Cari amici 13 OTTOBRE 2022
Le conseguenze della mancanza di carburanti in Haiti si fanno sentire sempre di piu. Da un paio di settimane si parla anche di colera che si manifesta ovviamente dove la gente non ha facile accesso all’acqua potabile, quindi in bidonville, nelle prigioni e persino in ospedali. E una bomba pronta ad esplodere inesorabilmente che potrebbe causare la morte di migliaia di persone se non si riesce ad arginare la cosa in maniera decisa.
Pero continua purtroppo il blocco quasi totale delle attivita in tutto il paese da 5 settimane, da quando il governo provvisorio ha deciso di aumentare il prezzo dei carburanti anche piu del doppio. Questo ha scatenato il malcontento della popolazione che da allora e scesa per le strade e ha bloccato tutte le attivita con manifestazioni, barricate infiammate, saccheggi e attacchi a strutture statali sia qui nella capitale che in quasi tutte le citta di provincia. Le bande di criminali che controllano ormai il 70% della capitale, si fanno passare per dei Che Guevara che lottano per la liberazione del paese mentre invece approfittano della situazione per cercare di occupare indisturbati altre zone della capitale. C’e per esempio la potente banda di un certo IZO, la stessa banda che controlla l’uscita sud della capitale, la famosa Martissant, e da quasi un’anno applica tariffe su macchine, camion, bus e persino moto per riuscire a passare da quella zona e andare verso il sud del paese. Venerdi scorso, via mare con delle barche di fortuna, hanno invaso una zona a nord della capitale, a 10 Km da dove siamo noi. Hanno gia cominciato a seminare il terrore fra gli abitanti della zona e infatti centinaia di famiglie sono scappate verso il nord e altrettante sono arrivate nella nostra zona e in altre zone della capitale. La prima vittima della banda di IZO e la “minoterie”, l’unica fabbrica dove si produce farina e derivati vari nel paese, quindi le conseguenze si faranno sentire presto. Manchera pane ma anche altri derivati tipo il mais, il bulgar (diversi grani integrali insieme) e il pitimi (millet).
A quanto si dice ‘per le strade’ l’intenzione della banda di IZO e quella di occupare la zona di Canahan, bidonville che ha visto la luce dopo il terremoto del 2010, una vasta zona occupata ormai da migliaia di famiglie e da dove arrivano anche molti dei nostri bambini. E una zona strategica che permetterebbe il controllo su tutto il traffico in uscita e entrata della capitale. Ovviamente le famiglie in tutta questa vasta zona teme un’invasione di questa banda reputata crudele. La presenza della polizia in tutto questo e zero. Queste bande hanno armi che nemmeno la polizia ha.
Venerdi scorso, 8 Ottobre, il governo provvisorio ha inoltrato una richiesta ufficiale alle Nazioni Unite per un aiuto militare internazionale che possa arginare la criminalita, portare la calma necessaria per poter organizzare elezioni e cercare di far ripartire il paese. L’opposizione politica vede in questo la volonta del primo ministro provvisorio di restare al potere e per ora non appoggia la cosa, anzi, manipola l’opinione pubbica contro forze militari straniere e da Lunedi le manifestazioni hanno preso un tono violento anche contro I ‘bianchi’, americani soprattutto, e il ricordo del colera, portato dalle forze delle Nazionio Unite nel tempo del terribile terremoto del 2010, e ancora vivido nella coscenza popolare.
Quindi, clima di totale anarchia, mancanza di carburanti che blocca di fatto tutte le attivita del paese, un’economia bloccata dall’impossibilita di trasportare le mercanzie, violenza, sequestri di persona che continuano tuttora, manifestazioni violente, saccheggi e ora il ritorno del colera, stanno creando una vera e propria crisi umanitaria in un paese che e perennemente in crisi. Donne, vecchi e bambini sono I piu vulnerabili e pagano il prezzo di tutto questo in silenzio e rassegnazione.
Ovviamente con questo clima sociale che peggiora di giorno in giorno, non si parla nemmeno della riapertura delle scuole, e questo vale per tutto il paese. Anche la scuola di Jeremie e costretta a restare chiusa. Nei paesi di provincia c’e vera carestia di tutto. Riso, olio, sardine, spaghetti, aringhe e tante altre cose si trovano a prezzi esorbitanti. Per esempio il riso costava circa 480 Dollari Haitiani fino a fine Agosto e ora costa 1250 Dollari Haitiani, e non si trova facilmente perche I trasporti dalla capitale sono quasi nulli. Sono le 6h30 del mattino, e ancora buio, aspettimao di vedere cosa succede oggi. La paura recente dalle nostre parti e che questa banda di IZO decida di scendere velocemente verso questa zona. Il capo della banda locale, Chien Mechant (cane cattivo) sta gia mobilizzando le sue truppe posizionandole in punti strategici e facendo questo ha bloccato completamente la zona e nemmeno le moto possono passare da Lunedi.
In tutto queste le donne che fanno le ambulanti, camminano kilometri ogni giorno per cercare di trovare cose da vendere tipo pane, frutta, biscotti, sapone, polvere da bucato, spezie, cipolle, carote e tante altre cose per continuare a vendere e guadagnare qualcosa. Queste ambulanti sono una vera benedizione e in questo momento difficile riusciamo a comprare il necessario per dar da mangiare a tutti gli anziani e dipendenti e occupanti della Missione, me compreso. Abbiamo due pozzi d’acqua alla missione, acqua usata per tutti I bisogni pero non siamo sicuri che sia buona da bere e quindi compriamo acqua ‘trattata’ da una piccola fabbrica di ghiaccio e acqua della zona ma hanno chiuso 10 giorni fa e da allora non e facile trovarla ma per ora non e un problema.
Ovvimente penso tanto ai bambini che non possono venire a scuola e agli insegnanti che continuiamo a pagare malgrado tutto. Non e colpa loro per quello che sta succedendo e non dare lo stipendio sarebbe crudele. Sono 110 fra insegnanti e membri delle varie Direzioni. Per ora va bene cosi ma se la situazione perdura vedro cosa fare.
Tutti qui alla Missione dicono che e la prima volta che vivono una situazione del genere. Certo, I problemi in Haiti non mancano mai ma una situazione cosi grave, c’est du jamais vu, anche per gli Haitiani stessi. Sono qui dal 1994 e anche per me e di gran lunga la peggiore crisi che il paese sta vivendo. Spero comunque che una soluzione salta fuori entro breve e che si possa riprendere le attivita. Vi ringrazio di continuare a essere vicini alla missione e vi chiedo di non abbandonarci proprio in questo momento critico. Nel corso degli anni ho constatato in prima persona quanto sia reale la forza della preghiera, dei pensieri positivi, della premurosa ‘attenzione’. Spesso sono un po timido a parlare di questo ma oggi chiedo le vostre preghiere per noi tutti e spero che la mia prossima lettere non sia il solito tragico bollettino di guerra.
Grazie per tutto, Maurizio
José Nain: nel territorio mapuche invaso dalle imprese forestali, solo il dialogo risolverà il conflitto
Claudia Fanti 25/09/2022, 19:13
Tratto da: Adista Notizie n° 33 del 01/10/2022
41222 SANTIAGO DEL CILE-ADISTA. Solo qualche mese fa le forze della destra cilena – screditate e messe all’angolo dalla rivolta antigovernativa del 2019 e poi dal “plebiscito di entrata” del 2020 sulla nuova Costituzione, con il successivo avvio dei lavori della Convenzione costituzionale (per di più presieduta da una attivista mapuche e con forte partecipazione dei movimenti sociali) – non avrebbero mai potuto immaginare, neanche nei loro sogni più felici, che il cosiddetto “plebiscito di uscita” avrebbe restituito loro il protagonismo che avevano perso. Perché è chiaro che, dopo la clamorosa sconfitta dell’Apruebo – il Cile è il primo Paese della storia a respingere una proposta di Costituzione scritta da un organismo eletto dal voto popolare –, si trovano ora decisamente in una posizione di forza per negoziare la continuità del processo costituzionale.
E se un accordo sembrava ormai raggiunto attorno alla proposta di affidare il compito di elaborare una nuova Costituzione a un organismo interamente eletto dal popolo, con parità di genere, con la presenza di rappresentanti indigeni e di indipendenti e con il sostegno di un comitato di esperti, la coalizione di destra Chile Vamos lo ha di fatto sconfessato, prendendosi altro tempo per presentare le proprie proposte. Le quali sembra che includano, tra altre cose, proprio l’eliminazione di quel principio di plurinazionalità che era stato uno dei tratti innovativi della Costituzione bocciata.
Una pessima notizia per il popolo mapuche, già molto tiepido, perlomeno in una sua parte consistente, nei confronti del processo di redazione di una nuova Costituzione, in parte per l’assenza di informazioni e in parte per il peso esercitato dal movimento più radicale di lotta per l’autodeterminazione, con il suo esplicito rifiuto del processo costituente in quanto tale.
Ne abbiamo parlato con José Nain Pérez, rappresentante delle comunità mapuche della provincia di Temuco unite nell’Associazione Folilko, in lotta per il recupero del territorio, l’espulsione delle imprese forestali e la promozione di un dialogo costruttivo, in uguaglianza di condizioni, con lo Stato cileno.
Tra le ragioni della bocciatura della nuova Costituzione c’è stato il timore che la costruzione di uno Stato plurinazionale potesse provocare la divisione del Paese. Eppure, nei Paesi che hanno riconosciuto la plurinazionalità non c’è mai stato tale rischio…
La destra politica ed economica si è molto allarmata di fronte al testo della nuova Costituzione. Perché il riconoscimento dei popoli indigeni, per la prima volta dopo più di due secoli, avrebbe comportato da parte dello Stato cileno l’avvio di un processo di restituzione dei nostri diritti territoriali, economici, sociali e culturali. Esiste una miopia trasversale della classe politica cilena, la quale, ogniqualvolta si parla del debito storico contratto con i popoli originari, si mette sulla difensiva come se ciò rappresentasse una minaccia per lo stato di diritto e per le sue istituzioni. E ciò malgrado i progressi raggiunti nel mondo in materia di diritti indigeni, a livello tanto di Nazioni Unite quanto di Organizzazione degli Stati Americani.
D’altro lato, per le organizzazioni più radicali, la plurinazionalità lascia intatti gli interessi del grande capitale nel Wallmapu, senza favorire il recupero del territorio e l’autodeterminazione…
In realtà, al di là del concetto assai ampio di plurinazionalità, la proposta di Costituzione riconosceva il diritto alle terre, ai territori, alle risorse naturali, alla giustizia indigena, obbligando lo Stato a realizzare politiche di riparazione del danno. Sarebbe stato un importante passo avanti in vista di un negoziato tra Stato cileno e nazione mapuche per una possibile soluzione del conflitto. Quello che è chiaro è che il popolo mapuche e le imprese forestali non possono coesistere nello stesso territorio e che ad andarsene devono essere le imprese, le quali hanno provocato un danno irreparabile alla biodiversità e agli ecosistemi, hanno impoverito, isolato ed espulso le nostre comunità e hanno determinato la scomposizione del tessuto socio-culturale del nostro popolo.
In cosa ha sbagliato la Convenzione costituzionale?
Penso che abbia peccato di ingenuità e di esperienza politica. Perché, nella misura in cui avanzava nel riconoscimento dei diritti sociali e nell’ambito delle riforme strutturali, non si rendeva conto che la destra stava preparando un’imboscata e che occorreva rispondere con un’adeguata strategia comunicativa.
Perché non tutti i mapuche hanno votato per l’“Apruebo?”
Ci sono mapuche della linea più radicale che non sono andati a votare, nella convinzione che il conflitto possa risolversi con la ribellione. A mio avviso si tratta di un’utopia: è un’azione legittima, ma nella pratica non produce alcun progresso nella riconquista dei nostri diritti.
Ci sono poi i mapuche che si sono schierati con il Rechazo. Ma non è una sorpresa per le nostre comunità, perché si tratta di mapuche nati in città, immersi nel consumismo capitalista e diventati militanti dei partiti politici, senza alcun radicamento nella madre terra e senza legame con il proprio popolo e la propria cultura. Ragionano come cileni e basta, vittime di un colonialismo feroce che li ha condotti a rinunciare ai propri diritti come popolo. Molto diversa è invece la visione di noi che viviamo nelle comunità, che soffriamo la mancanza d’acqua e la perdita di biodiversità, che dipendiamo dalla terra e da ciò che essa produce, che parliamo la nostra lingua, pratichiamo la nostra cultura e lottiamo permanentemente per la restituzione delle nostre terre e dei nostri luoghi sacri.
Di quanto appoggio godono le organizzazioni armate come il Coordinamento delle Comunità in Conflitto Arauco-Malleco (Cam)?
Negli ultimi anni le organizzazioni mapuche hanno a poco a poco radicalizzato la loro posizione, come risposta all’incapacità dello stato cileno di assumersi la propria responsabilità politica nel conflitto: è stata la latitanza dei partiti e della classe politica in generale, con le sue espressioni discriminatorie e razziste, a indurre i giovani mapuche a prendere le armi come misura di pressione. Tuttavia questa pratica non gode di grande consenso tra le organizzazioni tradizionali della nazione mapuche, le cui autorità sono consapevoli che non solo la via armata non risolverà il conflitto, ma, al contrario, potrebbe addirittura aggravarlo, sacrificando la vita di molti giovani. Secondo le autorità mapuche, questa è una questione di carattere politico e va risolta attraverso il dialogo e con una forte volontà da parte dello Stato e delle sue istituzioni.
Qual è la migliore forma di lotta per il recupero del territorio e la conquista dell’autodeterminazione?
Credo che il popolo mapuche debba avviare un processo di riorganizzazione interna, respingere ogni forma di colonialismo e qualsiasi ingerenza esterna e avanzare verso l’unificazione politica. Solo così potrà affrontare nelle condizioni migliori un processo di dialogo franco con lo stato attorno a un piano di azione che porti al ritiro delle imprese forestali e minerarie e di altri invasori dai territori indigeni e al riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, come via per garantire la pace nel Wallmapu.
I sabotaggi contro l’industria forestale, idroelettrica, mineraria sono legittimi?
Le imprese forestali si sono introdotte nel nostro territorio con il sostegno dello Stato e della dittatura di Pinochet. La loro presenza, la presenza dello Stato cileno nel nostro territorio, sono viste dal popolo mapuche come un’azione di invasione e di occupazione militare, nel segno della violenza e del genocidio. In questo quadro il sabotaggio deve essere uno strumento deciso dalle comunità e non da piccoli gruppi armati che pretendono di sostituirsi alle nostre autorità tradizionali. Ritengo però che la lotta mapuche debba svolgersi mediante l’azione politica e la mobilitazione sociale, non mettendo a repentaglio vite umane con il ricorso alle armi. Perché, trovandoci di fronte a uno Stato militarmente potente e aggressivo, il rischio è quello di un massacro delle nostre comunità.
Come valuti il governo Boric?
La sua vittoria era stata vista come una svolta storica rispetto alla vecchia, corrotta e screditata politica dei governi precedenti, e le aspettative che aveva generato erano enormi. La sua leadership, però, sta perdendo forza e questo mette in pericolo il suo programma di governo, indebolendo la sua azione in materia di giustizia, di diritti sociali, di riconoscimento dei popoli indigeni. La pressione della destra politica ed economica gli ha impedito di portare avanti la sua agenda, soprattutto in relazione al conflitto in territorio mapuche, che è ancora sotto il controllo dell’esercito cileno nel quadro dello stato d’eccezione costituzionale.
Che succederà ora?
La polarizzazione del Paese mostra quanto sia fragile la democrazia. La vittoria del Rechazo ha rafforzato la destra conservatrice e pertanto saranno i partiti di destra a fissare l’agenda per un possibile nuovo processo costituente. In realtà è difficile capire cosa passi per la testa dei cileni, che prima hanno lottato per cambiare la Costituzione e poi, di fronte al nuovo testo, lo hanno bocciato.
È il momento che il presidente Boric prenda il toro per le corna e guidi un nuovo processo costituzionale coerente con i principi del suo programma, incorporando i popoli indigeni come soggetti di diritti.
SIGNOR
GABRIEL BORIC FONT
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DEL CILE.
PRESENTE.
Signor Presidente della Repubblica del Cile,
siamo un gruppo di comunità che appartengono all’onorevole Nazione Mapuche, dai comuni di Puerto Saavedra, Carahue, Nueva Imperial, Chol Chol, Galvarino, Traiguen, Lumaco, Lautaro, Padre las Casas, Pitrufquen, Freire, Villarrica, Curarrehue, Melipeuco e Vilcun, delle Province di Cautin e Malleco; della Regione dell’Araucania. Fin dall’antichità abbiamo abitato il cono meridionale dell’America, un vasto territorio che si estende dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico, dalla Valle del Mapocho a sud e dalla parte argentina dalla Provincia di Buenos Aires sempre a sud. Dopo un lungo processo di invasione da parte della Corona Spagnola siamo stati ridotti in un territorio dal Rio Bio Bio a sud.
Dalla nostra convergenza mapuche, abbiamo ottenuto una profonda riflessione sul nostro passato, presente e futuro come Popolo. Quindi, da questa realtà in cui siamo immersi come Nazione Originaria, in questo senso siamo riusciti ad avanzare nel rivitalizzare, valorizzare e riconoscere la guida delle nostre Autorità Tradizionali: Lonko, Machi, Kimche, Ngempin, Weupife e Werken. La partecipazione attiva del movimento Mapuche, così come i consigli e le istanze rilevanti di tipo culturale, spirituale, sociale e politico, sono le questioni che possono convalidare qualsiasi tentativo di dialogo in cui vengano affrontati argomenti relativi alla Nazione Mapuche e ai suoi diritti. Quelle e quelli di noi che vi partecipano non sono rappresentanti della Nazione Mapuche nel suo insieme, ma rappresentiamo le nostre comunità e i relativi spazi territoriali tuttavia, non per questo, cessiamo di essere meno importanti e significativi per gettare le basi per un trattamento diverso dello Stato del Cile verso la Nazione Mapuche.
La violenza è una questione traboccante, ha prevalso sul dialogo e sulla diplomazia. Questo è accaduto fondamentalmente perché lo Stato del Cile e i suoi governanti non hanno mai avuto la volontà politica di affrontare con fermezza e decisione il conflitto dal fiume Bio Bio a sud. La Repubblica del Cile ha non ha mai riconosciuto il ruolo sproporzionato e l’imposizione brutale che ha esercitato contro il popolo mapuche e le sue comunità e, di fronte a quel vuoto, ha preso la strada politica sbagliata e l’ha mutata in una questione interna, trasferendo la responsabilità alla polizia e ai tribunali cileni.
Dopo una prolungata invasione del territorio della Nazione Mapuche da parte della Corona Spagnola, vi fu una permanente resistenza all’ingresso totale degli Spagnoli nel nostro territorio mapuche, perché non fu mai perso di vista il concetto di territorio. Questione molto fortemente accentuata da uno degli uomini più visionari del nostro Popolo Mapuche, Toki Pelantraru, che mantenne una guida fortemente energica dal 1570 al 1590. Per sua convinzione ebbe sempre l’idea di tenere gli spagnoli a nord del Rio Bio Bio, un forma per mantenere l’unità della Nazione Mapuche e del suo territorio (Wallmapu). L’esercizio dell’Autodeterminazione sarebbe stato pienamente mantenuto, garantendo pace e tranquillità. Poi va segnalato il Trattato di Tapihue del 1825, concordato dalla Repubblica del Cile e dalla Nazione Mapuche, che riconosce la Libera Determinazione e l’autonomia territoriale dal Bio Bio a sud.
Consapevoli di questa teoria, riaffermiamo che in effetti il nostro popolo avrebbe potuto proiettare meglio se stesso, la sua cultura, economia e spiritualità fondate fondamentalmente sul rispetto e sulla valorizzazione della biodiversità che ci ha dato cibo, medicine e salute, per i membri delle nostre comunità mapuche. Per noi, per i nostri capi mapuche che resistettero all’invasione, c’era sempre assoluta chiarezza sul fatto che le nostre terre e il nostro territorio avevano un posto per i figli e le figlie di Ngenemapun (forza della terra) ai quali avevano affidato il compito di custodirlo e proteggerlo da qualsiasi aggressione. Quella convinta missione è ciò che muove i Mapuche a difendere la loro madre terra.
Dopo tre secoli di incontri e scontri, battaglie dopo battaglie, gli Spagnoli riuscirono a capire che non potevamo convivere all’interno dello stesso territorio, cioè dal fiume Bio Bio a sud. Era uno spazio assolutamente mapuche, quindi accettarono di creare il confine e i valichi di frontiera che delimitavano entrambe le istituzioni, sia della Corona spagnola che della Nazione Mapuche. Nell’anno 1641 (6 gennaio) fu firmato il primo Parlamento o Patto di Quilin. Francisco López de Zúñiga firma con il Lonko sulle rive del fiume Quillen (l’attuale provincia di Cautín), e il trattato di Tapihue del 1825 concluso con lo Stato del Cile e il nostro popolo Mapuche. Quest’ultimo Parlamento ha riaffermato l’impegno storico a rispettare gli accordi stabiliti, cosa che attualmente permetterà di gettare le basi e stabilire una carta di navigazione più chiara e coerente con la realtà che viviamo nel Wallmapu.
Dopo aver stabilito misure di convivenza basate sul riconoscimento di entrambi i Popoli – della Corona Spagnola e della Nazione Mapuche (circa 300 anni) – inizia in America il processo di indipendenza dei Creoli. Questi, tutelati nei loro litigi e desideri economici e politici, iniziarono a generare destabilizzazione nel nostro territorio che creò confusione e rivalità in settori sostenuti dai detti trattati (o parlamenti) da parte di coloro che volevano solo distruggere quanto stabilito. Questo portò a grandi battaglie contro gli Spagnoli e la persecuzione della Nazione Mapuche rispetto agli accordi stabiliti in clima coloniale.
All’inizio del 1800 comincia a delinearsi il concetto di Repubblica, che si conclude infine con l’istituzione del Primo Consiglio Nazionale per stabilire le linee guida e i pilastri della Repubblica del Cile. In questo senso la Corona Spagnola inizia a perdere forza, mentre nel caso del Popolo Mapuche inizia la minaccia al nostro territorio che sfocia infine in un provvedimento arbitrario e fiscale che vincola con la forza il territorio mapuche alla sua giurisdizione. In tal senso ci è stata mposta la nazionalità cilena, le sue istituzioni, le dogane e leggi, che ci mantengono spogliati dei nostri diritti più elementari.
Durante il processo di occupazione del territorio mapuche da parte dello Stato del Cile (noto come la pacificazione dell’Araucanía), molti mapuche furono assassinati, le nostre madri e sorelle violentate, i nostri anziani uomini e donne furono uccisi, bambini e bambine assassinati, essi furono rinchiusi nei Ruka (antiche abitazioni mapuche, ndt) e bruciati vivi. Secondo le cronache dei giornali della zona 1881-1906, furono divise le terre e il territorio mapuche come veri criminali e teppisti.
Per quanto riguarda l’usurpazione delle nostre terre, lo Stato del Cile ha consegnato a ogni colono arrivato dall’Europa oltre 500 ettari di terra, 60 ettari per ogni famiglia di cileni e per ogni famiglia mapuche 6,5 ettari. Tuttavia, i coloni, non soddisfatti del bottino, hanno continuato con abusi, assedi, uccisioni, inganni e espropriazioni, il tutto protetto e convalidato da tribunali corrotti e giudici del tempo e in collusione con l’oligarchia e i militari. In questo modo hanno consolidato il genocidio del nostro popolo mapuche e del loro territorio, distruggendo la ricchezza culturale e naturale dei Wallmapu, isolando le nostre comunità mapuche in piccoli pezzi di terra che chiamavano “riduzione indigena”.
Nel corso degli anni l’invasione del nostro popolo mapuche si è consolidata. Tuttavia, non abbiamo mai accettato né convalidato la vostra invasione militare come un’azione legittima, anzi, è sempre stata vista come un’azione di malafede, piena di odio e di meschini interessi che cercavano solo di impadronirsi delle ricchezze che avevamo nelle nostre terre, del desiderio mercenario che li accecava, portandoli a commettere atti disumani, descritti dagli storici dell’epoca nelle loro cronache. Se il popolo cileno sapesse cosa è realmente accaduto dal fiume Bio Bio a sud, forse potrebbe capire più a fondo la gravità della questione.
Signor Presidente, è attualmente in corso un’azione politica, legale e istituzionale da parte dello Stato che Lei rappresenta, una misura che colpisce gravemente la libertà del nostro popolo mapuche e delle sue comunità nel Wallmapu. Lo Stato di eccezione costituzionale è un provvedimento che è stato applicato anche durante l’invasione, forse con altro nome e modalità diversa. Il Suo Stato, attraverso l’esercito cileno, immobilizzò le comunità Mapuche per evitare che difendessero le loro terre e il loro territorio dai mercenari e dopo 141 anni tornano a proteggere il potere economico, i coloni invasori, i proprietari terrieri e le compagnie forestali, presumibilmente per evitare sabotaggi e attacchi.Tuttavia sono questi stessi attori che continuano a distruggere il Wallmapu.
Quello che stiamo vivendo attualmente sono momenti senza dubbio complessi e difficili, ma non impossibili da risolvere. Per noi Mapuche non sarebbe la prima volta che ci sediamo in Parlamento per riaffermare le nostre convinzioni nella storia e la nostra condizione di Nazione Originaria. Mettiamo sul tavolo in primo luogo la volontà politica, il rispetto, la storia e che ciascuno assuma le responsabilità che gli corrispondono per il ruolo che ciascuno ha in questo passaggio storico.
Pertanto, e tenuto conto di quanto sopra, dobbiamo chiarire che il Vostro Stato è arrivato nel nostro territorio senza che nessuno dei Mapuche vi invitasse. Quindi il Vostro Stato è arrivato senza il nostro aiuto per atto di malafede, poi sono arrivate le Vostre istituzioni: leggi, usi e costumi estranei alla nostra cultura. Successivamente sono stati portati investitori e uomini d’affari, lasciando il nostro territorio mapuche alla loro mercé affinché potessero svolgere le loro attività economiche nonostante i danni irreversibili alle nostre vite, alla biodiversità e a tutte le risorse naturali che preesistevano alla Vostra Repubblica.
Nel processo di invasione e colonizzazione del territorio mapuche, i coloni iniziarono l’abbattimento della foresta nativa endemica che faceva parte del mantello naturale che proteggeva la nostra cultura mapuche, ospitava la nostra conoscenza e filosofia di vita, alimentava la nostra spiritualità e proiettava la nostra antica cultura verso uno splendido futuro, che a poco a poco stava perdendo forza a causa della distruzione estranea alle nostre antiche pratiche.
Le aziende forestali, beneficiate dalla dittatura militare, furono la goccia che fece traboccare il vaso. Protette dal decreto legge 701, arrivarono a generare l’ecocidio del clima. Rasero al suolo e bruciarono gli ultimi resti di foresta nativa endemica del cono meridionale d’America provocando un’accelerazione nel processo della crisi climatica che stiamo vivendo oggi. Nessuno è stato in grado di visualizzare l’accaduto solo perché protetto dal denaro e dal potere.
In questo contesto, la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, nel suo articolo 28 afferma: “I popoli indigeni hanno diritto al risarcimento mediante mezzi che possono includere la restituzione o, quando ciò non è possibile, un indennizzo equo per le terre, i territori e le risorse che hanno tradizionalmente posseduto o occupato o utilizzato e che sono stati confiscati, presi, occupati, utilizzati o danneggiati senza il loro libero, preventivo e informato consenso”.
Nonostante tutto quanto sopra indicato e confortato dalla verità storica e assoluta, lo Stato che Lei guida e rappresenta deve intervenire in materia e generare meccanismi chiari per risolvere il conflitto, considerando che la storia Le offre un’opportunità unica. Non permetta che si perpetuino violenze e ingiustizie nei confronti del nostro Popolo e le sue comunità e non continui ad alimentare con il nostro sangue i malvagi che, per ricchezza e potere, violentarono e assassinarono i figli e le figlie mapuche.
Lei e il Suo governo dovete chiamare le vostre istituzioni all’ordine e migliorare il comportamento disumano dei vostri alleati economici, le aziende forestali, i coloni. Insieme dovete stipulare accordi di riparazione per i danni causati alla Nazione Mapuche e alle sue Comunità. Occorre favorire un accordo trasversale di carattere nazionale tra governo, opposizione, imprese forestali e proprietari di fondi. Da questa istanza politica si creano le condizioni per avviare un processo di concertazione sull’agenda di lavoro discussa e concordata insieme con la Nazione Mapuche.
Assi tematici da considerare all’interno di un processo di dialogo (o Parlamento) tra la Repubblica del Cile e la Nazione Mapuche.
TERRITORIO E TERRE MAPUCHE.
Il chiarimento storico e la riparazione del processo di usurpazione delle terre e del territorio mapuche, consapevoli dell’invasione, delle cattive pratiche e delle atrocità commesse dallo Stato del Cile, dal fiume Bio Bio a sud, dovrebbero essere indagati da una Commissione speciale accompagnata da una agenzia specializzata delle Nazioni Unite, in merito alle procedure e ai criteri giuridici utilizzati nel processo di usurpazione del Wallmapu.
Revisione di tutti i Titoli della Misercordia e dei Commissari (praticamente riserve o luoghi di confino, ndt) concessi dallo Stato del Cile alle comunità attraverso la legge di insediamento e colonizzazione delle terre mapuche, per poi riparare completamente, restituendo le terre originali a ciascuna comunità, riconoscendo altresì che gran parte delle proprietà erano state stipulate contestualmente alla concessione dei Titoli della Misericordia e Commissiariali. Per tale motivo, una notevole quantità di terreno non risulta censita a favore delle comunità mapuche.
Allo stesso modo vanno ricercati meccanismi per la restituzione di luoghi comuni e luoghi sacri appartenenti alla visione del mondo e alla spiritualità mapuche. Come aree protette, parchi nazionali, monumenti naturali, riserve naturali, da dove lo Stato cileno ha spostato ed espulso le comunità mapuche.
Quanto sopra descritto in termini di Terre, Territori e risorse naturali, è correlato a quanto stabilito nel sistema di diritto internazionale sui popoli indigeni, in particolare a quanto richiamato nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, sottolineando l’articolo 40: “I Popoli Indigeni hanno diritto a procedure eque e giuste per la composizione di conflitti e controversie con gli Stati o con altre parti, e a una pronta decisione su tali controversie, nonché un rimedio effettivo per qualsiasi violazione della loro persona e dei diritti collettivi. In tali decisioni devono essere presi in debita considerazione i costumi, le tradizioni, le norme e gli ordinamenti giuridici dei Popoli Indigeni interessati e gli standard internazionali in materia di diritti umani”.
Sulla stessa linea l’articolo 25: “I popoli indigeni hanno il diritto di mantenere e rafforzare la propria relazione spirituale con le terre, i territori, le acque, i mari costieri e le altre risorse che hanno tradizionalmente posseduto o occupato e utilizzato e di assumersi le responsabilità che a tal fine spetta loro per le generazioni a venire”.
E l’articolo 26: “I popoli indigeni hanno diritto alle terre, al territorio e alle risorse che hanno tradizionalmente posseduto, occupato o utilizzato o acquisito“.
ESERCIZIO DI LIBERA DETERMINAZIONE
Per quanto riguarda l’esercizio dell’autodeterminazione, le Nazioni Unite, attraverso la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, riconoscono che l’autodeterminazione è un diritto inalienabile e imprescrittibile e che deve essere applicato ed esercitato dai popoli indigeni nelle loro terre e territori.
Articolo 3: “I popoli indigeni hanno diritto all’autodeterminazione. In virtù di tale diritto, determinano liberamente il proprio status politico e perseguono liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale”.
Allo stesso modo l’articolo 4: “I popoli indigeni, nell’esercizio del loro diritto all’autodeterminazione, hanno il diritto all’autonomia o all’autogoverno nelle questioni relative ai loro affari interni e locali, nonché ad avere i mezzi per finanziare la loro funzioni autonome”.
In questo contesto, come meccanismo di risoluzione dei conflitti, riacquistano importanza i trattati firmati tra la Corona Spagnola e la Nazione Mapuche, durante l’epoca coloniale. Questi strumenti fungerebbero da antecedenti storici della legittimità della nostra rivendicazione.
DIRITTO ALL’ACQUA
La crisi climatica si è aggiunta a questo. Le pratiche dannose delle aziende forestali hanno generato molta perdita di biodiversità e di ecosistemi che hanno dato vita a spiritualità, salute, medicine, che sono ormai elementi praticamente perduti. Non abbiamo acqua nemmeno per il consumo umano, questo è indubbiamente un attacco alla vita mapuche, visto che le Nazioni Unite nel 2010 hanno dichiarato che il diritto all’acqua è un diritto umano, che deve essere assicurato e garantito dagli Stati del mondo alla popolazione.
Va risolta la mancanza di acqua per il consumo umano, per gli animali e per lo sviluppo produttivo delle comunità mapuche.
Sono da definire piani e programmi per la crisi climatica e la perdita di biodiversità.
DIRITTO DI PARTECIPAZIONE E CONSULTAZIONE PREVIA ED INFORMATA
In relazione a questa materia le Nazioni Unite fanno anche una menzione speciale nel loro articolo 19: “Gli Stati devono consultarsi e cooperare in buona fede con i popoli indigeni interessati, attraverso le loro istituzioni rappresentative, prima di adottare e applicare misure legislative o amministrative che li interessa al fine di ottenere il loro consenso libero, preventivo e informato”.
Interventi e investimenti nel territorio mapuche, progetti economici ad alto impatto con piena ed effettiva partecipazione attraverso una preventiva e consapevole consultazione con le comunità interessate.
PIANO DI INTERVENTO ED INVESTIMENTO PRODUTTIVO NELLE TERRE MAPUCHE
Piani e programmi di sviluppo produttivo nelle comunità mapuche devono essere promossi attraverso un processo di consultazione preventiva e informata al fine di considerare e includere i bisogni che lo stesso popolo mapuche definisce nelle sue attività economiche da sviluppare.
Incoraggiare e promuovere progetti più rispettosi dell’ambiente e della salute, per affrontare la crisi climatica e garantire la sicurezza alimentare delle famiglie mapuche.
Infine, signor Presidente, nella nostra lettera abbiamo delineato lo sfondo storico e i meccanismi che possono gettare luce su una possibile soluzione politica al conflitto che colpisce la nostra Nazione Mapuche e il suo Stato del Cile.
Le comunità mapuche che aderiscono all’opera sono convinte che attraverso la volontà politica si possa avanzare nella risoluzione del conflitto, ma con un dialogo politico, e non un dialogo di natura domestica come il piano del buon vivere promosso dal Suo governo nel territorio mapuche.
Ci auguriamo di avere un incontro (o Trawun) con Lei il prima possibile per sviluppare e avvicinare le posizioni politiche di entrambe le parti coinvolte nel conflitto. Se non avremo una risposta positiva, capiremo che il Suo governo non ha alcuna intenzione di trattare in modo diverso dai governi che lo hanno preceduto al potere, il che produrrà l’inutile prolungamento di questa difficile e grave situazione.
Cordiali saluti.
Comunità mapuche per l’autodeterminazione, l’autonomia economica, politica, sociale e culturale della regione dell’Araucanía, delle province di Malleco e Cautin, del Ngulu Mapu-Cile.
Teléfono de contactos : Werkenes (Voceros) ; Miguel Millacoi, 986459463, Ernesto Melin, 9 49911200, Mario Melillan, 9 74923758, José Nain P. 9 63348613.
Wallmapuche, Region de la Araucania, 28 de Julio de 2022.
Attività del Tribunale Permanente dei Popoli 2021- 2022
L’agenda di lavoro del Tribunale Permanente dei Popoli (TPP) è stata particolarmente intensa e ha incluso le fasi conclusive di programmi avviati nel 2020 (come la sessione sulla Colombia) e l’attivazione e lo svolgimento di sessioni che giungeranno a termine nel corso dei prossimi mesi.
Il caso Colombia
L’atto di accusa che, a norma di Statuto, attiva la procedura che porta alla realizzazione della Sessione è stato ritenuto di competenza del TPP, il quale ha attivato nel corso del 2020 la sessione con la seguente formulazione: Genocidio politico, impunità e crimini contro la pace in Colombia. In termini profondamente mutati rispetto al processo svolto dal 2006 al 2008 – che aveva documentato la violazione sistematica dei diritti del popolo colombiano e i crimini contro l’umanità commessi da uno spettro di imprese transnazionali operanti nel paese, con una attiva connivenza e responsabilità delle istituzioni governative colombiane – la nuova richiesta, sottoscritta da oltre cento movimenti, associazioni, popoli indigeni e comunità contadine e afrodiscendenti, ha argomentato l’esistenza, lungo la storia degli ultimi 70 anni, di un esplicito e continuato genocidio. Le tappe della sessione hanno previsto un evento di presentazione dell’atto di accusa il 25 gennaio 2021 e tre udienze pubbliche ricche di rapporti originali e di testimonianze individuali e collettive, e che sono state realizzate a Bucaramanga, Medellín e Bogotà dal 25 al 27 marzo 2021, nella forma ibrida di presenza fisica e virtuale della giuria. Essa è stata composta da don Raúl Vera, Andrés Barreda, Lottie Cunningham, Esperanza Martínez, Graciela Daleo, Daniel Feierstein, Luis Moita, Antoni Pigrau Solé, Mireille Fanon, Michel Forst, Philippe Texier, Luciana Castellina e Luigi Ferrajoli. La sentenza, presentata il 17 giugno 2021 a Bogotà, ha accolto pienamente l’accusa e ha motivato il giudizio di genocidio. Il procedimento e la decisione del TPP sono stati riconosciuti di particolare rilevanza non solo per i loro contenuti dottrinalmente rigorosi, innovativi e aderenti alle esigenze di rivendicazione dei diritti fondamentali delle varie componenti del popolo colombiano, ma anche per il loro contributo ai lavori della Commissione Verità che si avvia alla conclusione del suo mandato ed alla presentazione del suo rapporto atteso entro la fine di giugno 2022.
Il caso del territorio e delle Popolazioni del Cerrado (Brasile)
La prima ipotesi di richiesta di considerare il territorio del Cerrado e le sue popolazioni come oggetto di indagine e giudizio da parte del TPP risale al 2019, in tempo pre-pandemia. Una piattaforma di organizzazioni, movimenti ed esperti ha posto in evidenza la sostanziale condizione di invisibilità, a livello nazionale ed internazionale, di una regione che copre nove stati federali del Brasile e che è abitata da una “minoranza” di 25 milioni di abitanti, tra cui popoli indigeni e comunità contadine.
Il Cerrado è una savana tropicale strategica per le sue risorse naturali, principalmente riserve di acqua e minerali, e rappresenta oggi il luogo di non-diritto anche a fronte dell’aumento drammatico e distruttivo della presenza di imprese multinazionali brasiliane e straniere. Se da un lato l’Amazzonia è divenuta centrale, per le sue problematiche, nell’immaginario della politica e dell’opinione pubblica, dall’altro lato il Cerrado continua ad essere sconosciuto e ignorato, rendendo così ‘invisibili’ i suoi popoli e impunibili le violazioni sistematiche di cui questi sono oggetto. Grazie al lavoro intenso di scambi, approfondimenti, ricerche condotte in collaborazione con le realtà richiedenti, si sono compiute tutte le fasi statutarie per la formulazione dell’atto di accusa e del programma delle udienze pubbliche, articolate nelle seguenti tappe: l’evento di presentazione dell’atto di accusa (10 settembre 2021), l’udienza sul tema dell’acqua (30/11-01/12/2021) e l’udienza sulla sovranità alimentare e la biodiversità (15-16/03/2022).
La giuria è stata composta in modo da includere non solo competenze ‘tecnicamente’ competenti sui capitoli classici dei diritti umani, dei popoli e ambientali, ma da rappresentare in modo significativo la storia e l’antropologia di un territorio così poco conosciuto: Antoni Pigrau Solé, professore di diritto internazionale dell’Università Rovira i Virgili di Tarragona, Spagna; Deborah Duprat, giurista ed ex Vice Procuratrice Generale della Repubblica del Brasile; Mons. José Valdeci della Diocesi di Brejo, Brasile; Eliane Brum, giornalista brasiliana; Enrique Leff, economista e sociologo ambientale messicano; Luiz Eloy Terena, giurista indigeno del popolo Terena e membro dell’APIB, Brasile; Rosa Acevedo Marín, sociologa venezuelana e docente presso l’Università Federale del Pará; Silvia Ribeiro, giornalista e ricercatrice uruguaiana del Gruppo ETC; Teresa Almeida Cravo, docente portoghese di relazioni internazionali presso l’Università di Coimbra. Fa parte della giuria anche Philippe Texier, giurista francese e attuale presidente del TPP.
La conclusione del processo con la formulazione e la presentazione della sentenza e la sua ‘ri-consegna’ alle comunità (che hanno seguito da vicino, con un densissimo contributo di testimonianze e di visibilità culturale tutti i lavori) è prevista dall’8 all’11 luglio 2022 a Goiânia, Brasile.
Session on the murder of journalists
La sessione è stata richiesta dalle organizzazioni Free Press Unlimited, Committee to Protect Journalists e Reporters Without Borders. Il lavoro di preparazione e accettazione dell’atto di accusa, e di attivazione del programma di sedute pubbliche della Sessione ha occupato uno spazio particolarmente importante per la Segreteria e la Presidenza del TPP. La rilevanza e attualità del problema non hanno bisogno di essere sottolineate e sono cresciute significativamente lungo la fase istruttoria, non solo nei paesi inclusi nell’atto di accusa e indicati come casi emblematici, che sono Messico, Sri Lanka e Siria. L’originalità dell’accusa rispetto alla dottrina e alle pratiche del diritto internazionale può essere riassunta ricordando i tassi di impunità di casi di giornalisti uccisi, sempre superiori al 90%, che sono il prodotto delle complessità dei contesti nazionali di riferimento, ma ancor di più del fatto che la ‘sistematicità’ degli eventi da considerare, non è riconducibile alla somma dei singoli episodi di omicidio-scomparsa- tortura , ecc. nell’uno o nell’altro paese. In questo senso il lungo lavoro di chiarificazione con le organizzazioni richiedenti è stato particolarmente difficile e stimolante. Dopo la Sessione di inaugurazione a L’Aia (2 novembre 2021), e le tre sessioni pubbliche dedicate ai tre scenari nazionali e realizzate, tra aprile e maggio, a Città del Messico e L’Aia, la giuria si trova attualmente nella sua fase deliberante. Essa è composta da Eduardo Bertoni (Argentina), rappresentante dell’Ufficio Regionale per il Sudamerica dell’Istituto interamericano dei Diritti Umani; Marina Forti (Italia), giornalista e scrittrice, Gill H. Boehringer (Australia), già decano e senior research fellow onorario della School of Law, Macquarie University a Sydney; Mariarosaria Guglielmi (Italia), magistrato, vicepresidente di Medel (Magistrats Européens pour la Démocratie et Libertés); Helen Jarvis (Australia-Cambogia), Vicepresidente del TPP; Nello Rossi (Italia), Vicepresidente del TPP; Kalpana Sharma (India), giornalista indipendente, Philippe Texier (Francia), Presidente del TPP; Marcela Turati Muñoz (Messico), giornalista freelance.
La conclusione della sessione è programmata per il 19 settembre 2022 a L’Aia.
Session on “Pandemic and Authoritaniarism. The responsibility of the Bolsonaro government for systematic violations of the fundamental rights of the Brazilian peoples perpetrated through the policies imposed in the Covid-19 pandemic”.
Contrariamente alle precedenti, questa Sessione, anch’essa giunta alla sua fase deliberante, ha avuto un iter preparatorio molto compatto, in un certo senso d’urgenza. I contenuti sono riassunti nel titolo ufficiale dato al processo (l’inglese è in questo caso la lingua ufficiale, su richiesta dei promotori, per l’obiettivo di visibilità e internazionale e di comunicazione). La richiesta è stata formulata negli ultimi mesi del 2021 dalla Commissione per la difesa dei diritti umani Dom Paulo Evaristo Arns – il quale è stato cardinale simbolo della resistenza alla dittatura militare – e da realtà rappresentative dalle forze di opposizione interne al Governo di J. Bolsonaro, come l’Articolazione dei popoli indigeni del Brasile (Apib), il Black coalition for Rights e il Public Services International (PSI).
I motivi della richiesta— molto ben dettagliati nel lungo atto di accusa—hanno messo in evidenza come le politiche e le pratiche adottate dal Governo Bolsonaro per il controllo della pandemia virale erano state programmaticamente rivolte ad accentuare le situazioni di marginalità, discriminazione, fino a politiche con caratteristiche di crimini contro l’umanità e direttamente genocidarie per intere popolazioni come quelle dei popoli originari ed afro discendenti. Le udienze pubbliche si sono tenute dal 24 al 25 maggio presso l’Aula Nobile della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di San Paolo e in forma ibrida.
La giuria ha ascoltato molti esperti e testimoni a sostegno dei diversi aspetti dell’atto di accusa, e ha avuto formalmente accesso alla documentazione prodotta negli ultimi mesi dalla Commissione del Senato brasiliano e da rapporti inviati all’attenzione della CPI sulle responsabilità di Bolsonaro nel trasformare la pandemia in una ‘sindemia’, nella quale il popolo brasiliano, specie in alcune sue componenti, era/è formalmente non il soggetto di diritti, ma il ‘nemico-l’altro’ da eliminare.
La giuria è presieduta da Luigi Ferrajoli, ed è composta da rinomati esperti nei campi del diritto, delle scienze sociali e della salute globale:
Sir Clare Roberts (Antigua e Barbuda), ex ministro della giustizia, ex presidente della Commissione interamericana per i diritti umani ed ex giudice della Corte suprema dei Caraibi orientali; Alejandro Macchia (Argentina), medico ed epidemiologo; Eugenio Raúl Zaffaroni (Argentina), ex membro della Corte suprema argentina ed ex giudice della Corte interamericana dei diritti umani – OSA; Joziléa Kaingang (Brasile), leader indigena e antropologa sociale; Kenarik Boujikian (Brasile), ex giudice d’appello della Corte di Giustizia di San Paolo; Rubens Ricupero (Brasile), ambasciatore, ex ministro, ex segretario generale della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo; Vercilene Dias Kalunga (Brasile), leader Quilombola e avvocato; Baronessa Vivien Stern (UK), membro della Camera dei Lord, specialista in diritto penale e diritti umani; ITALIA – Nicoletta Dentico (Italia), giornalista, scrittrice e consulente per la salute globale; Boaventura de Sousa Santos (Portogallo), docente senior, Facoltà di Economia, Università di Coimbra; Luís Moita (Portogallo), professore all’Università autonoma di Lisbona, specialista in studi sulla pace e sulla guerra;– Jean Ziegler (Svizzera), professore di sociologia all’Università di Ginevra, ex membro del Parlamento svizzero, ex relatore speciale del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite.
La complessità della situazione, che incrocia anche le crescenti tensioni di questo periodo pre-elettorale, e le difficoltà di un lavoro tutto da remoto, fanno prevedere che la fase deliberativa in corso non potrà concludersi prima della fine del luglio 2022.
Terza sessione sullo Sri Lanka e il popolo Tamil
Nella sua storia, il TPP ha avuto modo di interessarsi dell’etnia-popolo Tamil. In una prima Sessione svoltasi a Dublino nel 2010, all’indomani del massacro di un numero mai quantificato fino in fondo di decine-centinaia di migliaia di persone, da parte del governo militare dello Sri-Lanka, che aveva scatenato una guerra di repressione contro la minoranza Tamil con un forte supporto internazionale, diretto ed indiretto, di USA, UK, Israele, ed una posizione di chiara condanna, ma sostanziale silenzio diplomatico da parte internazionale. Una seconda Sessione del TPP condotta a Bremen nel 2013 aveva permesso ulteriormente di approfondire l’analisi dei documenti de-secretati, dei testimoni sopravvissuti ai campi, delle politiche di discriminazione sistematica, delle espulsioni, arrivando alla formulazione di un processo di genocidio, che tragicamente corrispondeva a tutte le definizioni più rigorose del crimine sancite a livello internazionale.
Una revisione della situazione del popolo Tamil — non tanto rispetto al genocidio già giudicato in modo definitivo, ma rispetto alla continuazione di comportamenti di violazione dei diritti fondamentali e della sua stessa identità nel popolo attualmente residente e nell’esilio — è stata richiesta al TPP con procedura di urgenza negli ultimi mesi del 2021 dalla comunità della diaspora Tamil sostenuta da uno spettro molto ampio di popoli ‘in esilio’, e da ONG attive internazionalmente nella difesa-affermazione dei diritti umani e dei popoli. Di particolare importanza in questa terza udienza pubblica è la denuncia della totalmente ingiustificata – e gravissima per le sue implicazioni giuridiche e pratiche – della qualifica di ‘terroristi’ da parte degli USA e dell’UK, con la connivenza passiva dell’UE. Questo ha creato una situazione di non-protezione generalizzata dei Tamil, e si configura come un crimine contro la pace, in un’area come quella del Sud-Est Asiatico che è divenuta uno degli scenari geopolitici più ‘armati’ del mondo, anche da punto di vista nucleare. Il territorio dei Tamil in Sri Lanka è in questo senso strategico per avere il porto-chiave per tutto il controllo dell’Oceano Indiano: il processo genocidario, che include anche religione, cultura, identità, è diventato ‘continuo’, ed integra, pur in altra forma, la assoluta criticità della situazione dei Rohingyas in Myanmar. La giuria, molto rappresentativa anche di popoli che condividono storie concrete che richiamano quella dei Tamil è composta da Denis Halliday, ex assistente del segretario generale delle Nazioni Unite e vincitore del Gandhi International Peace Award; Javier Giraldo Moreno, vicepresidente del Tribunale Permanente dei Popoli, teologo della liberazione e attivista per i diritti umani colombiano; Ana Esther Cecena, direttrice dell’Osservatorio Geopolitico Latinoamericano e docente presso l’Università Nazionale Autonoma del Messico; Flavia Carvalho, giudice aggiunto della Corte Suprema brasiliana; Lourdes Esther Huanca Atencio, presidente della Federazione nazionale delle contadine, artigiane, indigene, native e salariate del Perù; Feliciano Valencia, ex senatore colombiano, leader indigeno Nasa della regione del Cauca; Na’eem Jeenah, direttore esecutivo del Centro Afro-Medio Oriente in Sudafrica ed ex presidente del Movimento giovanile musulmano del Sudafrica; Liza Maza, segretaria generale della Lega Internazionale di Lotta Popolare (ILPS) ed ex membro della Camera dei Rappresentanti delle Filippine; Lonko Juana Culfunao Paillal, leader della comunità indigena Mapuche del Cile sud-occidentale e fondatrice della Commissione Etica contro la Tortura, e Junaid S. Ahmad, direttore del Centre for the Study of Islam and Decoloniality di Islamabad e fondatore e presidente del Palestine Solidarity Committee, Pakistan.
Si è appena conclusa a Berlino l‘ udienza pubblica. La sentenza sarà disponibile l’inizio dell’autunno 2022.
Conclusioni
Il lavoro del TPP ha continuato anche in questo anno, pur nella assoluta limitatezza dei mezzi—ma grazie alla ricchezza del sostegno e della collaborazione attiva e volontaria di una rete veramente estesa di persone, competenze , organizzazioni— la sua storia di tribuna di visibilità e di presa di parola per tutti i ‘popoli’ che hanno ritenuto di ritrovare nello statuto, nello stile di presenza, nel rigore della metodologia un motivo di fiducia, ed un aiuto nella loro lotta.
I ‘casi’ che abbiamo presentato sono quelli che si sono potuti scegliere e seguire..
Abbiamo lungo i mesi provato a consacrare del tempo ad una riflessione sul dove si va: al di là di quel lavoro continuo di ricerca ( tanto da diventare essenziale nella nostra identità: insieme ai tanti contributi che arrivano soprattutto da chi lavora nelle giurie dei singoli casi) diventa sempre più forte l’esigenza di prendere sul serio le tante ‘provocazioni’ che i diritti dei popoli pongono alla crescente lontananza del diritto internazionale dalle loro domande e vite.
Sarebbe un momento importante. Ed un’opportunità,reciproca, di fare passi innovativi.
Grazie per l’attenzione che vorrete dare a questa breve cronaca.
Gianni Tognoni,
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