore del Gandhi International Peace Award; Javier Giraldo Moreno, vicepresidente del Tribunale Permanente dei Popoli, teologo della liberazione e attivista per i diritti umani colombiano; Ana Esther Cecena, direttrice dell’Osservatorio Geopolitico Latinoamericano e docente presso l’Università Nazionale Autonoma del Messico; Flavia Carvalho, giudice aggiunto della Corte Suprema brasiliana; Lourdes Esther Huanca Atencio, presidente della Federazione nazionale delle contadine, artigiane, indigene, native e salariate del Perù; Feliciano Valencia, ex senatore colombiano, leader indigeno Nasa della regione del Cauca; Na’eem Jeenah, direttore esecutivo del Centro Afro-Medio Oriente in Sudafrica ed ex presidente del Movimento giovanile musulmano del Sudafrica; Liza Maza, segretaria generale della Lega Internazionale di Lotta Popolare (ILPS) ed ex membro della Camera dei Rappresentanti delle Filippine; Lonko Juana Culfunao Paillal, leader della comunità indigena Mapuche del Cile sud-occidentale e fondatrice della Commissione Etica contro la Tortura, Junaid S. Ahmad, direttore del Centre for the Study of Islam and Decoloniality di Islamabad e fondatore e presidente del Palestine Solidarity Committee, Pakistan.

Si è appena conclusa a Berlino l‘ udienza pubblica. La sentenza sarà disponibile l’inizio dell’autunno 2022.

Conclusioni

Il lavoro del TPP ha continuato anche in questo anno, pur nella assoluta limitatezza dei mezzi—ma grazie alla ricchezza del sostegno e della collaborazione attiva e volontaria di una rete veramente estesa di persone, competenze , organizzazioni— la sua storia di tribuna di visibilità e di presa di parola per tutti i ‘popoli’ che hanno ritenuto di ritrovare nello statuto, nello stile di presenza, nel rigore della metodologia un motivo di fiducia, ed un aiuto nella loro lotta.

I ‘casi’ che abbiamo presentato sono quelli che si sono potuti scegliere e seguire..

Abbiamo lungo i mesi provato a consacrare del tempo ad una riflessione sul dove si va: al di là di quel lavoro continuo di ricerca ( tanto da diventare essenziale nella nostra identità: insieme ai tanti contributi che arrivano soprattutto da chi lavora nelle giurie dei singoli casi) diventa sempre più forte l’esigenza di prendere sul serio le tante ‘provocazioni’ che i diritti dei popoli pongono alla crescente lontananza del diritto internazionale dalle loro domande e vite.

Sarebbe un momento importante. Ed un’opportunità,reciproca, di fare passi innovativi.

Grazie per l’attenzione che vorrete dare a questa breve cronaca.

Gianni Tognoni,

GUERRA E SOLIDARIETA’

Nel vento della storia”: questo il titolo dato da Ercole Ongaro, molti anni fa, al suo primo libro sulla Rete1. Il messaggio era chiaro: la Rete è immersa nel flusso della storia, ne vive pienamente le vicende e cerca di interpretarle, con una visione aperta e solidale e qualche volta – si spera – anche profetica.

Credo che, nel corso degli anni, chi ha operato nella Rete non si sia sottratto a questa sfida, sia “sporcandosi le mani” in Palestina, in Centro e Sud America, in Africa, sia affrontando dibattiti in-terni, a volte laceranti, sul se e sul come operare in quei luoghi2.

Ora, insieme a tutti coloro che credono ancora nella solidarietà, siamo di fronte ad un’ennesima sfida. Dopo molti decenni, infatti, la guerra è tornata in Europa: una guerra crudele, sporca, maledettamente novecentesca, con il suo portato di morte, odio, distruzione, ideologia e propaganda. Come tutte le guerre, essa ha radici profonde, che non ho la capacità di indagare. Non è, però, difficile capire come essa metta in discussione molte nostre intime convinzioni, approdi di decenni, che davamo ormai per scontati.

Anzitutto, l’accoglienza dei profughi. É bello (e non lo dico con ironia) vedere l’enorme mobili-tazione del popolo italiano, sia per l’accoglienza degli ucraini fuggiti dal loro Paese, sia per la raccolta e l’invio degli aiuti a chi vi è restato. La mobilitazione è stata grande, spontanea e gratuita: ha coin-volto anche moltissime persone estranee a qualsiasi precedente circuito solidale.

Resta l’amaro di constatare come si siano creati profughi di “Serie A” (gli ucraini, appunto) e di “Se-rie B” (tutti coloro che, ora come in passato, scappano altre guerre, dittature, carestie). Tale distin-zione emerge non solo dalla comune percezione del fenomeno, ma anche da numerosi provvedimenti legislativi, che hanno creato canali preferenziali per chi scappa da quella guerra3.

Con l’ulteriore paradosso che il trattamento “di favore” viene riservato solo al fuggiasco di cittadi-nanza ucraina e non a chi, residente in quel Paese, abbia altra origine.

Ciò pone molte domande: perché ciò è avvenuto? Questo ha in qualche modo cambiato la condizione degli “altri” migranti? Cosa resterà di questa mobilitazione una volta che – speriamo presto – tutto sarà finito?

Facile rispondere alla prima. Questa guerra è in territorio europeo ed ha ricevuto una copertura me-diatica come mai in passato. Il nostro coinvolgimento emotivo è enormemente superiore, rispetto a qualsiasi altro conflitto, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Non solo, è facile immedesimarsi negli ucraini: sono relativamente vicini, bianchi, cristiani, di cultura abbastanza omogenea alla nostra, minacciati da un Paese che, per tutta la guerra fredda, ci è stato additato come il maggiore spaurac-chio4. Infine, la comunità ucraina era già abbondantemente presente ed integrata in Italia, prima del conflitto.

Più difficile dire come tale situazione incida sulla condizione di tutti gli altri migranti. Sicuramente è cambiata la copertura mediatica e, quindi, la percezione del fenomeno. Malgrado gli sbarchi non siano certo terminati, non se ne parla più ed il tema ha cessato di essere strumento di lotta politica. Ciò è probabilmente un bene, perché chi continua ad interessarsi di immigrazione (e sono molti) potrà farlo in silenzio e con molte meno pressioni. Purtroppo, per usare un eufemismo, è improbabile un aumento dei fondi stanziati a sostegno di queste persone. Si corre, inoltre, il rischio di una guerra tra poveri, per ottenere aiuti, servizi e lavoro, in cui gli ucraini partono oggettivamente favoriti.

Credo, infine, che nulla resterà della mobilitazione, una volta finita la guerra. Chi già si occupa di so-lidarietà continuerà a farlo, mentre gli altri torneranno alle loro comuni occupazioni. La storia recente ci ha insegnato che siamo in grado di superare eventi traumatici a livello globale (la pandemia, ad esempio) senza che ciò, nel medio-lungo periodo, incida minimamente sul nostro stile di vita.

Dubito, inoltre, che gli strumenti emergenziali sperimentati in questi mesi possano essere estesi anche ad altre categorie di richiedenti asilo.

In conclusione, penso che la vicenda ucraina sia del tutto peculiare e non modificherà l’atteggiamento dei nostri connazionali nei confronti degli “altri” migranti. Del resto, come già ci insegna un fine in-tellettuale leghista, questa è una guerra “vera” mentre, par di capire, tutte le altre sono finte …

La situazione attuale ha poi creato ulteriori profonde crepe in quello che resta del fronte pacifista. É sufficiente disapprovare la guerra e chiedere la pace? É giusto schierarsi? In concreto: è giusto, per il nostro Paese, aiutare economicamente e militarmente l’Ucraina?

Non vi nascondo che, avendo partecipato in passato a campagne contro le produzioni armiere, queste domande mi mettono in crisi. Non ho risposte, ma non credo sia giusto sottrarsi al confronto.

Come dicevo, non ho gli strumenti, né le competenze, per analizzare la genesi del conflitto. Posso so-lo dire che chi attacca militarmente uno Stato sovrano, indipendentemente dalle ragioni che accampa, ha comunque torto.

Aggiungo che la ultracinquantennale vicinanza al popolo Palestinese ci ha insegnato che, in questi casi, l’imparzialità è pura ipocrisia. Chi non si schiera, chi resta equidistante, sostiene di fatto l’ag-gressore e lo fa indipendentemente dalle colpe che anche l’aggredito può avere.

Neppure credo nell’atteggiamento – passivo ed in fondo comodo – di chi si limita a disapprovare la guerra ed a chiedere la cessazione delle ostilità. Serve un impegno concreto.

Durante la nostra guerra di liberazione dal nazifascismo i partigiani erano armati, sparavano, uccide-vano. Pochi lo facevano volentieri, ma questo è un dato di fatto storico. Non solo: spesso i partigiani utilizzavano armi paracadutate dalle forze aeree americane.

Quanti di noi avrebbero disapprovato questo modo di agire5?

Evidentemente ci sono situazioni limite in cui l’uso della violenza e l’invio di armi sono moralmente leciti. La situazione ucraina rientra tra queste? Dobbiamo valutarla con i nostri occhi di borghesi co-modamente seduti ad una scrivania o con quelli di chi si è arruolato volontario e combatte su un fronte?

Come dicevo, non ho una risposta.

Infine, come sempre, anche questa guerra incide pesantemente sulla libera manifestazione del pensiero. Assistiamo – spesso impotenti, talvolta indifferenti – ad una censura strisciante: l’accesso ai media viene progressivamente precluso a chi non condivide il pensiero generale, che sostiene acri-ticamente la causa ucraina, o, più semplicemente, cerca di offrire un’analisi più articolata e meno “ti-fosa” sulla genesi della guerra. Un atteggiamento, tra l’altro, sintomo di debolezza: è molto più utile ed efficace confutare un argomento, che impedire che sia espresso.

Sia chiaro: alcune posizioni sono davvero cervellotiche e sembrano animate più da interessi economi-ci o di mera visibilità, che da intime convinzioni. Questa, però, non è una valida ragione per metterle a tacere.

La varietà di opinioni è comunque una ricchezza. Possiamo non condividere un’opinione, criticarla aspramente, ritenerla folle o prezzolata, ma tutto ciò non deve incidere sul diritto di manifestarla. Lo dice l’art. 21 della nostra Costituzione che, non a caso, nasce dalle macerie di un regime totalitario. Torna, se vogliamo, di attualità la frase “non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo”, spesso attribuita erroneamente a Voltaire6.

Marco Rete di Varese

1 Ercole Ongaro “Nel vento della storia”, Cittadella Editrice, 1994.

2 Sempre Ercole Ongaro descrive la frattura verificatasi all’interno della Rete nel 1972, a seguito delle azioni terroristi-che perpetrate dal gruppo palestinese “Settembre Nero” all’aeroporto di Tel Aviv e durante le Olimpiadi di Monaco (“Nel vento della Storia” cit., p. 86).

3 Vedi, ad esempio il Decreto Legge 21 marzo 2022 n° 21, che prevede, a favore dei profughi ucraini, forme di acco-glienza diffusa sul territorio per 15.000 persone, contributi al sostentamento per tre mesi e l’accesso automatico al Sistema Sanitario Nazionale, nonché il riconoscimento automatico per tutte le qualifiche sanitarie conseguite in quel Paese. Sul sito della Protezione Civile è stata, addirittura, creata una piattaforma, denominata “Offro Aiuto”, dedicata alla sola popolazione ucraina.

4 Oggi è facile dimenticare che anche l’Ucraina era parte dell’Unione Sovietica.

5 Non avendo, per fortuna, conoscenza diretta, la mia opinione si è formata nella lettura di molti racconti, più o meno romanzati, sulla resistenza. Mi viene in mente Beppe Fenoglio “Il partigiano Jonny”, Einaudi.

6 In realtà, è della scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall.

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