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José Nain: nel territorio mapuche invaso dalle imprese forestali, solo il dialogo risolverà il conflitto

Claudia Fanti 25/09/2022, 19:13

Tratto da: Adista Notizie n° 33 del 01/10/2022

41222 SANTIAGO DEL CILE-ADISTA. Solo qualche mese fa le forze della destra cilena – screditate e messe all’angolo dalla rivolta antigovernativa del 2019 e poi dal “plebiscito di entrata” del 2020 sulla nuova Costituzione, con il successivo avvio dei lavori della Convenzione costituzionale (per di più presieduta da una attivista mapuche e con forte partecipazione dei movimenti sociali) – non avrebbero mai potuto immaginare, neanche nei loro sogni più felici, che il cosiddetto “plebiscito di uscita” avrebbe restituito loro il protagonismo che avevano perso. Perché è chiaro che, dopo la clamorosa sconfitta dell’Apruebo – il Cile è il primo Paese della storia a respingere una proposta di Costituzione scritta da un organismo eletto dal voto popolare –, si trovano ora decisamente in una posizione di forza per negoziare la continuità del processo costituzionale.

E se un accordo sembrava ormai raggiunto attorno alla proposta di affidare il compito di elaborare una nuova Costituzione a un organismo interamente eletto dal popolo, con parità di genere, con la presenza di rappresentanti indigeni e di indipendenti e con il sostegno di un comitato di esperti, la coalizione di destra Chile Vamos lo ha di fatto sconfessato, prendendosi altro tempo per presentare le proprie proposte. Le quali sembra che includano, tra altre cose, proprio l’eliminazione di quel principio di plurinazionalità che era stato uno dei tratti innovativi della Costituzione bocciata.

Una pessima notizia per il popolo mapuche, già molto tiepido, perlomeno in una sua parte consistente, nei confronti del processo di redazione di una nuova Costituzione, in parte per l’assenza di informazioni e in parte per il peso esercitato dal movimento più radicale di lotta per l’autodeterminazione, con il suo esplicito rifiuto del processo costituente in quanto tale.

Ne abbiamo parlato con José Nain Pérez, rappresentante delle comunità mapuche della provincia di Temuco unite nell’Associazione Folilko, in lotta per il recupero del territorio, l’espulsione delle imprese forestali e la promozione di un dialogo costruttivo, in uguaglianza di condizioni, con lo Stato cileno. 

Tra le ragioni della bocciatura della nuova Costituzione c’è stato il timore che la costruzione di uno Stato plurinazionale potesse provocare la divisione del Paese. Eppure, nei Paesi che hanno riconosciuto la plurinazionalità non c’è mai stato tale rischio…

La destra politica ed economica si è molto allarmata di fronte al testo della nuova Costituzione. Perché il riconoscimento dei popoli indigeni, per la prima volta dopo più di due secoli, avrebbe comportato da parte dello Stato cileno l’avvio di un processo di restituzione dei nostri diritti territoriali, economici, sociali e culturali. Esiste una miopia trasversale della classe politica cilena, la quale, ogniqualvolta si parla del debito storico contratto con i popoli originari, si mette sulla difensiva come se ciò rappresentasse una minaccia per lo stato di diritto e per le sue istituzioni. E ciò malgrado i progressi raggiunti nel mondo in materia di diritti indigeni, a livello tanto di Nazioni Unite quanto di Organizzazione degli Stati Americani.

D’altro lato, per le organizzazioni più radicali, la plurinazionalità lascia intatti gli interessi del grande capitale nel Wallmapu, senza favorire il recupero del territorio e l’autodeterminazione…

In realtà, al di là del concetto assai ampio di plurinazionalità, la proposta di Costituzione riconosceva il diritto alle terre, ai territori, alle risorse naturali, alla giustizia indigena, obbligando lo Stato a realizzare politiche di riparazione del danno. Sarebbe stato un importante passo avanti in vista di un negoziato tra Stato cileno e nazione mapuche per una possibile soluzione del conflitto. Quello che è chiaro è che il popolo mapuche e le imprese forestali non possono coesistere nello stesso territorio e che ad andarsene devono essere le imprese, le quali hanno provocato un danno irreparabile alla biodiversità e agli ecosistemi, hanno impoverito, isolato ed espulso le nostre comunità e hanno determinato la scomposizione del tessuto socio-culturale del nostro popolo.

In cosa ha sbagliato la Convenzione costituzionale?

Penso che abbia peccato di ingenuità e di esperienza politica. Perché, nella misura in cui avanzava nel riconoscimento dei diritti sociali e nell’ambito delle riforme strutturali, non si rendeva conto che la destra stava preparando un’imboscata e che occorreva rispondere con un’adeguata strategia comunicativa.

Perché non tutti i mapuche hanno votato per l’“Apruebo?”

Ci sono mapuche della linea più radicale che non sono andati a votare, nella convinzione che il conflitto possa risolversi con la ribellione. A mio avviso si tratta di un’utopia: è un’azione legittima, ma nella pratica non produce alcun progresso nella riconquista dei nostri diritti.

Ci sono poi i mapuche che si sono schierati con il Rechazo. Ma non è una sorpresa per le nostre comunità, perché si tratta di mapuche nati in città, immersi nel consumismo capitalista e diventati militanti dei partiti politici, senza alcun radicamento nella madre terra e senza legame con il proprio popolo e la propria cultura. Ragionano come cileni e basta, vittime di un colonialismo feroce che li ha condotti a rinunciare ai propri diritti come popolo. Molto diversa è invece la visione di noi che viviamo nelle comunità, che soffriamo la mancanza d’acqua e la perdita di biodiversità, che dipendiamo dalla terra e da ciò che essa produce, che parliamo la nostra lingua, pratichiamo la nostra cultura e lottiamo permanentemente per la restituzione delle nostre terre e dei nostri luoghi sacri.

Di quanto appoggio godono le organizzazioni armate come il Coordinamento delle Comunità in Conflitto Arauco-Malleco (Cam)?

Negli ultimi anni le organizzazioni mapuche hanno a poco a poco radicalizzato la loro posizione, come risposta all’incapacità dello stato cileno di assumersi la propria responsabilità politica nel conflitto: è stata la latitanza dei partiti e della classe politica in generale, con le sue espressioni discriminatorie e razziste, a indurre i giovani mapuche a prendere le armi come misura di pressione. Tuttavia questa pratica non gode di grande consenso tra le organizzazioni tradizionali della nazione mapuche, le cui autorità sono consapevoli che non solo la via armata non risolverà il conflitto, ma, al contrario, potrebbe addirittura aggravarlo, sacrificando la vita di molti giovani. Secondo le autorità mapuche, questa è una questione di carattere politico e va risolta attraverso il dialogo e con una forte volontà da parte dello Stato e delle sue istituzioni.

Qual è la migliore forma di lotta per il recupero del territorio e la conquista dell’autodeterminazione?

Credo che il popolo mapuche debba avviare un processo di riorganizzazione interna, respingere ogni forma di colonialismo e qualsiasi ingerenza esterna e avanzare verso l’unificazione politica. Solo così potrà affrontare nelle condizioni migliori un processo di dialogo franco con lo stato attorno a un piano di azione che porti al ritiro delle imprese forestali e minerarie e di altri invasori dai territori indigeni e al riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, come via per garantire la pace nel Wallmapu.

I sabotaggi contro l’industria forestale, idroelettrica, mineraria sono legittimi?

Le imprese forestali si sono introdotte nel nostro territorio con il sostegno dello Stato e della dittatura di Pinochet. La loro presenza, la presenza dello Stato cileno nel nostro territorio, sono viste dal popolo mapuche come un’azione di invasione e di occupazione militare, nel segno della violenza e del genocidio. In questo quadro il sabotaggio deve essere uno strumento deciso dalle comunità e non da piccoli gruppi armati che pretendono di sostituirsi alle nostre autorità tradizionali. Ritengo però che la lotta mapuche debba svolgersi mediante l’azione politica e la mobilitazione sociale, non mettendo a repentaglio vite umane con il ricorso alle armi. Perché, trovandoci di fronte a uno Stato militarmente potente e aggressivo, il rischio è quello di un massacro delle nostre comunità.

Come valuti il governo Boric?

La sua vittoria era stata vista come una svolta storica rispetto alla vecchia, corrotta e screditata politica dei governi precedenti, e le aspettative che aveva generato erano enormi. La sua leadership, però, sta perdendo forza e questo mette in pericolo il suo programma di governo, indebolendo la sua azione in materia di giustizia, di diritti sociali, di riconoscimento dei popoli indigeni. La pressione della destra politica ed economica gli ha impedito di portare avanti la sua agenda, soprattutto in relazione al conflitto in territorio mapuche, che è ancora sotto il controllo dell’esercito cileno nel quadro dello stato d’eccezione costituzionale.

Che succederà ora?

La polarizzazione del Paese mostra quanto sia fragile la democrazia. La vittoria del Rechazo ha rafforzato la destra conservatrice e pertanto saranno i partiti di destra a fissare l’agenda per un possibile nuovo processo costituente. In realtà è difficile capire cosa passi per la testa dei cileni, che prima hanno lottato per cambiare la Costituzione e poi, di fronte al nuovo testo, lo hanno bocciato.

È il momento che il presidente Boric prenda il toro per le corna e guidi un nuovo processo costituzionale coerente con i principi del suo programma, incorporando i popoli indigeni come soggetti di diritti.

 

SIGNOR

GABRIEL BORIC FONT

PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DEL CILE.

PRESENTE.

Signor Presidente della Repubblica del Cile,

siamo un gruppo di comunità che appartengono all’onorevole Nazione Mapuche, dai comuni di Puerto Saavedra, Carahue, Nueva Imperial, Chol Chol, Galvarino, Traiguen, Lumaco, Lautaro, Padre las Casas, Pitrufquen, Freire, Villarrica, Curarrehue, Melipeuco e Vilcun, delle Province di Cautin e Malleco; della Regione dell’Araucania. Fin dall’antichità abbiamo abitato il cono meridionale dell’America, un vasto territorio che si estende dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico, dalla Valle del Mapocho a sud e dalla parte argentina dalla Provincia di Buenos Aires sempre a sud. Dopo un lungo processo di invasione da parte della Corona Spagnola siamo stati ridotti in un territorio dal Rio Bio Bio a sud.

Dalla nostra convergenza mapuche, abbiamo ottenuto una profonda riflessione sul nostro passato, presente e futuro come Popolo. Quindi, da questa realtà in cui siamo immersi come Nazione Originaria, in questo senso siamo riusciti ad avanzare nel rivitalizzare, valorizzare e riconoscere la guida delle nostre Autorità Tradizionali: Lonko, Machi, Kimche, Ngempin, Weupife e Werken. La partecipazione attiva del movimento Mapuche, così come i consigli e le istanze rilevanti di tipo culturale, spirituale, sociale e politico, sono le questioni che possono convalidare qualsiasi tentativo di dialogo in cui vengano affrontati argomenti relativi alla Nazione Mapuche e ai suoi diritti. Quelle e quelli di noi che vi partecipano non sono rappresentanti della Nazione Mapuche nel suo insieme, ma rappresentiamo le nostre comunità e i relativi spazi territoriali tuttavia, non per questo, cessiamo di essere meno importanti e significativi per gettare le basi per un trattamento diverso dello Stato del Cile verso la Nazione Mapuche.

La violenza è una questione traboccante, ha prevalso sul dialogo e sulla diplomazia. Questo è accaduto fondamentalmente perché lo Stato del Cile e i suoi governanti non hanno mai avuto la volontà politica di affrontare con fermezza e decisione il conflitto dal fiume Bio Bio a sud. La Repubblica del Cile ha non ha mai riconosciuto il ruolo sproporzionato e l’imposizione brutale che ha esercitato contro il popolo mapuche e le sue comunità e, di fronte a quel vuoto, ha preso la strada politica sbagliata e l’ha mutata in una questione interna, trasferendo la responsabilità alla polizia e ai tribunali cileni.

Dopo una prolungata invasione del territorio della Nazione Mapuche da parte della Corona Spagnola, vi fu una permanente resistenza all’ingresso totale degli Spagnoli nel nostro territorio mapuche, perché non fu mai perso di vista il concetto di territorio. Questione molto fortemente accentuata da uno degli uomini più visionari del nostro Popolo Mapuche, Toki Pelantraru, che mantenne una guida fortemente energica dal 1570 al 1590. Per sua convinzione ebbe sempre l’idea di tenere gli spagnoli a nord del Rio Bio Bio, un forma per mantenere l’unità della Nazione Mapuche e del suo territorio (Wallmapu). L’esercizio dell’Autodeterminazione sarebbe stato pienamente mantenuto, garantendo pace e tranquillità. Poi va segnalato il Trattato di Tapihue del 1825, concordato dalla Repubblica del Cile e dalla Nazione Mapuche, che riconosce la Libera Determinazione e l’autonomia territoriale dal Bio Bio a sud.

Consapevoli di questa teoria, riaffermiamo che in effetti il ​​nostro popolo avrebbe potuto proiettare meglio se stesso, la sua cultura, economia e spiritualità fondate fondamentalmente sul rispetto e sulla valorizzazione della biodiversità che ci ha dato cibo, medicine e salute, per i membri delle nostre comunità mapuche. Per noi, per i nostri capi mapuche che resistettero all’invasione, c’era sempre assoluta chiarezza sul fatto che le nostre terre e il nostro territorio avevano un posto per i figli e le figlie di Ngenemapun (forza della terra) ai quali avevano affidato il compito di custodirlo e proteggerlo da qualsiasi aggressione. Quella convinta missione è ciò che muove i Mapuche a difendere la loro madre terra.

Dopo tre secoli di incontri e scontri, battaglie dopo battaglie, gli Spagnoli riuscirono a capire che non potevamo convivere all’interno dello stesso territorio, cioè dal fiume Bio Bio a sud. Era uno spazio assolutamente mapuche, quindi accettarono di creare il confine e i valichi di frontiera che delimitavano entrambe le istituzioni, sia della Corona spagnola che della Nazione Mapuche. Nell’anno 1641 (6 gennaio) fu firmato il primo Parlamento o Patto di Quilin. Francisco López de Zúñiga firma con il Lonko sulle rive del fiume Quillen (l’attuale provincia di Cautín), e il trattato di Tapihue del 1825 concluso con lo Stato del Cile e il nostro popolo Mapuche. Quest’ultimo Parlamento ha riaffermato l’impegno storico a rispettare gli accordi stabiliti, cosa che attualmente permetterà di gettare le basi e stabilire una carta di navigazione più chiara e coerente con la realtà che viviamo nel Wallmapu.

Dopo aver stabilito misure di convivenza basate sul riconoscimento di entrambi i Popoli – della Corona Spagnola e della Nazione Mapuche (circa 300 anni) – inizia in America il processo di indipendenza dei Creoli. Questi, tutelati nei loro litigi e desideri economici e politici, iniziarono a generare destabilizzazione nel nostro territorio che creò confusione e rivalità in settori sostenuti dai detti trattati (o parlamenti) da parte di coloro che volevano solo distruggere quanto stabilito. Questo portò a grandi battaglie contro gli Spagnoli e la persecuzione della Nazione Mapuche rispetto agli accordi stabiliti in clima coloniale.

All’inizio del 1800 comincia a delinearsi il concetto di Repubblica, che si conclude infine con l’istituzione del Primo Consiglio Nazionale per stabilire le linee guida e i pilastri della Repubblica del Cile. In questo senso la Corona Spagnola inizia a perdere forza, mentre nel caso del Popolo Mapuche inizia la minaccia al nostro territorio che sfocia infine in un provvedimento arbitrario e fiscale che vincola con la forza il territorio mapuche alla sua giurisdizione. In tal senso ci è stata mposta la nazionalità cilena, le sue istituzioni, le dogane e leggi, che ci mantengono spogliati dei nostri diritti più elementari.

Durante il processo di occupazione del territorio mapuche da parte dello Stato del Cile (noto come la pacificazione dell’Araucanía), molti mapuche furono assassinati, le nostre madri e sorelle violentate, i nostri anziani uomini e donne furono uccisi, bambini e bambine assassinati, essi furono rinchiusi nei Ruka (antiche abitazioni mapuche, ndt) e bruciati vivi. Secondo le cronache dei giornali della zona 1881-1906, furono divise le terre e il territorio mapuche come veri criminali e teppisti.

Per quanto riguarda l’usurpazione delle nostre terre, lo Stato del Cile ha consegnato a ogni colono arrivato dall’Europa oltre 500 ettari di terra, 60 ettari per ogni famiglia di cileni e per ogni famiglia mapuche 6,5 ettari. Tuttavia, i coloni, non soddisfatti del bottino, hanno continuato con abusi, assedi, uccisioni, inganni e espropriazioni, il tutto protetto e convalidato da tribunali corrotti e giudici del tempo e in collusione con l’oligarchia e i militari. In questo modo hanno consolidato il genocidio del nostro popolo mapuche e del loro territorio, distruggendo la ricchezza culturale e naturale dei Wallmapu, isolando le nostre comunità mapuche in piccoli pezzi di terra che chiamavano “riduzione indigena”.

Nel corso degli anni l’invasione del nostro popolo mapuche si è consolidata. Tuttavia, non abbiamo mai accettato né convalidato la vostra invasione militare come un’azione legittima, anzi, è sempre stata vista come un’azione di malafede, piena di odio e di meschini interessi che cercavano solo di impadronirsi delle ricchezze che avevamo nelle nostre terre, del desiderio mercenario che li accecava, portandoli a commettere atti disumani, descritti dagli storici dell’epoca nelle loro cronache. Se il popolo cileno sapesse cosa è realmente accaduto dal fiume Bio Bio a sud, forse potrebbe capire più a fondo la gravità della questione.

Signor Presidente, è attualmente in corso un’azione politica, legale e istituzionale da parte dello Stato che Lei rappresenta, una misura che colpisce gravemente la libertà del nostro popolo mapuche e delle sue comunità nel Wallmapu. Lo Stato di eccezione costituzionale è un provvedimento che è stato applicato anche durante l’invasione, forse con altro nome e modalità diversa. Il Suo Stato, attraverso l’esercito cileno, immobilizzò le comunità Mapuche per evitare che difendessero le loro terre e il loro territorio dai mercenari e dopo 141 anni tornano a proteggere il potere economico, i coloni invasori, i proprietari terrieri e le compagnie forestali, presumibilmente per evitare sabotaggi e attacchi.Tuttavia sono questi stessi attori che continuano a distruggere il Wallmapu.

Quello che stiamo vivendo attualmente sono momenti senza dubbio complessi e difficili, ma non impossibili da risolvere. Per noi Mapuche non sarebbe la prima volta che ci sediamo in Parlamento per riaffermare le nostre convinzioni nella storia e la nostra condizione di Nazione Originaria. Mettiamo sul tavolo in primo luogo la volontà politica, il rispetto, la storia e che ciascuno assuma le responsabilità che gli corrispondono per il ruolo che ciascuno ha in questo passaggio storico.

Pertanto, e tenuto conto di quanto sopra, dobbiamo chiarire che il Vostro Stato è arrivato nel nostro territorio senza che nessuno dei Mapuche vi invitasse. Quindi il Vostro Stato è arrivato senza il nostro aiuto per atto di malafede, poi sono arrivate le Vostre istituzioni: leggi, usi e costumi estranei alla nostra cultura. Successivamente sono stati portati investitori e uomini d’affari, lasciando il nostro territorio mapuche alla loro mercé affinché potessero svolgere le loro attività economiche nonostante i danni irreversibili alle nostre vite, alla biodiversità e a tutte le risorse naturali che preesistevano alla Vostra Repubblica.

Nel processo di invasione e colonizzazione del territorio mapuche, i coloni iniziarono l’abbattimento della foresta nativa endemica che faceva parte del mantello naturale che proteggeva la nostra cultura mapuche, ospitava la nostra conoscenza e filosofia di vita, alimentava la nostra spiritualità e proiettava la nostra antica cultura verso uno splendido futuro, che a poco a poco stava perdendo forza a causa della distruzione estranea alle nostre antiche pratiche.

Le aziende forestali, beneficiate dalla dittatura militare, furono la goccia che fece traboccare il vaso. Protette dal decreto legge 701, arrivarono a generare l’ecocidio del clima. Rasero al suolo e bruciarono gli ultimi resti di foresta nativa endemica del cono meridionale d’America provocando un’accelerazione nel processo della crisi climatica che stiamo vivendo oggi. Nessuno è stato in grado di visualizzare l’accaduto solo perché protetto dal denaro e dal potere.

In questo contesto, la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, nel suo articolo 28 afferma: “I popoli indigeni hanno diritto al risarcimento mediante mezzi che possono includere la restituzione o, quando ciò non è possibile, un indennizzo equo per le terre, i territori e le risorse che hanno tradizionalmente posseduto o occupato o utilizzato e che sono stati confiscati, presi, occupati, utilizzati o danneggiati senza il loro libero, preventivo e informato consenso”.

Nonostante tutto quanto sopra indicato e confortato dalla verità storica e assoluta, lo Stato che Lei guida e rappresenta deve intervenire in materia e generare meccanismi chiari per risolvere il conflitto, considerando che la storia Le offre un’opportunità unica. Non permetta che si perpetuino violenze e ingiustizie nei confronti del nostro Popolo e le sue comunità e non continui ad alimentare con il nostro sangue i malvagi che, per ricchezza e potere, violentarono e assassinarono i figli e le figlie mapuche.

Lei e il Suo governo dovete chiamare le vostre istituzioni all’ordine e migliorare il comportamento disumano dei vostri alleati economici, le aziende forestali, i coloni. Insieme dovete stipulare accordi di riparazione per i danni causati alla Nazione Mapuche e alle sue Comunità. Occorre favorire un accordo trasversale di carattere nazionale tra governo, opposizione, imprese forestali e proprietari di fondi. Da questa istanza politica si creano le condizioni per avviare un processo di concertazione sull’agenda di lavoro discussa e concordata insieme con la Nazione Mapuche.

Assi tematici da considerare all’interno di un processo di dialogo (o Parlamento) tra la Repubblica del Cile e la Nazione Mapuche.

TERRITORIO E TERRE MAPUCHE.

Il chiarimento storico e la riparazione del processo di usurpazione delle terre e del territorio mapuche, consapevoli dell’invasione, delle cattive pratiche e delle atrocità commesse dallo Stato del Cile, dal fiume Bio Bio a sud, dovrebbero essere indagati da una Commissione speciale accompagnata da una agenzia specializzata delle Nazioni Unite, in merito alle procedure e ai criteri giuridici utilizzati nel processo di usurpazione del Wallmapu.

Revisione di tutti i Titoli della Misercordia e dei Commissari (praticamente riserve o luoghi di confino, ndt) concessi dallo Stato del Cile alle comunità attraverso la legge di insediamento e colonizzazione delle terre mapuche, per poi riparare completamente, restituendo le terre originali a ciascuna comunità, riconoscendo altresì che gran parte delle proprietà erano state stipulate contestualmente alla concessione dei Titoli della Misericordia e Commissiariali. Per tale motivo, una notevole quantità di terreno non risulta censita a favore delle comunità mapuche.

Allo stesso modo vanno ricercati meccanismi per la restituzione di luoghi comuni e luoghi sacri appartenenti alla visione del mondo e alla spiritualità mapuche. Come aree protette, parchi nazionali, monumenti naturali, riserve naturali, da dove lo Stato cileno ha spostato ed espulso le comunità mapuche.

Quanto sopra descritto in termini di Terre, Territori e risorse naturali, è correlato a quanto stabilito nel sistema di diritto internazionale sui popoli indigeni, in particolare a quanto richiamato nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, sottolineando l’articolo 40: “I Popoli Indigeni hanno diritto a procedure eque e giuste per la composizione di conflitti e controversie con gli Stati o con altre parti, e a una pronta decisione su tali controversie, nonché un rimedio effettivo per qualsiasi violazione della loro persona e dei diritti collettivi. In tali decisioni devono essere presi in debita considerazione i costumi, le tradizioni, le norme e gli ordinamenti giuridici dei Popoli Indigeni interessati e gli standard internazionali in materia di diritti umani”.

Sulla stessa linea l’articolo 25: “I popoli indigeni hanno il diritto di mantenere e rafforzare la propria relazione spirituale con le terre, i territori, le acque, i mari costieri e le altre risorse che hanno tradizionalmente posseduto o occupato e utilizzato e di assumersi le responsabilità che a tal fine spetta loro per le generazioni a venire”.

E l’articolo 26: “I popoli indigeni hanno diritto alle terre, al territorio e alle risorse che hanno tradizionalmente posseduto, occupato o utilizzato o acquisito“.

ESERCIZIO DI LIBERA DETERMINAZIONE

Per quanto riguarda l’esercizio dell’autodeterminazione, le Nazioni Unite, attraverso la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, riconoscono che l’autodeterminazione è un diritto inalienabile e imprescrittibile e che deve essere applicato ed esercitato dai popoli indigeni nelle loro terre e territori.

Articolo 3: “I popoli indigeni hanno diritto all’autodeterminazione. In virtù di tale diritto, determinano liberamente il proprio status politico e perseguono liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale”.

Allo stesso modo l’articolo 4: “I popoli indigeni, nell’esercizio del loro diritto all’autodeterminazione, hanno il diritto all’autonomia o all’autogoverno nelle questioni relative ai loro affari interni e locali, nonché ad avere i mezzi per finanziare la loro funzioni autonome”.

In questo contesto, come meccanismo di risoluzione dei conflitti, riacquistano importanza i trattati firmati tra la Corona Spagnola e la Nazione Mapuche, durante l’epoca coloniale. Questi strumenti fungerebbero da antecedenti storici della legittimità della nostra rivendicazione.

DIRITTO ALL’ACQUA

La crisi climatica si è aggiunta a questo. Le pratiche dannose delle aziende forestali hanno generato molta perdita di biodiversità e di ecosistemi che hanno dato vita a spiritualità, salute, medicine, che sono ormai elementi praticamente perduti. Non abbiamo acqua nemmeno per il consumo umano, questo è indubbiamente un attacco alla vita mapuche, visto che le Nazioni Unite nel 2010 hanno dichiarato che il diritto all’acqua è un diritto umano, che deve essere assicurato e garantito dagli Stati del mondo alla popolazione.

Va risolta la mancanza di acqua per il consumo umano, per gli animali e per lo sviluppo produttivo delle comunità mapuche.

Sono da definire piani e programmi per la crisi climatica e la perdita di biodiversità.

DIRITTO DI PARTECIPAZIONE E CONSULTAZIONE PREVIA ED INFORMATA

In relazione a questa materia le Nazioni Unite fanno anche una menzione speciale nel loro articolo 19: “Gli Stati devono consultarsi e cooperare in buona fede con i popoli indigeni interessati, attraverso le loro istituzioni rappresentative, prima di adottare e applicare misure legislative o amministrative che li interessa al fine di ottenere il loro consenso libero, preventivo e informato”.

Interventi e investimenti nel territorio mapuche, progetti economici ad alto impatto con piena ed effettiva partecipazione attraverso una preventiva e consapevole consultazione con le comunità interessate.

PIANO DI INTERVENTO ED INVESTIMENTO PRODUTTIVO NELLE TERRE MAPUCHE

Piani e programmi di sviluppo produttivo nelle comunità mapuche devono essere promossi attraverso un processo di consultazione preventiva e informata al fine di considerare e includere i bisogni che lo stesso popolo mapuche definisce nelle sue attività economiche da sviluppare.

Incoraggiare e promuovere progetti più rispettosi dell’ambiente e della salute, per affrontare la crisi climatica e garantire la sicurezza alimentare delle famiglie mapuche.

Infine, signor Presidente, nella nostra lettera abbiamo delineato lo sfondo storico e i meccanismi che possono gettare luce su una possibile soluzione politica al conflitto che colpisce la nostra Nazione Mapuche e il suo Stato del Cile.

Le comunità mapuche che aderiscono all’opera sono convinte che attraverso la volontà politica si possa avanzare nella risoluzione del conflitto, ma con un dialogo politico, e non un dialogo di natura domestica come il piano del buon vivere promosso dal Suo governo nel territorio mapuche.

Ci auguriamo di avere un incontro (o Trawun) con Lei il prima possibile per sviluppare e avvicinare le posizioni politiche di entrambe le parti coinvolte nel conflitto. Se non avremo una risposta positiva, capiremo che il Suo governo non ha alcuna intenzione di trattare in modo diverso dai governi che lo hanno preceduto al potere, il che produrrà l’inutile prolungamento di questa difficile e grave situazione.

Cordiali saluti.

Comunità mapuche per l’autodeterminazione, l’autonomia economica, politica, sociale e culturale della regione dell’Araucanía, delle province di Malleco e Cautin, del Ngulu Mapu-Cile.

Teléfono de contactos : Werkenes (Voceros) ; Miguel Millacoi, 986459463, Ernesto Melin, 9 49911200, Mario Melillan, 9 74923758, José Nain P. 9 63348613.

Wallmapuche, Region de la Araucania, 28 de Julio de 2022.

Attività del Tribunale Permanente dei Popoli 2021- 2022

L’agenda di lavoro del Tribunale Permanente dei Popoli (TPP) è stata particolarmente intensa e ha incluso le fasi conclusive di programmi avviati nel 2020 (come la sessione sulla Colombia) e l’attivazione e lo svolgimento di sessioni che giungeranno a termine nel corso dei prossimi mesi.

Il caso Colombia

L’atto di accusa che, a norma di Statuto, attiva la procedura che porta alla realizzazione della Sessione è stato ritenuto di competenza del TPP, il quale ha attivato nel corso del 2020 la sessione con la seguente formulazione: Genocidio politico, impunità e crimini contro la pace in Colombia. In termini profondamente mutati rispetto al processo svolto dal 2006 al 2008 – che aveva documentato la violazione sistematica dei diritti del popolo colombiano e i crimini contro l’umanità commessi da uno spettro di imprese transnazionali operanti nel paese, con una attiva connivenza e responsabilità delle istituzioni governative colombiane – la nuova richiesta, sottoscritta da oltre cento movimenti, associazioni, popoli indigeni e comunità contadine e afrodiscendenti, ha argomentato l’esistenza, lungo la storia degli ultimi 70 anni, di un esplicito e continuato genocidio. Le tappe della sessione hanno previsto un evento di presentazione dell’atto di accusa il 25 gennaio 2021 e tre udienze pubbliche ricche di rapporti originali e di testimonianze individuali e collettive, e che sono state realizzate a Bucaramanga, Medellín e Bogotà dal 25 al 27 marzo 2021, nella forma ibrida di presenza fisica e virtuale della giuria. Essa è stata composta da don Raúl Vera, Andrés Barreda, Lottie Cunningham, Esperanza Martínez, Graciela Daleo, Daniel Feierstein, Luis Moita, Antoni Pigrau Solé, Mireille Fanon, Michel Forst, Philippe Texier, Luciana Castellina e Luigi Ferrajoli. La sentenza, presentata il 17 giugno 2021 a Bogotà, ha accolto pienamente l’accusa e ha motivato il giudizio di genocidio. Il procedimento e la decisione del TPP sono stati riconosciuti di particolare rilevanza non solo per i loro contenuti dottrinalmente rigorosi, innovativi e aderenti alle esigenze di rivendicazione dei diritti fondamentali delle varie componenti del popolo colombiano, ma anche per il loro contributo ai lavori della Commissione Verità che si avvia alla conclusione del suo mandato ed alla presentazione del suo rapporto atteso entro la fine di giugno 2022.

Il caso del territorio e delle Popolazioni del Cerrado (Brasile)

La prima ipotesi di richiesta di considerare il territorio del Cerrado e le sue popolazioni come oggetto di indagine e giudizio da parte del TPP risale al 2019, in tempo pre-pandemia. Una piattaforma di organizzazioni, movimenti ed esperti ha posto in evidenza la sostanziale condizione di invisibilità, a livello nazionale ed internazionale, di una regione che copre nove stati federali del Brasile e che è abitata da una “minoranza” di 25 milioni di abitanti, tra cui popoli indigeni e comunità contadine.

Il Cerrado è una savana tropicale strategica per le sue risorse naturali, principalmente riserve di acqua e minerali, e rappresenta oggi il luogo di non-diritto anche a fronte dell’aumento drammatico e distruttivo della presenza di imprese multinazionali brasiliane e straniere. Se da un lato l’Amazzonia è divenuta centrale, per le sue problematiche, nell’immaginario della politica e dell’opinione pubblica, dall’altro lato il Cerrado continua ad essere sconosciuto e ignorato, rendendo così ‘invisibili’ i suoi popoli e impunibili le violazioni sistematiche di cui questi sono oggetto. Grazie al lavoro intenso di scambi, approfondimenti, ricerche condotte in collaborazione con le realtà richiedenti, si sono compiute tutte le fasi statutarie per la formulazione dell’atto di accusa e del programma delle udienze pubbliche, articolate nelle seguenti tappe: l’evento di presentazione dell’atto di accusa (10 settembre 2021), l’udienza sul tema dell’acqua (30/11-01/12/2021) e l’udienza sulla sovranità alimentare e la biodiversità (15-16/03/2022).

La giuria è stata composta in modo da includere non solo competenze ‘tecnicamente’ competenti sui capitoli classici dei diritti umani, dei popoli e ambientali, ma da rappresentare in modo significativo la storia e l’antropologia di un territorio così poco conosciuto: Antoni Pigrau Solé, professore di diritto internazionale dell’Università Rovira i Virgili di Tarragona, Spagna; Deborah Duprat, giurista ed ex Vice Procuratrice Generale della Repubblica del Brasile; Mons. José Valdeci della Diocesi di Brejo, Brasile; Eliane Brum, giornalista brasiliana; Enrique Leff, economista e sociologo ambientale messicano; Luiz Eloy Terena, giurista indigeno del popolo Terena e membro dell’APIB, Brasile; Rosa Acevedo Marín, sociologa venezuelana e docente presso l’Università Federale del Pará; Silvia Ribeiro, giornalista e ricercatrice uruguaiana del Gruppo ETC;  Teresa Almeida Cravo, docente portoghese di relazioni internazionali presso l’Università di Coimbra. Fa parte della giuria anche Philippe Texier, giurista francese e attuale presidente del TPP.

La conclusione del processo con la formulazione e la presentazione della sentenza e la sua ‘ri-consegna’ alle comunità (che hanno seguito da vicino, con un densissimo contributo di testimonianze e di visibilità culturale tutti i lavori) è prevista dall’8 all’11 luglio 2022 a Goiânia, Brasile.

Session on the murder of journalists

La sessione è stata richiesta dalle organizzazioni Free Press UnlimitedCommittee to Protect Journalists e Reporters Without Borders. Il lavoro di preparazione e accettazione dell’atto di accusa, e di attivazione del programma di sedute pubbliche della Sessione ha occupato uno spazio particolarmente importante per la Segreteria e la Presidenza del TPP. La rilevanza e attualità del problema non hanno bisogno di essere sottolineate e sono cresciute significativamente lungo la fase istruttoria, non solo nei paesi inclusi nell’atto di accusa e indicati come casi emblematici, che sono Messico, Sri Lanka e Siria. L’originalità dell’accusa rispetto alla dottrina e alle pratiche del diritto internazionale può essere riassunta ricordando i tassi di impunità di casi di giornalisti uccisi, sempre superiori al 90%, che sono il prodotto delle complessità dei contesti nazionali di riferimento, ma ancor di più del fatto che la ‘sistematicità’ degli eventi da considerare, non è riconducibile alla somma dei singoli episodi di omicidio-scomparsa- tortura , ecc. nell’uno o nell’altro paese. In questo senso il lungo lavoro di chiarificazione con le organizzazioni richiedenti è stato particolarmente difficile e stimolante. Dopo la Sessione di inaugurazione a L’Aia (2 novembre 2021), e le tre sessioni pubbliche dedicate ai tre scenari nazionali e realizzate, tra aprile e maggio, a Città del Messico e L’Aia, la giuria si trova attualmente nella sua fase deliberante. Essa è composta da Eduardo Bertoni (Argentina),  rappresentante dell’Ufficio Regionale per il Sudamerica dell’Istituto interamericano dei Diritti Umani; Marina Forti (Italia), giornalista e scrittrice, Gill H. Boehringer (Australia), già decano e senior research fellow onorario della School of Law, Macquarie University a Sydney; Mariarosaria Guglielmi (Italia), magistrato, vicepresidente di Medel (Magistrats Européens pour la Démocratie et Libertés); Helen Jarvis (Australia-Cambogia), Vicepresidente del TPP; Nello Rossi (Italia), Vicepresidente del TPP; Kalpana Sharma (India), giornalista indipendente, Philippe Texier (Francia), Presidente del TPP; Marcela Turati Muñoz (Messico), giornalista freelance.

La conclusione della sessione è programmata per il 19 settembre 2022 a L’Aia.

Session on “Pandemic and Authoritaniarism. The responsibility of the Bolsonaro government for systematic violations of the fundamental rights of the Brazilian peoples perpetrated through the policies imposed in the Covid-19 pandemic”. 

Contrariamente alle precedenti, questa Sessione, anch’essa giunta alla sua fase deliberante, ha avuto un iter preparatorio molto compatto, in un certo senso d’urgenza. I contenuti sono riassunti nel titolo ufficiale dato al processo (l’inglese è in questo caso la lingua ufficiale, su richiesta dei promotori, per l’obiettivo di visibilità e internazionale e di comunicazione). La richiesta è stata formulata negli ultimi mesi del 2021 dalla Commissione per la difesa dei diritti umani Dom Paulo Evaristo Arns – il quale è stato cardinale simbolo della resistenza alla dittatura militare – e da realtà rappresentative dalle forze di opposizione interne al Governo di J. Bolsonaro, come l’Articolazione dei popoli indigeni del Brasile (Apib), il Black coalition for Rights e il Public Services International (PSI).

I motivi della richiesta— molto ben dettagliati nel lungo atto di accusa—hanno messo in evidenza come le politiche e le pratiche adottate dal Governo Bolsonaro per il controllo della pandemia virale erano state programmaticamente rivolte ad accentuare le situazioni di marginalità, discriminazione, fino a politiche con caratteristiche di crimini contro l’umanità e direttamente genocidarie per intere popolazioni come quelle dei popoli originari ed afro discendenti. Le udienze pubbliche si sono tenute dal 24 al 25 maggio presso l’Aula Nobile della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di San Paolo e in forma ibrida.

La giuria ha ascoltato molti esperti e testimoni a sostegno dei diversi aspetti dell’atto di accusa, e ha avuto formalmente accesso alla documentazione prodotta negli ultimi mesi dalla Commissione del Senato brasiliano e da rapporti inviati all’attenzione della CPI sulle responsabilità di Bolsonaro nel trasformare la pandemia in una ‘sindemia’, nella quale il popolo brasiliano, specie in alcune sue componenti, era/è formalmente non il soggetto di diritti, ma il ‘nemico-l’altro’ da eliminare.

La giuria è presieduta da Luigi Ferrajoli, ed è composta da rinomati esperti nei campi del diritto, delle scienze sociali e della salute globale:

Sir Clare Roberts (Antigua e Barbuda), ex ministro della giustizia, ex presidente della Commissione interamericana per i diritti umani ed ex giudice della Corte suprema dei Caraibi orientali; Alejandro Macchia (Argentina), medico ed epidemiologo; Eugenio Raúl Zaffaroni (Argentina), ex membro della Corte suprema argentina ed ex giudice della Corte interamericana dei diritti umani – OSA; Joziléa Kaingang (Brasile), leader indigena e antropologa sociale; Kenarik Boujikian (Brasile), ex giudice d’appello della Corte di Giustizia di San Paolo; Rubens Ricupero (Brasile), ambasciatore, ex ministro, ex segretario generale della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo; Vercilene Dias Kalunga (Brasile), leader Quilombola e avvocato; Baronessa Vivien Stern (UK), membro della Camera dei Lord, specialista in diritto penale e diritti umani; ITALIA – Nicoletta Dentico (Italia), giornalista, scrittrice e consulente per la salute globale; Boaventura de Sousa Santos (Portogallo), docente senior, Facoltà di Economia, Università di Coimbra; Luís Moita (Portogallo), professore all’Università autonoma di Lisbona, specialista in studi sulla pace e sulla guerra;– Jean Ziegler (Svizzera), professore di sociologia all’Università di Ginevra, ex membro del Parlamento svizzero, ex relatore speciale del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite.

La complessità della situazione, che incrocia anche le crescenti tensioni di questo periodo pre-elettorale, e le difficoltà di un lavoro tutto da remoto, fanno prevedere che la fase deliberativa in corso non potrà concludersi prima della fine del luglio 2022.

Terza sessione sullo Sri Lanka e il popolo Tamil

Nella sua storia, il TPP ha avuto modo di interessarsi dell’etnia-popolo Tamil. In una prima Sessione svoltasi a Dublino nel 2010, all’indomani del massacro di un numero mai quantificato fino in fondo di decine-centinaia di migliaia di persone, da parte del governo militare dello Sri-Lanka, che aveva scatenato una guerra di repressione contro la minoranza Tamil con un forte supporto internazionale, diretto ed indiretto, di USA, UK, Israele, ed una posizione di chiara condanna, ma sostanziale silenzio diplomatico da parte internazionale. Una seconda Sessione del TPP condotta a Bremen nel 2013 aveva permesso ulteriormente di approfondire l’analisi dei documenti de-secretati, dei testimoni sopravvissuti ai campi, delle politiche di discriminazione sistematica, delle espulsioni, arrivando alla formulazione di un processo di genocidio, che tragicamente corrispondeva a tutte le definizioni più rigorose del crimine sancite a livello internazionale.

Una revisione della situazione del popolo Tamil — non tanto rispetto al genocidio già giudicato in modo definitivo, ma rispetto alla continuazione di comportamenti di violazione dei diritti fondamentali e della sua stessa identità nel popolo attualmente residente e nell’esilio — è stata richiesta al TPP con procedura di urgenza negli ultimi mesi del 2021 dalla comunità della diaspora Tamil sostenuta da uno spettro molto ampio di popoli ‘in esilio’, e da ONG attive internazionalmente nella difesa-affermazione dei diritti umani e dei popoli. Di particolare importanza in questa terza udienza pubblica è la denuncia della totalmente ingiustificata – e gravissima per le sue implicazioni giuridiche e pratiche – della qualifica di ‘terroristi’ da parte degli USA e dell’UK, con la connivenza passiva dell’UE. Questo ha creato una situazione di non-protezione generalizzata dei Tamil, e si configura come un crimine contro la pace, in un’area come quella del Sud-Est Asiatico che è divenuta uno degli scenari geopolitici più ‘armati’ del mondo, anche da punto di vista nucleare. Il territorio dei Tamil in Sri Lanka è in questo senso strategico per avere il porto-chiave per tutto il controllo dell’Oceano Indiano: il processo genocidario, che include anche religione, cultura, identità, è diventato ‘continuo’, ed integra, pur in altra forma, la assoluta criticità della situazione dei Rohingyas in Myanmar. La giuria, molto rappresentativa anche di popoli che condividono storie concrete che richiamano quella dei Tamil è composta da Denis Halliday, ex assistente del segretario generale delle Nazioni Unite e vincitore del Gandhi International Peace Award; Javier Giraldo Moreno, vicepresidente del Tribunale Permanente dei Popoli, teologo della liberazione e attivista per i diritti umani colombiano; Ana Esther Cecena, direttrice dell’Osservatorio Geopolitico Latinoamericano e docente presso l’Università Nazionale Autonoma del Messico; Flavia Carvalho, giudice aggiunto della Corte Suprema brasiliana; Lourdes Esther Huanca Atencio, presidente della Federazione nazionale delle contadine, artigiane, indigene, native e salariate del Perù; Feliciano Valencia, ex senatore colombiano, leader indigeno Nasa della regione del Cauca; Na’eem Jeenah, direttore esecutivo del Centro Afro-Medio Oriente in Sudafrica ed ex presidente del Movimento giovanile musulmano del Sudafrica; Liza Maza, segretaria generale della Lega Internazionale di Lotta Popolare (ILPS) ed ex membro della Camera dei Rappresentanti delle Filippine; Lonko Juana Culfunao Paillal, leader della comunità indigena Mapuche del Cile sud-occidentale e fondatrice della Commissione Etica contro la Tortura, Junaid S. Ahmad, direttore del Centre for the Study of Islam and Decoloniality di Islamabad e fondatore e presidente del Palestine Solidarity Committee, Pakistan.

Si è appena conclusa a Berlino l‘ udienza pubblica. La sentenza sarà disponibile l’inizio dell’autunno 2022.

Conclusioni

Il lavoro del TPP ha continuato anche in questo anno, pur nella assoluta limitatezza dei mezzi—ma grazie alla ricchezza del sostegno e della collaborazione attiva e volontaria di una rete veramente estesa di persone, competenze , organizzazioni— la sua storia di tribuna di visibilità e di presa di parola per tutti i ‘popoli’ che hanno ritenuto di ritrovare nello statuto, nello stile di presenza, nel rigore della metodologia un motivo di fiducia, ed un aiuto nella loro lotta.

I ‘casi’ che abbiamo presentato sono quelli che si sono potuti scegliere e seguire..

Abbiamo lungo i mesi provato a consacrare del tempo ad una riflessione sul dove si va: al di là di quel lavoro continuo di ricerca ( tanto da diventare essenziale nella nostra identità: insieme ai tanti contributi che arrivano soprattutto da chi lavora nelle giurie dei singoli casi) diventa sempre più forte l’esigenza di prendere sul serio le tante ‘provocazioni’ che i diritti dei popoli pongono alla crescente lontananza del diritto internazionale dalle loro domande e vite.

Sarebbe un momento importante. Ed un’opportunità,reciproca, di fare passi innovativi.

Grazie per l’attenzione che vorrete dare a questa breve cronaca.

Gianni Tognoni,

E’ sconcertante. Perché chi dichiara la guerra non è mai chi poi la combatte, chi muore, chi vede la propria vita distrutta. E’ bizzarro. Perché chi vuole eserciti potenti, armi da inviare, resistenze infinite di eroici eserciti, non è mai dalla parte di chi quelle armi le usa o di chi quelle armi subisce.

A volere le guerre, a pensarle giuste e possibili, ad invocare armamenti come soluzione eterna per avere la pace, sono quasi sempre signori e signore che vivono in belle case, che vanno a cena con gli amici e disquisiscono di questo e di quello, chiedendo al ritorno un thè al cameriere filippino. 

E’ triste vedere uomini e donne che dovrebbero essere dotati di cultura e senno, uomini e donne che vivono – dicono – la democrazia di questa Repubblica e di questa Costituzione, insultare chi chiede non si seguire la strada del riarmo dell’Ucraina e dell’Europa. Nella nostra democrazia, vorrei ricordarlo, è un’opinione legittima e coerente. Tanto coerente e legittima da richiedere la “demonizzazione pubblica e ufficiale” per essere contrastata. Si, perché con la ragione e il dibattito, il palco di chi vuole le armi cade. A spiegare che non è armando le parti che si mette fine alla guerra non ce lo raccontano dotti circoli di geopolitica. No: è la cronaca quotidiana della guerra a dircelo. E’ la storia degli ultimi decenni. La guerra si ferma con il disarmo, togliendo le armi dalla circolazione e facendole tacere. Le armi si fanno tacere con la pressione politica ed economica, con gli strumenti della diplomazia, del diritto, dell’unità politica internazionale verso un obiettivo. Questo significa che gli ucraini non hanno il diritto di difendersi? Certo che hanno il diritto di farlo. Ma noi abbiamo il dovere di sostenerli evitando che si facciano massacrare all’infinito.

La fine della guerra – delle guerre – richiede rigore. Esige capacità di sacrificio reale, con la volontà di sopportare il peso di sanzioni, tagli economici, difficoltà. Chiede anche scelte di campo definitive sui diritti umani e sulla loro applicazione universale, trasformandoli nella linea guida della nostra vita, individuale e collettiva. Parlo di quei diritti umani che, chi oggi suona le trombe della guerra e del riarmo, non si è mai scomodato di far rispettare davvero, permettendo a governi, imprenditori, piccoli truffatori di fare affari con chiunque, soprattutto con autocrati e dittatori. Quei diritti umani che sono quotidianamente calpestati dall’indifferenza reale di chi dalle colonne dei giornali non denuncia mai – o solo raramente – lo scandalo delle leggi sull’accoglienza in Italia, non racconta mai degli affari poco chiari delle nostre imprese nel campo degli armamenti, dell’industria petrolifera, di quella alimentare. Quei diritti umani che vengono ridicolizzati nei contratti di lavoro poco dignitosi offerti ai giovani, nella sanità privatizzata come l’acqua, nella scuola dimenticata da tutte le politiche di rilancio.

Se coloro che oggi tuonano contro chi è contro il riarmo in nome della Pace fossero capaci di riflettere, si accorgerebbero che essere contro le armi significa essere dalla parte della nostra Costituzione. Significa essere dalla parte dei diritti. Non significa – come stanno urlando per gettare fango – essere “putiniani” o essere equidistanti, no. Significa essere così tanto dalla parte di chi è aggredito, da volerlo assolutamente salvare. Trovando soluzioni reali, definitive e non facendo allungare i tempi di una guerra che ogni giorno uccide innocenti.

La disumanità di questi bravi, grassi, signori urlanti è pari solo alla tristezza che sanno generare. Sono grigi, come stupidi hoolingans. Sono vecchi, come coloro che dicono di voler combattere. Sono privi di futuro. Esattamente come priva di futuro è la loro arrogante stupidità.

Raffaele Crocco  Unimondo 28/03/2022

L’autocrate Putin e i nostri interessi nazionali

Ben pochi tra i commentatori, anche quelli che non sono simpatizzanti di Putin e nostalgici della Grande Madre Russia, dimostrano di avere a cuore il nostro interesse nazionale a ragionano in modo freddo e preciso su quanto sta avvenendo, dopo che il capo del Cremlino ha lanciato l’operazione bellica contro l’Ucraina.
Pur avendo ben chiaro che Putin è un autocrate e non certo un campione della liberal-democrazia, è necessario chiedersi a chi giova realmente questa crisi così pericolosa e a ridosso dei confini europei. Da parte mia avanzo l’ipotesi, peraltro già adombrata da altri, che a trarne giovamento, in questo particolare momento storico, siano soprattutto gli Stati Uniti. I quali hanno un presidente in grave difficoltà come Joe Biden. A volte appare lucido e a volte inebetito. E’ a capo di una nazione tremendamente divisa, e Putin gli ha in fondo offerto su un piatto d’argento l’occasione per uscire dall’angolo e ritornare al centro del ring. Naturalmente bisogna vedere se saprà coglierla.

I quesiti da porci

Credo che i principali quesiti da porre siano i seguenti. (1 Quale senso ha avuto la continua espansione della Nato a oriente, visto che l’Unione Sovietica non esiste più? (2 E perché i tanti segnali d’allarme lanciati dai russi in questi anni sono stati sempre ignorati, quando non derisi? La spiegazione non è affatto semplice, ma ne azzardo una che a me sembra plausibile.
Anche dopo la fine della Guerra Fredda e l’implosione dell’Urss, nei circoli politici – e soprattutto militari – di Washington, Mosca continua ad essere considerata l’avversario principale, quello da combattere ad ogni costo, insomma. Certo è difficile cambiare abitudini. Anche se tanti analisti ci hanno detto che Biden ha compiuto la disastrosa ritirata dall’Afghanistan perché, seguendo in questo caso Donald Trump, si è finalmente accorto, a differenza del premio Nobel per la pace Barack Obama, che il nemico principale dell’America è la Cina, e non la Russia.

L’Ucraina usata e illusa

Usa e Nato hanno illuso il governo ucraino con dichiarazioni di solidarietà. Tuttavia Biden ha subito chiarito di non essere disposto a scontrarsi militarmente con i russi né ha promesso di inviare truppe sul terreno. Del resto non può permetterselo, considerato che buona parte dell’opinione pubblica Usa (che non lo ama) è schierata su posizioni isolazioniste. Quindi mano libera agli europei, abituati da tanto tempo a rincantucciarsi sotto le coperte lasciando agli americani le incombenze militari. E pure criticandoli senza remore quando bombardano.

Sanzioni autolesioniste

Ora si stanno progettando le solite sanzioni che, come sempre, serviranno a poco. Ma un fatto è chiaro. A soffrirne sarà in modo pressoché esclusivo la Ue, e non gli Usa che, al contrario, proprio dalle sanzioni potrebbero guadagnare tanto in termini economici quanto politici. Mi chiedo, per esempio, come si possa criticare la Germania per la sua presunta “timidezza”, quando si sa benissimo che i tedeschi dipendono in maniera essenziale dalla Russia per i loro approvvigionamenti energetici. Idem per l’Italia, forse in misura anche maggiore, anche se non pare che i nostri politici ne siano consapevoli.

Cina da nemico assoluto ad arbitro

Dulcis in fundo, si noti che finora la Cina di Xi Jinping ha adottato sulla questione ucraina un atteggiamento di grande prudenza. Nessun segno, finora, di voler seguire Putin nel riconoscimento delle repubbliche separatiste. Al contrario, l’atteggiamento di Pechino è stato piuttosto ambiguo. Non si può escludere che stia giusto ad osservare da fuori per giocare un ruolo di mediazione. Scontentando Putin, ma riguadagnando punti presso un Occidente che la considerava addirittura un pericolo mortale.
Tuttavia, proprio l’aver ignorato i continui allarmi lanciati da Putin ha causato la saldatura dei rapporti tra Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese. Magari Mosca in futuro ricambierà appoggiando l’eventuale invasione e l’annessione di Taiwan alla Repubblica Popolare. Resta comunque il fatto che i cinesi considerano la presenza russa in Estremo Oriente un’indebita intrusione, e la questione si porrà certamente nel futuro.

L’acqua calda che brucia e il brodino Stoltenberg

Si scopre soltanto l’acqua calda notando, una volta di più, che l’Unione Europea non ha una strategia e si limita a vivacchiare sul piano diplomatico e militare. Solo che, in certe situazioni, vivacchiare non basta, né è sufficiente che la Nato schieri navi e aerei rischiando uno scontro diretto sul quale gli stessi vertici dell’Alleanza nutrono dubbi. Stoltenberg fa fuoco e fiamme a parole, ma si guarda bene dall’incrociare direttamente le lame con i russi. L’Unione Europea, così com’è oggi, può combattere soltanto guerre virtuali, giacché le mancano una strategia e una chiara visione del suo ruolo.

Michele Marsonet – Remocontro.it  25/02/2022

Bilancio della gestione del governo peruviano a livello economico e politico – gennaio 2022

Cominciando dalla situazione economica, bisogna considerare che da diversi mesi il tasso di cambio del dollaro in Perù ha raggiunto un livello storico critico: nel marzo dello scorso anno il dollaro costava 3.76 soles (0.25 euro circa), ma in quel mese ha superato la barriera di 4.10 soles e i prezzi dei prodotti alimentari di base, come pollo e gas da cucina, e di tutte le risorse di base che incidono sull’economia familiare erano già saliti alle stelle.

Oggi (17 gennaio), dopo quasi un anno di incertezza economica, il dollaro è arrivato a 3.87 soles, ma le cose rimangono allo stesso prezzo e, a causa dell’andamento del mercato, l’offerta e la domanda rimarranno le stesse. Cosa ha fatto il governo? Ha acquistato dollari tramite la Central Reserve Bank per fermare o controllare l’inflazione della valuta, che ha segnato un altro record storico a livello nazionale.

Perché si sono verificati tali effetti? La giustificazione che è stata data è che la fuga di capitali dal paese era massiccia, perché si pensava che il nuovo governo eletto, “comunista” e di sinistra, avrebbe operato massicce nazionalizzazioni ed espropri, a cominciare dalle banche usuraie. Tutto questo comunque non è successo, però purtroppo in Perù i media hanno un potere spaventoso e sono sempre stati dalla parte delle dittature militari, dei governi corrotti, ecc., oltre al fatto che esiste un monopolio assoluto, per il quale c’è bisogno di un governo asservito.

Quindi era prevedibile che il nuovo governo non avrebbe avuto vita facile e che i suoi membri avrebbero dovuto lavorare duro per mostrare buone intenzioni, ma soprattutto una buona gestione a livello economico, sociale ed emergenziale della pandemia, che ha colpito duramente il Paese. Purtroppo, però, i primi 100 giorni governo hanno già visto molte criticità: alcuni membri del Parlamento sono inadatti al loro ruolo, non esiste una maggioranza piena che possa resistere agli attacchi di una destra inferocita, è stata già sfiorata la crisi di governo, e diversi ministri sono stati, a torto o a ragione, sostituiti perché privi di un gabinetto coerente, tecnicamente adatto e perché purtroppo sembrano animati solo da intenzioni politiche e non da obiettivi concreti.

Attualmente, a causa di nomine in posizioni chiave di persone con dubbia capacità, la fiducia dei cittadini si è indebolita e si è generato un maggiore confronto che ha influito sulla percezione della crescita economica nel nostro Paese. Per esempio, il ministro dell’Ambiente ha fatto pressioni sul direttore delle risorse umane per valutare e assumere persone a lui vicine che non hanno capacità né tecnica né professionale. Un controverso ex avvocato fujimorista è stato nominato Presidente del consiglio di amministrazione di una delle società statali emblematiche, la “Perupetro”; è stato addirittura modificato il profilo della carica poiché chi ricopriva quella carica è sempre stato un ingegnere petrolchimico, come dovrebbe essere.

Questo indica che in molte delle principali istituzioni statali sono state insediate persone raccomandate, che si sono dimenticate dei poveri per avere stipendi molto sostanziosi, senza rendere fattibile il miglioramento delle istituzioni pubbliche, ma proseguendo sulla stessa strada disastrosa fatta di corruzione, divisione di aree di influenza e occupazione di posizioni in cui non faranno assolutamente nulla perché privi di capacità: vivranno solo a spese dello stato e delle tasse che pagano tutti i peruviani.

Abbiamo un Presidente che parla del popolo in ogni discorso, e che però attualmente ha una denuncia in corso per “traffico di influenze illecite” presso la Procura della nazione, perché tutto indica che potrebbe essere stato lui o il suo entourage a favorire e a dare in concessione in cambio di favori un appalto a una donna d’affari che è vicina all’ex segretario del palazzo del governo: questa imprenditrice indica addirittura di aver avuto una serie di incontri a casa del Presidente stesso. Questo può sembrare poco plausibile, ma il Presidente non fa conferenze stampa né concede interviste alla stampa nazionale, che lo ha sempre maltrattato durante la campagna elettorale e che in tutto questo tempo è rimasta sulle sue posizioni. La stampa, perciò, si dà un gran da fare a fornire informazioni e prove contro il Presidente, prove che, non essendo confutate pubblicamente dallo stesso Presidente, danno l’impressione di essere vere o semplicemente lasciano un dubbio su quella che è stata sempre indicata come “corruzione zero” durante la campagna presidenziale. Non si capisce poi il motivo per cui il Presidente tiene riunioni a casa sua se ha a disposizione il palazzo del governo.

Tutti i governi del Perù sono sempre stati dediti alle ruberie e in questi ultimi 200 anni il potere è sempre rimasto saldamente in mano alla destra e alla classe imprenditoriale in generale, che ha sempre prodotto stabilmente ministri e classi politiche, che hanno continuato a fare i propri affari sfruttando le risorse naturali del paese con concessioni a multinazionali durante decenni, con istituzioni statali assunte da persone inutili e di parte, dimenticando la popolazione nel suo insieme e i veri problemi che ci affliggono a partire dal colonialismo spagnolo.

Questo governo ha dato una speranza di cambiamento, era l’occasione per unire le forze per far governare la sinistra, che purtroppo è però sempre disunita e si contende il potere, e soprattutto mostra atteggiamenti addirittura peggiori dei politici tradizionali di destra, perseguendo il proprio vantaggio, senza un orientamento serio per avere un governo giusto, razionale e che vada verso il progresso; poi il fatto che questo governo abbia caratterizzato la sua compagna elettorale con il motto: “Niente più poveri in un paese ricco”, suona a ancora più grottesco: è una frase che ora rimane un sogno per quanti avevano creduto in questo governo.

Speriamo che la tendenza vista fin qui nella prassi di governo si possa invertire ma, visti i presupposti, c’è il forte timore che questa speranza possa rimanere vana.

Valentina

Il conflitto tra il governo etiope e i ribelli del Tigray che sembrava concedere un cessate il fuoco di fatto a ridosso del Natale ortodosso, la nostra Befana, non trova soluzione. Nonostante la parziale liberazione di prigionieri politici da parte del premier Abiy Ahmed e la fine degli scontri via terra, proseguono più intensi gli attacchi aerei sui ribelli del Tigray. E le Nazioni unite non riescono più a portare aiuti alla popolazione civile nelle zone colpite e devono ritirarsi.

Il Nobel delle promesse tradite

Il premier etiope Abiy Ahmed, ormai discusso premio Nobel per la pace, nei primi giorni di gennaio aveva promesso che avrebbe liberato diverse figure di spicco dell’opposizione «nel tentativo di raggiungere la riconciliazione nazionale e promuovere l’unità». Un’amnistia «il cui scopo è spianare la strada a una soluzione duratura dei problemi dell’Etiopia in modo pacifico e non violento. Soprattutto con l’obiettivo di rendere un dialogo nazionale onnicomprensivo». Belle parole e applausi di speranza.

L’illusione di una tregua reale

Accolte le richieste del Tigray People’s Liberation Front, il Tplf ribelle che aveva dichiarato di essere pronti a trattative se il governo avesse rilasciato prigionieri politici e posto fine all’assedio del Tigray. Tra le persone rilasciate ci sono Sibhat Nega, un membro fondatore del Tplf, e Abay Weldu, ex presidente della regione del Tigray, ma anche il leader dell’opposizione oromo Jawar Mohammed e il giornalista Eskender Nega. Buone premesse che non hanno fermato la guerra, denuncia Fabrizio Floris sul manifesto.

Stop scontri diretti (e perdenti), ma più bombardamenti

Se da un lato gli scontri sul terreno tra esercito etiope e ribelli tigrini si sono fermati, dall’altro sono continuati gli attacchi aerei. Anzi, peggio di prima. L’8 gennaio 56 persone sono state uccise e 30 ferite in un attacco aereo nel campo per sfollati nel nord dell’Etiopia, nell’area di Dedebit. Mentre l’11 gennaio, 17 persone sarebbero morte per alcuni attacchi con droni nella zona di Mai Tsebri. Ma i ribelli sostengono che ci sono stati anche attacchi via terra dall’Eritrea.

Unicef, violazione diritti umani

Dopo l’attacco aereo di venerdì scorso le agenzie umanitarie hanno sospeso il loro lavoro a causa dei continui attacchi di droni. L’Unicef ricorda che “i campi per rifugiati e sfollati interni, comprese le scuole che ospitano bambini e famiglie sfollate e le strutture essenziali che forniscono loro servizi umanitari, sono obiettivi civili”. E Vatican News rilancia l’accusa di “violazione del diritto internazionale umanitario” e chiede l’immediata fine delle ostilità ma soprattutto la protezione dei piccoli dai pericoli.

Promesse ai ‘Grandi’, e grandi bugie

Solo tre giorni fa, denuncia Fabrizio Floris sul manifesto, il premier Abiy Ahmed aveva discusso con il presidente americano Joe Biden «delle opportunità per promuovere la pace e la riconciliazione». Sul campo l’effetto reale è quello di impedire l’assistenza umanitaria alla popolazione schiacciata da 15 mesi di guerra. L’Ufficio delle Nazioni unite per gli affari umanitari: «nel complesso, la situazione degli sfollati interni in tutte e tre le regioni dell’Etiopia settentrionale rimane drammatica e richiede un ulteriore rafforzamento dell’assistenza multisettoriale».

L’Onu bombardata deve arrendersi

Nelle aree degli ultimi raid «i partner umanitari dell’Onu hanno sospeso le attività a causa delle continue minacce di attacchi di droni». «L’Onu e i suoi partner umanitari – ha dichiarato il portavoce Stephane Dujarric– stanno lavorando con le autorità per mobilitare urgentemente l’assistenza di emergenza nell’area, nonostante le continue difficoltà dovute alla grave carenza di carburante, denaro e forniture nel Tigray». Ma nell’anno che è iniziato la pace è ancora solo una promessa.

Poi la tragedia sanità

L’Oms in Etiopia dall’agenzia Dire (www.dire.it): «Nessun accesso alle medicine, in Tigray è un inferno». Il direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Ghebreyesus: «Un insulto all’umanità, dallo scorso luglio non è permesso consegnare medicinali alla popolazione». Ghebreyesus, di origini tigrine, è accusato da Adis Abeba di faziosità, ma le sue accuse trovano conferma nelle dichiarazioni del responsabile per le Emergenze dell’Oms, Michael Ryan.

«Da circa sei mesi i medici in Tigray non hanno accesso a “medicinali salva vita anche basici”, come l’insulina per i pazienti diabetici». Per il Covid è strage senza rimedi.

 

Gli ultimi sviluppi del conflitto tra Armenia e Azerbaijan

A seguito della Seconda guerra dell’Artsakh.

 

di Grigor Ghazaryan *

Immaginatevi una situazione in cui uno stato confinante annuncia di voler progettare un viale lungo decine di chilometri che spacchi il territorio del vostro stato in due e arrivi poi ad un terzo stato (oppure al suo exclave). E senza neanche chiedere la vostra opinione. Che ne pensereste di una tale richiesta? Questo surrealismo tocca i rapporti tra Armenia e Azerbaijan, vincitore quest’ultimo della guerra dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) dopo l’aggressione del 27 settembre 2020, scoppiata nella guerra dei 44 giorni e realizzata con l’appoggio militare, logistico e pratico della Turchia di Erdogan e di miliziani giunti dalla Siria. Ora l’Azerbaijan si presenta con nuove idee di rivendicazione sugli armeni, aspirando a creare un collegamento terrestre attraverso il territorio sovrano della Repubblica d’Armenia e annunciando allo stesso tempo di essere pronto ad “applicare la forza” qualora l’Armenia volesse opporsi ai suoi progetti.
A seguito della dichiarazione trilaterale di cessate-il-fuoco, formulata da Armenia, Azerbaijan e Russia il 9 novembre 2020, l’Azerbaigian ha infatti continuato la sua politica di espansione nei confronti dell’Armenia e della Repubblica di Artsakh, la quale due giorni fa ha festeggiato 30 anni della sua indipendenza.
Il periodo tra dicembre 2020 e giugno 2021 ha visto il susseguirsi di vari eventi: l’infiltrazione (13 dicembre 2020) delle forze speciali azere nei villaggi di Hin Tagher e Khtsaberd in violazione della dichiarazione trilaterale, durante la quale i soldati azeri hanno catturato decine di soldati e civili armeni; il deturpamento della Cattedrale armena di San Salvatore a Shushi e la rimozione delle sue cupole (3 maggio 2021); l’infiltrazione in Syunik, regione meridionale della Repubblica d’Armenia; le tensioni a Khdzoresk e Verishen, Vardenis e Kut (3 maggio 2021); l’avanzamento delle truppe azere nelle zone confinanti con le città di Vardenis e Sisian (14 maggio 2021); il fuoco aperto il 25 maggio 2021, con l’uccisione di un soldato armeno sulla territorio della Repubblica d’Armenia, a Verin Shorzha; la presa in ostaggio di 6 militari armeni sul territorio sovrano della Repubblica d’Armenia, mentre facevano lavori di ingegneria militare mirata alla fortificazione dei confini (27 maggio). Da segnalare poi che l’Azerbaijan rilascia 15 prigionieri di guerra armeni (13 giugno), però solo in cambio di una mappa delle mine (per i territori occupati), applicando così il principio di scambio di vite umane con oggetti preziosi; il 15 giugno il presidente turco Recep Tayyp Erdogan è a Shushi, la città distrutta dalla Turchia e dall’Azerbaigian nel 1920 e nel 2020, accompagnato dal presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev e dalla sua famiglia per celebrare il successo dopo l’aggressione contro l’Artsakh e l’Armenia; nella dichiarazione sullo sviluppo del “mondo turco”, si ricorda il trattato di Kars del 1921, per mezzo del quale agli armeni vennero strappate intere regioni, terre storiche armene, nota con soddisfazione la collaborazione russo-turca sul territorio di Artsakh e prevede una collaborazione tra Turchia e Azerbaijan nell’ambito politico-militare. Il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Artsakh condanna fermamente tali visite nei territori occupati di Artsakh, considerandole come ”una provocazione, un’attuazione della politica espansionistica ed estremista e una chiara manifestazione di grave violazione del diritto internazionale, xenofobia, genocidio e politica terroristica”; il 6 luglio 2021 si verifica un caso serio di sparatoria intensa a Verin Shorzha, ferito un soldato armeno; le truppe azere cominciano a sparare anche nella direzione di Yeraskh, nel sud-ovest dell’Armenia. E’ in atto il nuovo piano dell’aggressione, che prevede di attanagliare la Repubblica d’Armenia sia dalla parte orientale che da quella occidentale (17 luglio).
Nel mese di agosto l’Azerbaijan continua a terrorizzare la popolazione pacifica dei villaggi armeni situati lungo il nuovo confine, sparando in specifico nella direzione dei villaggi di Sotk, Kut, del lago Sev (confine orientale) e anche nuovamente a Yeraskh, dal territorio di Nakhijevan (confine occidentale), uccidendo tre soldati armeni, compreso un sottosergente (1 settembre) delle Forze armate dell’Armenia. Nel frattempo Aliyev, nel suo discorso del 17 agosto, svela il piano massimalistico che suona come una nuova dichiarazione guerrafondaia: “apriremo il corridio per far ritornare i nostri civili nelle loro terre storiche; staremo ovunque vorremo stare”, “ripeteremo la lezione data agli armeni” (riferendosi alla guerra dei 44 giorni). Il 25 agosto, come ennesima provocazione, le truppe azere bloccano una parte dell’autostrada Goris-Kapan, invece il 31 agosto provocano incendi lungo il confine armeno-azero nella zona di Sotq e Kut.
Risulta una situazione nella quale l’Armenia si trova circondata da nemici e falsi alleati, una situazione che potrebbe copromettere di nuovo la pace e la sicurezza della regione.
La Russia, con il mancato supporto agli Armeni, ha contribuito in modo decisivo all’allargamento dello spazio geopolitico dei “neo-ottomani”, rafforzando il fattore turco non solo contro l’Armenia, avendo utilizzato quest’ultima come un “alleato strategico” usandola, comunque, come risorsa/moneta di scambio nei suoi rapporti con i turchi, come ha fatto anche 100 anni fa, ma anche contro l’occidente e la Cina.
La comunità internazionale continua a rimanere inattiva e complice di crimini contro il popolo armeno dell’Artsakh, essendo neutralizzata dalla presenza della Russia sul territorio, che continua la “politica di punizione” contro l’Armenia per il cammino democratico da essa intrapresa senza la sua approvazione.
L’Azerbaijan gioca su tre piani importanti oltre a quello politico
– Militare – pressioni da est e ovest sull’Armenia, mirate alla realizzazione del progetto a tappe “1. Corridoio, 2. Conquista di Syunik 3. Lago di Sevan 4. Yerevan”.
– Culturale – deturpamento di monumenti armeni e dissacrazione di tombe e siti cristiani armeni, cancellazione di ogni traccia storica della presenza degli armeni in Artsakh, seguendo il principio #CancelArmenianCulture ossia quello di distruggere ogni traccia e prova dell’esistenza secolare degli armeni nei territori occupati.
– Psicologico – crimini contro gli armeni, dei crimini di guerra, processi inventati contro i prigionieri di guerra armeni dove questi ultimi vengono etichettati come “terroristi”, per controbilanciare la schiacciante evidenza sull’uso da parte dell’Azerbaijan di mercenari esportati dalla Siria attraverso il territorio turco.
L’Armenia, a causa della sua dipendenza da un alleato geostrategico e politico estremamente discutibile, si trova inanzittutto in uno stato di prigioniero del proprio modello democratico eletto nel 2018, a dispetto della mancata approvazione del Cremlino, giocatore fondamentale e gestore di questo conflitto, i cui presupposti vennero creati apposta da Stalin negli anni 20 del secolo scorso per tenere la regione sotto controllo. Come risultato intere regioni armene, molte delle quali oggi fanno parte di un soggetto politico e territoriale conosciuto con lo stesso nome di una regione iraniana (“Azerbaijan”), sono diventate una specie di valuta nelle mani delle grandi potenze per pagare le cessioni /bilanciamento/ del potere, ma anche per punire gli Armeni per la via di sviluppo democratico da loro scelto.

*PhD, Professore Associato Università Statale di Yerevan.

 

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