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GUERRA E SOLIDARIETA’

Nel vento della storia”: questo il titolo dato da Ercole Ongaro, molti anni fa, al suo primo libro sulla Rete1. Il messaggio era chiaro: la Rete è immersa nel flusso della storia, ne vive pienamente le vicende e cerca di interpretarle, con una visione aperta e solidale e qualche volta – si spera – anche profetica.

Credo che, nel corso degli anni, chi ha operato nella Rete non si sia sottratto a questa sfida, sia “sporcandosi le mani” in Palestina, in Centro e Sud America, in Africa, sia affrontando dibattiti in-terni, a volte laceranti, sul se e sul come operare in quei luoghi2.

Ora, insieme a tutti coloro che credono ancora nella solidarietà, siamo di fronte ad un’ennesima sfida. Dopo molti decenni, infatti, la guerra è tornata in Europa: una guerra crudele, sporca, maledettamente novecentesca, con il suo portato di morte, odio, distruzione, ideologia e propaganda. Come tutte le guerre, essa ha radici profonde, che non ho la capacità di indagare. Non è, però, difficile capire come essa metta in discussione molte nostre intime convinzioni, approdi di decenni, che davamo ormai per scontati.

Anzitutto, l’accoglienza dei profughi. É bello (e non lo dico con ironia) vedere l’enorme mobili-tazione del popolo italiano, sia per l’accoglienza degli ucraini fuggiti dal loro Paese, sia per la raccolta e l’invio degli aiuti a chi vi è restato. La mobilitazione è stata grande, spontanea e gratuita: ha coin-volto anche moltissime persone estranee a qualsiasi precedente circuito solidale.

Resta l’amaro di constatare come si siano creati profughi di “Serie A” (gli ucraini, appunto) e di “Se-rie B” (tutti coloro che, ora come in passato, scappano altre guerre, dittature, carestie). Tale distin-zione emerge non solo dalla comune percezione del fenomeno, ma anche da numerosi provvedimenti legislativi, che hanno creato canali preferenziali per chi scappa da quella guerra3.

Con l’ulteriore paradosso che il trattamento “di favore” viene riservato solo al fuggiasco di cittadi-nanza ucraina e non a chi, residente in quel Paese, abbia altra origine.

Ciò pone molte domande: perché ciò è avvenuto? Questo ha in qualche modo cambiato la condizione degli “altri” migranti? Cosa resterà di questa mobilitazione una volta che – speriamo presto – tutto sarà finito?

Facile rispondere alla prima. Questa guerra è in territorio europeo ed ha ricevuto una copertura me-diatica come mai in passato. Il nostro coinvolgimento emotivo è enormemente superiore, rispetto a qualsiasi altro conflitto, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Non solo, è facile immedesimarsi negli ucraini: sono relativamente vicini, bianchi, cristiani, di cultura abbastanza omogenea alla nostra, minacciati da un Paese che, per tutta la guerra fredda, ci è stato additato come il maggiore spaurac-chio4. Infine, la comunità ucraina era già abbondantemente presente ed integrata in Italia, prima del conflitto.

Più difficile dire come tale situazione incida sulla condizione di tutti gli altri migranti. Sicuramente è cambiata la copertura mediatica e, quindi, la percezione del fenomeno. Malgrado gli sbarchi non siano certo terminati, non se ne parla più ed il tema ha cessato di essere strumento di lotta politica. Ciò è probabilmente un bene, perché chi continua ad interessarsi di immigrazione (e sono molti) potrà farlo in silenzio e con molte meno pressioni. Purtroppo, per usare un eufemismo, è improbabile un aumento dei fondi stanziati a sostegno di queste persone. Si corre, inoltre, il rischio di una guerra tra poveri, per ottenere aiuti, servizi e lavoro, in cui gli ucraini partono oggettivamente favoriti.

Credo, infine, che nulla resterà della mobilitazione, una volta finita la guerra. Chi già si occupa di so-lidarietà continuerà a farlo, mentre gli altri torneranno alle loro comuni occupazioni. La storia recente ci ha insegnato che siamo in grado di superare eventi traumatici a livello globale (la pandemia, ad esempio) senza che ciò, nel medio-lungo periodo, incida minimamente sul nostro stile di vita.

Dubito, inoltre, che gli strumenti emergenziali sperimentati in questi mesi possano essere estesi anche ad altre categorie di richiedenti asilo.

In conclusione, penso che la vicenda ucraina sia del tutto peculiare e non modificherà l’atteggiamento dei nostri connazionali nei confronti degli “altri” migranti. Del resto, come già ci insegna un fine in-tellettuale leghista, questa è una guerra “vera” mentre, par di capire, tutte le altre sono finte …

La situazione attuale ha poi creato ulteriori profonde crepe in quello che resta del fronte pacifista. É sufficiente disapprovare la guerra e chiedere la pace? É giusto schierarsi? In concreto: è giusto, per il nostro Paese, aiutare economicamente e militarmente l’Ucraina?

Non vi nascondo che, avendo partecipato in passato a campagne contro le produzioni armiere, queste domande mi mettono in crisi. Non ho risposte, ma non credo sia giusto sottrarsi al confronto.

Come dicevo, non ho gli strumenti, né le competenze, per analizzare la genesi del conflitto. Posso so-lo dire che chi attacca militarmente uno Stato sovrano, indipendentemente dalle ragioni che accampa, ha comunque torto.

Aggiungo che la ultracinquantennale vicinanza al popolo Palestinese ci ha insegnato che, in questi casi, l’imparzialità è pura ipocrisia. Chi non si schiera, chi resta equidistante, sostiene di fatto l’ag-gressore e lo fa indipendentemente dalle colpe che anche l’aggredito può avere.

Neppure credo nell’atteggiamento – passivo ed in fondo comodo – di chi si limita a disapprovare la guerra ed a chiedere la cessazione delle ostilità. Serve un impegno concreto.

Durante la nostra guerra di liberazione dal nazifascismo i partigiani erano armati, sparavano, uccide-vano. Pochi lo facevano volentieri, ma questo è un dato di fatto storico. Non solo: spesso i partigiani utilizzavano armi paracadutate dalle forze aeree americane.

Quanti di noi avrebbero disapprovato questo modo di agire5?

Evidentemente ci sono situazioni limite in cui l’uso della violenza e l’invio di armi sono moralmente leciti. La situazione ucraina rientra tra queste? Dobbiamo valutarla con i nostri occhi di borghesi co-modamente seduti ad una scrivania o con quelli di chi si è arruolato volontario e combatte su un fronte?

Come dicevo, non ho una risposta.

Infine, come sempre, anche questa guerra incide pesantemente sulla libera manifestazione del pensiero. Assistiamo – spesso impotenti, talvolta indifferenti – ad una censura strisciante: l’accesso ai media viene progressivamente precluso a chi non condivide il pensiero generale, che sostiene acri-ticamente la causa ucraina, o, più semplicemente, cerca di offrire un’analisi più articolata e meno “ti-fosa” sulla genesi della guerra. Un atteggiamento, tra l’altro, sintomo di debolezza: è molto più utile ed efficace confutare un argomento, che impedire che sia espresso.

Sia chiaro: alcune posizioni sono davvero cervellotiche e sembrano animate più da interessi economi-ci o di mera visibilità, che da intime convinzioni. Questa, però, non è una valida ragione per metterle a tacere.

La varietà di opinioni è comunque una ricchezza. Possiamo non condividere un’opinione, criticarla aspramente, ritenerla folle o prezzolata, ma tutto ciò non deve incidere sul diritto di manifestarla. Lo dice l’art. 21 della nostra Costituzione che, non a caso, nasce dalle macerie di un regime totalitario. Torna, se vogliamo, di attualità la frase “non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo”, spesso attribuita erroneamente a Voltaire6.

Marco Rete di Varese

1 Ercole Ongaro “Nel vento della storia”, Cittadella Editrice, 1994.

2 Sempre Ercole Ongaro descrive la frattura verificatasi all’interno della Rete nel 1972, a seguito delle azioni terroristi-che perpetrate dal gruppo palestinese “Settembre Nero” all’aeroporto di Tel Aviv e durante le Olimpiadi di Monaco (“Nel vento della Storia” cit., p. 86).

3 Vedi, ad esempio il Decreto Legge 21 marzo 2022 n° 21, che prevede, a favore dei profughi ucraini, forme di acco-glienza diffusa sul territorio per 15.000 persone, contributi al sostentamento per tre mesi e l’accesso automatico al Sistema Sanitario Nazionale, nonché il riconoscimento automatico per tutte le qualifiche sanitarie conseguite in quel Paese. Sul sito della Protezione Civile è stata, addirittura, creata una piattaforma, denominata “Offro Aiuto”, dedicata alla sola popolazione ucraina.

4 Oggi è facile dimenticare che anche l’Ucraina era parte dell’Unione Sovietica.

5 Non avendo, per fortuna, conoscenza diretta, la mia opinione si è formata nella lettura di molti racconti, più o meno romanzati, sulla resistenza. Mi viene in mente Beppe Fenoglio “Il partigiano Jonny”, Einaudi.

6 In realtà, è della scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall.

CIRCOLARE NAZIONALE MAGGIO 2022

LA MERAVIGLIA DEL SILENZIO

Giorni addietro ho proposto a scuola l’albo illustrato “ La meraviglia del silenzio”.

Dopo la lettura, stimolando la conversazione tra i bambini sul significato delle parole MERAVIGLIA e SILENZIO, una piccola di quattro anni è intervenuta dicendo:

Il silenzio è una cosa che ti fa un po’ innamorare

Esterefatta!

Per giorni ho pensato a quelle parole e con la mente sono approdata in miei viaggi diversi, che, però, avevano un denominatore comune: la mensa fatta di sguardi.

Repubblica Centroafricana. Nella savana, durante una formazione alle maestre del luogo, che parlavano solo sango, sono stata invitata insieme a Carola, dalle stesse a pranzo.

Ognuna di loro ha portato la sua migliore stoviglia da casa per offrirla a noi bianche. Si è pranzato sotto il baobab tra silenzio ed emozione.

Palestina, At – tuwani, Durante un viaggio della Rete, la moglie di Afez, che parlava solo arabo, ci ha accolto con la sua zuppa in ciotole di latta, ceramica e legno. Ognuno di noi sorseggiava con lo sguardo negli occhi dell’altro.

Iran, Isfahan. Nell’immensa piazza una donna, che parlava solo farsi, con la sua famiglia mi chiede di sedermi accanto a lei, con Pier e Ludovica, per condividere la sua cena, in una magica serata estiva. Accetto, mi siedo e piango.

Attimi fatti solo di sguardi, di sorrisi, di parole ( fortunatamente ) non potute dire; attimi fatti d’ innamoramento di un istante che imprime in modo indelebile il tuo io: perché invitare qualcuno a mensa è un atto di profonda fiducia nell’ altro.

Significa desiderare di stare insieme nella condivisione e ancora una volta credere nella relazione.

SIMONA

Per la Rete di Celle/ Varazze

CIRCOLARE NAZIONALE APRILE 2022 da casa MASINA

Carissimi mi emoziona molto scrivere una circolare per la Rete.

Forse voi non ve lo ricordate ma per me e per Ettore voi siete sempre stati i veri fratelli di elezione, e quando abbiamo lasciato la rete abbiamo pianto.

I veri fratelli sono quelli con cui condividiamo le idee e anche se ho sofferto quest’inverno per la perdita di tre fratelli di carne voi siete sempre quelli con cui mi sento in sintonia.

Avrei voluto partecipare al coordinamento di Savona. Sono una Ligure.

Mi manca il mio mare, mi mancano i profumi della maggiorana e di tutte le erbe odorose selvatiche che mi inebriavano nelle mie passeggiate infantili sulla Capra Zoppa o sulla collina delle Manie sopra Finalpia.

Mi mancano le sabbie delle arene candide, che forse voi non avete mai visto, che arrivavano dall’Africa fino alle grotte, dove noi bambini con una candela e un cordino ci addentravamo da veri incoscienti.

Lascio ora la “ saudade ” per fare discorsi più seri.

Io come sapete non sono una esperta di politica come era Ettore e come è Pietro.

Perciò ho inviato una riflessione di Pietro sulla guerra in Ucraina e una di Emilio su Guerra e Psicoanalisi.

Cosa posso dire a voi? Credo che in questi giorni sentendo le varie discussioni nei media noi ci stiamo rendendo conto che noi siamo stati privilegiati come Rete perché le discussioni che dividono le varie correnti politiche noi le abbiamo già affrontate da anni, le abbiamo condivise, le abbiamo assimilate e hanno cambiato il nostro modo di vivere.

Ettore e i tanti collaboratori che lo hanno aiutato, e che poi lo hanno sostituito, da tanti anni hanno saputo affrontare problemi difficili, e spesso hanno avuto il coraggio di andare contro le opinioni di persone che amavano o di altre che li hanno danneggiati perché non accettavano di assecondare i loro comportamenti corrotti. Quando sono stata a Rimini con Pietro mi sono molto rallegrata che la Rete fosse ancora viva e tante persone anche giovani portassero avanti ideali alti ma difficili.

Da tanti anni abbiamo insieme previsto quello che ora è sotto gli occhi di tutti con le sue conseguenze catastrofiche, che si vuole limitare con una emozionalità pietosa e superficiale a una singola guerra come quella dell’Ucraina, mentre è tutto l’assetto del mondo che va cambiato.

Cerchiamo di ricordarci quanto sia grande il patrimonio culturale che abbiamo costruito in comune anche con momenti di buio e di sofferenza spesso prima di avere soluzioni da proporre.

Noi abbiamo capito quanto gli imperialismi e i nazionalismi fanatici siano portatori di morte non solo ai più poveri ma anche agli stessi ideologi , vi ricordate la signora Goebbels che non poteva vivere in un mondo senza Hitler, e vi ricordate le foto dei suoi sei bambini avvelenati e sdraiati davanti al bunker di Hitler?

Noi siamo in grado di riconoscere ogni forma di imperialismo anche quando sta appena nascendo, e non è poco questa capacità di riconoscere un fenomeno sul nascere quando molti ancora non lo vedono.

Noi non siamo contro ogni tipo di guerra ma siamo contro la fabbrica delle armi: la guerra la ammettiamo solo come sfogo della nostra aggressività come si fa nelle arti marziali.

Giochiamo alla guerra con pistole ad acqua , dipingiamoci la faccia di nero come si fa in certi rituali indigeni per far paura agli avversari. Sono gli armamenti che non vogliamo più costruire.

Sono le armi che costano miliardi che arricchiscono i potenti della terra che portano la guerra: cosa serve la difesa dei nostri aerei costosissimi se l’avversario , che magari sa di stare per morire, sgancia con un desiderio di suicidio collettivo una bomba atomica? Un giornalista dell’Avvenire che non so perché detestava Ettore, tanti anni fa scrisse un articolo dicendo che le pistole erano neutre e diventavano armi solo se le si usava. No le armi sono armi anche se non le usiamo, perché con i soldi degli armamenti si rimetterebbe a posto tutto il nostro continente. Si potrebbe vivere come nel paradiso terrestre circondati nei nostri giardini da colibri e uccelli del paradiso che cinguettano all’alba per svegliarci.

Circolano nel mondo tantissimi soldi che ora servono solo a pochi ricchi di fare altri soldi con investimenti finanziari velocissimi, soldi svalutando il lavoro umano che non è solo una fonte di guadagno ma dà senso alle nostre vite. Si potrebbe fare scuole, disinquinare gli oceani da plastiche e rifiuti , si potrebbe aumentare la capacità della ricerca, si potrebbero istruire tanti poveri ignoranti, che non per colpa loro, sostengono che le fabbriche delle armi procurano lavoro. “ Ma signora ”, mi ha detto l’altro ieri un operaio che ho incontrato dal ferramenta, “ lo sa che in Italia le fabbriche di armi danno lavoro a 150 mila persone ? ”.

Ettore invano da parlamentare ha cercato di tramutare la produzione di armi in pentole a pressione e invano a cercato di far passare una legge che impediva che i paesi aiutati dalla cooperazione comprassero dall’Italia armi con pagamenti uguali ai soldi che venivano elargiti.

E’ inutile che vi ricordi quello che sapete meglio di me riguardo alla distruzione delle foreste, alla possibile mancanza di ossigeno per tutta l’umanità, alla carenza probabile di acqua, alla distruzione dell’habitat di tante specie animali che non solo impoveriscono il pianeta ma che portano i virus con salti di specie a cercare la loro casa nell’uomo.

Su questi punti voi ne sapete molto più di me, noi avevamo solo intuito i primi accenni di coscienza ambientale e voi state portando avanti quello che era meno chiaro anni fa.

In questi giorni noi dobbiamo soprattutto pensare di salvare il pianeta.

Sto leggendo e comprando libri di Stefano Mancuso sull’importanza di riforestare il mondo.

Con mia grande sorpresa, ho letto in “ L’ incredibile viaggio delle piante ” di questo autore che a Hiroshima alcuni bambini di un asilo si sono salvati dalle radiazioni della bomba atomica perché l’asilo era coperto da alberi e che intorno a Cernobyl c’è una foresta rossa perché le piante hanno trattenuto le radiazioni della centrale. Se fossi venuta a Savona, ma ho 88 anni e sono troppo vecchia per viaggiare da sola, avrei chiesto a tutti voi di convogliare dei soldi per piantare alberi.

Non vi scrivo per darvi consigli ma perché continuiate ad avere fiducia in voi e speranza nell’uomo. Come nell’emergenza Covid si sono costruiti vaccini in un anno, quando prima ne occorrevano almeno quattro, se gli uomini di buona volontà vogliono possono trovare soluzioni ancora non immaginabili attualmente.

Noi abbiamo avuto tanta paura ai tempi della guerra in Italia, temevano le leggi razziali di Mussolini, temevano che il male avrebbe vinto il bene, ma non è stato così e non sarà mai così anche se a volte abbiamo la tentazione di crederlo.

Ci sono aspetti di crescita del male nel mondo ma la coscienza globale sta maturando, dobbiamo avere fede. Un amico esperto di Sud Sudan ci ha raccontato che pochi anni fa uno stregone era stato sepolto vivo perché aveva previsto una pioggia che non era arrivata. Oggi i social, che per certi versi aborrisco e non so usare, però permettono più di prima che si venga a conoscenza di tante aberrazioni, come quelle dei bambini che in Congo scavano a mani nude nei cunicoli di fango per cercare il cobalto necessario per le pile delle automobili elettriche.

Nel mondo ci sono tante realtà terribili che una volta venivano tenute nascoste e che oggi si cerca in tutti i modi di celare o di ritrasmettere in maniera menzognera, ma noi non dobbiamo permettere la propagazione delle bugie. Oggi chi vuol sapere che cosa accade nel mondo può farlo facilmente ed è soprattutto lo svelamento delle azioni malefiche che è temuto da chi le compie ma che è il solo modo per ostacolarle.

Io sono quasi alla fine del mio viaggio ma sono una donna felice perché ho partorito figli come voi, migliori di me e posso andarmene in pace. Abbiate speranza. Vi abbraccio

Clotilde

Seguendo il dibattito sulla guerra in Ucraina gli psicoanalisti due o tre cose le possono dire, e sono cose legate fra loro.

Primo: trovarsi a prendere decisioni, come l’invio di armi a uno dei Paesi belligeranti, in condizioni di emergenza, quando la sollecitazione emozionale è massima non è mai un buon affare. In queste condizioni, la razionalità rischia di essere travolta e di non fare argine alla tensione angosciosa. Si tende infatti ad appiattire la complessità della realtà su dimensioni estreme, come nelle curve degli stadi: amico/nemico, eroe o disertore, arrendersi o combattere. Le differenze fra fatti e persone sono minimizzate e si procede per ampie generalizzazioni, il dialogo con l’altro, e fra parti di sé, viene interrotto; la mente entra in una modalità autoritaria. Se non c’è tempo per pensare le emozioni, la scarica liberatoria e l’errore, più o meno grave, sono dietro l’angolo.

Secondo: l’essere umano spesso non ha memoria, o meglio ha una memoria selettiva che cancella i momenti difficili della sua storia e di quella del mondo. Cerca di buttare dietro le spalle quello che lo ha turbato per non faticare troppo a capirne il senso e le cause. Se questo meccanismo rappresenta una sorta di scorciatoia esistenziale in parte fisiologica, un eccesso di dimenticanza impedisce di utilizzare il passato per prevedere e organizzare il futuro. Ad esempio, si dimentica che le guerre non solo hanno insanguinato il mondo ma hanno traumatizzato gravemente chi è sopravvissuto e persino le generazioni successive. Inoltre, hanno devastato l’ambiente in modo irreparabile (in Vietnam, a più di cinquanta anni di distanza dalla guerra nascono ancora bambini deformi per effetto del napalm usato per defoliare le foreste). Non si ricorda più che solo gli sforzi per costruire la pace sono riusciti a produrre una convivenza prospera e serena. Vivere all’insaputa di una parte di sé stessi o della realtà esterna può provocare brutti scherzi: ciò che si pensava dimenticato ritorna in gioco in maniera improvvisa e destabilizzante, come in questo momento la minaccia nucleare.

Terzo: la massima latina: “ si vis pacem para bellum ” è palesemente falsa. Investire sulla probabilità che il nemico si spaventi della tua forza non fa altro che indurlo a pensare nello stesso modo, secondo il noto proverbio “chi la fa, l’aspetti”; e può provocare una escalation di emozioni e azioni improvvide. Già Freud, il fondatore della Psicoanalisi, ci aveva avvertito che il prezzo che l’uomo deve pagare per convivere serenamente con i suoi simili, protetto dalla civiltà, comporta un disagio: quello di rinunciare ad esprimere liberamente tutti i propri bisogni sessuali e aggressivi, lavorando costantemente per tenerli a bada. Perché la nostra libertà termina dove comincia quella dell’altro.

Emilio

Questa guerra è il risultato di errori politici gravi – o addirittura di un disegno di destabilizzazione – che proseguono dalla caduta del Muro. Solo affrontando quegli errori si può mettere fine al conflitto. La strategia politica e la resistenza all’aggressione militare non possono essere due cose separate. L’aveva spiegato già von Clausewitz all’inizio dell’800: la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi. Se la politica fallisce, allora si arriva alla guerra. Ma è solo la politica che può porre fine alla guerra (a meno della distruzione completa dell’avversario, ed è improbabile che la Russia venga annientata) ed impedire guerre future.

Francia e Germania sono state in guerra dal 1870 al 1945. La capacità politica del gruppo dirigente che ha gestito la fase post-bellica ha saputo trasformare le ragioni del conflitto in ragioni di collaborazione: oggi i due paesi vivono in pace ed anzi rappresentano insieme l’asse della politica europea. Sono stati uomini come Altiero Spinelli che nel mezzo del conflitto più sanguinoso che l’Europa abbia conosciuto ad aver sviluppato le idee necessarie per costruire una pace duratura. Sono queste le idee che mancano oggi per l’Europa centro-orientale.

La mancanza di queste idee – di una politica alta – non solo ha portato alla guerra in Ucraina, ma anche alla nascita di sovranismi estremisti e di regimi politici illiberali (vedi Ungheria e Polonia) all’interno dell’Unione Europea. Se non ripartiamo da qui sarà impossibile portare al tavolo di negoziazione con la Russia una proposta credibile per una pace duratura. Neutralità dell’Ucraina o ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europa sono due idee che da sole non risolvono e addirittura possono essere fonte di nuove crisi senza una visione globale forte. Continuare a ripetere “l’Ucraina è aggredita, aiutiamola con le armi”, e intanto rinviare a chissà quando un ragionamento su un possibile futuro di pace, vuol dire prolungare questa guerra indefinitamente.

L’Ucraina riceve enormi quantità di armi dal 2014, come lo stesso Biden ha rivelato. Di armi ne sta ricevendo moltissime anche in questi giorni. Ma intanto la stiamo lasciando sola, come abbiamo fatto in tutti questi anni, nel mezzo di una crisi che non può trovare soluzione senza una nuova visione politica che faccia uscire la Russia dal suo isolamento, offrendole una partnership politica con l’Unione Europea – cosa che potrebbe trovare sponde politiche a Mosca, mettendo in crisi la politica putiniana. In mancanza di una visione di questo tipo è inevitabile che anche la rimozione di Putin lascerebbe inalterate le ragioni del conflitto. Questa occasione l’Europa l’ha avuto sia con Gorbaciov che nei primi anni ‘90: ma l’Occidente scelse di sostenere il regime illiberale e corrotto di Yeltsin, saccheggiando le risorse russe, invece di trovare un’intesa duratura. Oggi tutti i nodi sono venuti al pettine e la politica europea non sa dire altro che armi e guerra.

Pietro

Rete Radiè Resch, Circolare nazionale del marzo 2022

A cura della Rete di Pisa-Viareggio

Quando abbiamo iniziato questa circolare, l’attenzione dei nostri media era tutta concentrata sulla elezione del presidente della repubblica. Cominciavano a venire fuori i primi nomi, e Salvini, nel presentare una possibile candidata, aveva detto che era espressione della destra, una destra moderata, liberale e «identitaria». Emergeva una autodefinizione della nostra destra politica: “moderata”, cosa su cui qualche dubbio è lecito nutrire, “liberale”, certamente in senso economico ma molto poco in senso culturale e politico, e infine “identitaria”. E qui si poneva il problema di cosa questo termine davvero significasse. Considerato chi lo aveva usato, ci è venuto subito da pensare agli immigrati, a quei disperati che tentano di raggiungere le nostre coste e che Salvini, quando era ministro degli interni, aveva cercato in tutti i modi di respingere e lasciare in mare. D’altra parte, erano quelli i giorni in cui era molto presente sui giornali la crisi dei profughi ai confini fra Polonia e Bielorussia. Si parlava della costruzione di un muro, mentre migliaia di persone, intere famiglie, erano bloccate al confine, abbandonate a se stesse, con temperature polari, senza nessuna assistenza né prospettiva.

Tutto questo, anche lì, in nome dell’identità, la nostra identità europea e cristiana minacciata da masse di non europei e musulmani. Qualcuno aveva tirato fuori anche la cosiddetta “teoria della sostituzione”. Sostituzione, voluta naturalmente dai poteri forti, Soros in testa, che avrebbe come obiettivo un cambiamento etnico radicale della popolazione europea.

Mentre scriviamo è in pieno svolgimento un’altra crisi, la crisi Ucraina. Una crisi estremamente pericolosa, con possibili derive verso guerre più ampie, se non globali e anche nucleari. Le motivazioni di questa crisi sono tante, e non possiamo trattarle qui, ma anche in questo caso ricompare il tema dell’identità. Vediamo, scrive Politi sul Corriere della sera, “le immagini fino a ieri inimmaginabili di «sovranisti» polacchi e ungheresi che accolgono generosamente i profughi, perché europei come loro, e a loro accomunati dalla minaccia russa.” Quelle frontiere davanti alle quali fino a poco fa si accalcavano migliaia di disperati, respinti senza alcuna pietà, ora si aprono. È l’identità che fa la differenza. E lo stanno sperimentando in questi giorni le migliaia di studenti asiatici e africani, iscritti alle università ucraine, che si vedono respinti alle frontiere, a quella polacca in particolare, quando cercano di tornare a casa per fuggire dalla guerra. “Gli ucraini passavano con i loro cani e gatti. Anche loro sono trattati meglio degli studenti indiani”, Dice a un giornalista Muhammad, uno studente indiano che non riesce a lasciare il paese. Ma qualcosa di simile accade anche in Israele, pronta ad accogliere i profughi provenienti dall’Ucraina, purché ebrei. Gli altri “vengono espulsi o obbligati a versare costosi depositi per garantire che alla fine se ne andranno.”1

Ma cosa è l’identità? È intesa troppo spesso come qualcosa che divide, che distingue/separa, «noi» da un lato e «loro» dall’altro. È proprio questa identità, vista come qualcosa di statico, definito una volta per tutte, che ci permette di respingere chi riteniamo «altro» da noi, portatore di una identità diversa, dalla quale non vogliamo essere inquinati. È anche qualcosa per cui crediamo che valga la pena morire, ma anche uccidere! E, curiosamente, di questo sembrano particolarmente convinti proprio coloro per cui la vita è sacra e inviolabile, soprattutto quando si parla di aborto e di eutanasia.

Che l’identità possa essere all’origine di violenze lo abbiamo visto negli ultimi decenni in tanti posti, Kosovo, Bosnia, Ruanda, Timor, Israele-Palestina, Sudan, …, e ora anche in Ucraina. Noi che seguiamo con interesse e solidarietà le vicende della Palestina lo abbiamo visto recentemente ad esempio nei tentativi di ebraicizzare Gerusalemme con l’espulsione delle famiglie palestinesi, e lo vediamo quotidianamente nella politica di apartheid perseguita sistematicamente dal governo israeliano.

Il rapporto fra identità e violenza è proprio il tema di un bel libro del premio Nobel Amartya Sen, economista e filosofo. Indiano, Sen non può non partire dalla sua memoria di bambino, ai tempi della decolonizzazione dell’India, ricordando la “velocità con cui gli esseri umani di gennaio si trasformarono negli implacabili indù e negli spietati musulmani di luglio”, e le violenze sofferenze che portarono alla formazione di due stati, uno indù e uno musulmano. Dobbiamo sempre ricordare, ci dice Sen che “siamo diversamente differenti. La speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede in gran parte in una comprensione più chiara delle pluralità dell’identità umana, e nel riconoscimento che tali pluralità sono trasversali e rappresentano un antidoto a una separazione netta lungo una linea divisoria fortificata e impenetrabile.” Dovremmo riuscire a capire che l’identità è in realtà qualcosa di molteplice e soprattutto dinamico/fluido. Non siamo quello che siamo, ma quello che “siamo essendo”.

Viene da pensare a un filosofo particolarmente amato da un caro amico della Rete, a cui molto dobbiamo, Arturo Paoli. Si tratta di Emmanuel Lévinas: “Il Messia è il giusto che soffre, che ha preso su di sé la sofferenza degli altri […]. E, concretamente, questo significa che ognuno deve agire come se fosse il Messia.” Se vogliamo realizzare un mondo nuovo, una società più giusta, quella che la tradizione ebraica definisce come «messianica», dobbiamo accogliere l’altro/altra e identificarci con lui/lei. È esattamente l’opposto della difesa dell’identità. È richiesto un cambiamento radicale. Questo ha diverse conseguenze. Ne vogliamo qui considerare due, apparentemente molto diverse. Ma lo sono davvero?

Noi, gli «autoctoni» ci sentiamo nel diritto di «respingere» chi pensiamo non lo sia, o, magari invece, siamo disponibili ad «accogliere», ma comunque siamo sempre noi che ci arroghiamo il diritto di decidere se accogliere o respingere. Ma che vuol dire essere «autoctono», e chi si può legittimamente considerare tale? In realtà siamo tutti migranti in una terra che non è «nostra», che non possiamo possedere. Semmai, siano noi, tutti, a essere «suoi», della terra. E questo ci riporta al nostro rapporto con la terra, il «Creato», che stiamo distruggendo.

Il concetto di «autoctonia» è strettamente legato a quello di «patria». Per i sacri confini della «patria» è bello morire, e naturalmente si può uccidere. E per difenderli si può anche respingere il migrante, fino a permettere che muoia, di freddo e fame in un campo o annegato in mare. Ma per difendere i confini bisogna anche armarsi. Non è un caso che Minniti che ha fortemente contribuito a definire la politica dei respingimenti (a lui si deve l’accordo con il premier della Libia Fayez al-Sarraj che l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha giudicato “disumano”), e che ha contribuito alla persecuzione giudiziaria di Lucano, ora guidi Med-Or, la nuova fondazione di Leonardo, la ex Finmeccanica, partecipata dallo Stato, che opera nei settori di difesa, aerospazio, sicurezza (cyber e non).

Più volte come Rete abbiamo condannato le politiche riguardanti le spese per gli armamenti (+2,6% nel 2020, anno della piena pandemia, arrivate a 1981 miliardi di dollari e in continua crescita. Fonte SIPRI), in un mondo in cui le guerre non si sono MAI fermate. Nel 2021 erano 30 effettive + 15 situazioni di crisi, inclusa l’Ucraina, dove una delle guerre più mortifere tra quelle cosiddette ‘a bassa intensità’ si è protratta dal 2014, mentre i Salvini e i Berlusconi di turno lodavano “il grande statista” Putin. Particolare e ‘dimenticata’ recrudescenza hanno poi avuto, recentemente, i conflitti in Etiopia e nel Sahara Occidentale (Fonte Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, 2021).

Ci preme qui sottolineare: lo stato permanente di guerra nel mondo; il fatto che le guerre non nascono a caso, come funghi, ma che ci sono sempre cause complesse che le determinano e attori diversi che le originano; il rapporto tra armi e affari, e il nesso tra sistema economico ed escalation militare; la totale deregulation delle vendite di armi; la quotazione in borsa delle aziende produttrici di armi, sia private che pubbliche (sono ben 195 le aziende italiane produttrici di armi quotate in borsa), per cui per sostenere il titolo si va a caccia di mercati e c’è una continua accelerazione degli investimenti2; il fatto che il nostro paese sia, a livello mondiale, all’11° posto per le spese militari, passate nel 2021 da 64 a 70 milioni di euro al giorno, e sia presente, con le sue forze armate, in 50 teatri di guerra.

Invitando tutte e tutti a riascoltare la lezione magistrale di Gino Strada “Verso un mondo senza guerre”, alla festa Scienza filosofia del 15/06/20183, intervento di un’attualità stringente, ricordiamo qui alcuni temi su cui ci sembra importante continuare a lavorare e riflettere:

  • La costruzione di un movimento internazionale per l’abolizione delle guerre come unica strada realistica per evitare l’autodistruzione del mondo.
  • La realizzazione di un percorso di disarmo, graduale ma progressivo, a livello di ONU, tema che purtroppo l’Assemblea ONU non ha ancora mai affrontato.
  • La diffusione di una cultura della pace, che ci aiuti, da un lato, a comprendere le cause delle guerre, e, dall’altro, a individuare percorsi nonviolenti per prevenirle e, una volta iniziate, per farle terminare.
  • La promozione di iniziative per portare le aziende di armi sotto il controllo pubblico, in modo che la loro produzione e commercializzazione dipenda dalle esigenze di sicurezza del paese piuttosto che dalle forze del mercato e della finanza.

Vogliamo ricordare infine, in chiusura, l’importanza della piena applicazione della Legge 185/90 sull’export di armi, attraverso un severo controllo del Parlamento, in attuazione dell’Art 11 della Costituzione. Va ricordato che lo spirito della legge è quello di promuovere una politica estera basata sul rispetto delle norme internazionali, con l’obiettivo anche di promuovere la costituzione di una agenzia europea per il controllo delle esportazioni di armi. Pertanto, non può essere considerata una legge sull’“industria militare”: deve controllare, non FAVORIRE l’export di armi! La legge contiene poi anche programmi relativi alla riconversione al civile, purtroppo mai realizzati in trenta anni.

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1 Zehava Galon, “Does ‘never again’ only refer to Jews?”, Haaretz, 7/3/2022.

2 Raoul Caruso, relazione su “Spese militari, industria di armi e conflitti al servizio del sistema economico”, seminario dell’Accademia delle Alpi Apuane, 4/03/2022.

3 https://www.arcoiris.tv/scheda/it/16880/addC

Febbraio 2022

La circolare di questo mese vuole presentare le ragioni della scelta del Coordinamento di accogliere l’invito lanciato dall’associazione Linea d’ombra ad aderire all’ICE “STOP BORDER VIOLENCE” (vedi e-mail inviata da Lucia Capriglione il 6 febbraio)

Di proposito non la chiameremo campagna in quanto si tratta, ben oltre la richiesta di adesione, di dare il nostro contributo a un’azione dal basso volta a produrre un cambiamento delle politiche migratorie della UE. Chiediamo un cambiamento che arrivi a mettere a nudo, ancora una volta, l’ingiustizia che segna i rapporti tra il mondo occidentale e tutto ciò che sta ai suoi margini, perché finalmente si trovino nuove e diverse modalità di co-abitare questa nostra terra. Come dice la filosofa Donatella Di Cesare “coabitare la terra impone l’obbligo permanente e irreversibile di coesistere con tutti coloro che, più o meno estranei, più o meno eterogenei, sulla terra hanno uguali diritti”(Cfr. D. Di Cesare, Stranieri Residenti).

L’iniziativa è resa possibile grazie a uno strumento di partecipazione diretta alla politica della UE che prende appunto il nome di ICE: Iniziativa Cittadini Europei. Attraverso questo strumento i cittadini possono chiedere alla Commissione Europea di proporre nuovi atti legislativi. Per ottenere che un’ICE venga accolta si deve raccogliere almeno un milione di firme distribuite su sette Paesi europei; dopo di che la Commissione decide quali azioni intraprendere.

L’ICE “STOP BORDER VIOLENCE” chiede che abbiano termine le torture e i trattamenti degradanti perpetrati nei confronti dei migranti dalle polizie dei vari stati alle frontiere d’Europa. Questo in ottemperanza all’articolo 4 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che afferma: “Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

L’ iniziativa è nella prima fase: si sta tessendo una larga rete di realtà il cui scopo è assicurare la metà delle firme necessarie, cinquecentomila, già alla partenza. In realtà in un primo tempo gli organizzatori avevano pensato di consegnare l’ICE tra fine febbraio e inizio marzo; ma poi è sembrato più sicuro per la riuscita dell’iniziativa presentare l’istanza avendo già raccolto metà delle firme.

Riteniamo che sia molto utile darsi più tempo. L’iniziativa, infatti, diventa l’occasione per sensibilizzare e offrire spazio a un confronto serio e articolato sulle politiche migratorie della UE, con tutte quelle realtà che si riuscirà a coinvolgere. Sta qui forse l’aspetto più propriamente politico dell’impegno a cui ogni rete locale è invitata, nel territorio in cui si trova ad operare, al di là del successo a livello istituzionale, pure sperato e importante.

Come recita il manifesto di “STOP BORDER VIOLENCE” (questo è il link:

https://www.stopborderviolence.org/it/eci-sbv-ita/#manifesto) dobbiamo davvero

Riprenderci l’Europa” di fronte alla “militarizzazione e alla esternalizzazione delle frontiere interne ed esterne; ai respingimenti brutali; alle violenze perpetrate nell’ambito degli Stati membri e nei Paesi terzi con cui l’Europa ha stretto accordi per impedire l’ingresso nel proprio territorio dei richiedenti asilo.” La spaventosa vicenda ai confini tra la Polonia e la Bielorussia ne è soltanto la più recente e violenta dimostrazione.

Per limitarci solo ad alcune note sulla politica migratoria dell’Italia, sappiamo la vergogna del Memorandum d’Intesa con la Libia il cui 5° anniversario è stato proprio il 2 febbraio 2022. Amnesty International scrive nel suo rapporto che le morti in mare nel 2021, di cui è stato possibile avere documentazione, sono state 1.553 e che le persone riportate in Libia sono state 32.425, un vero e proprio record (vedi articolo di “Domani” del 2/2/2022). E questo mentre la Corte Europea dei Diritti Umani, con una sentenza del 2012, aveva sancito che intercettare persone in mare e riportarle in Libia equivaleva a torturarle. Dunque, il Memorandum si è rivelato un trucco per aggirare il diritto internazionale. Lo stesso Ammiraglio Stefano Turchetto, capo della missione Irini (pace in greco) che opera nel quadro della difesa e della sicurezza della UE nel Mediterraneo, in un rapporto confidenziale di poco più di una settimana fa (fonte Associated Press) ha dovuto riconoscere che i guardiacoste libici continuano a macchiarsi di “uso eccessivo della forza” piuttosto che seguire “standard comportamentali adeguati…. in linea con i diritti umani”. Tra parentesi ricordiamo che l’Italia ha la facoltà di ritirare la firma dal Memorandum entro il 2 novembre prossimo, prima che si rinnovi automaticamente per altri tre anni.

Anche per quanto riguarda la frontiera orientale è risaputo che la polizia italiana ha compiuto gravi atti di violenza, compresi respingimenti di minori. Il settimanale on line Comune-info (Comune-info.net.) del 18 dicembre 2021, pubblica un’intervista a Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà, tra i fondatori del sistema di accoglienza Sprar (oggi Sai) e aderente all’ASGI (Associazione studi giuridici sull’immigrazione). Schiavone, nell’analizzare il sistema di accoglienza italiano, sottolinea che con una “decisione politica totalmente illegale” erano state date “istruzioni alla polizia di frontiera terrestre del Friuli Venezia Giulia di impedire, tutte le volte che ciò fosse possibile, ai cittadini stranieri che arrivavano dalla rotta balcanica di presentare domanda d’asilo in Italia e contestualmente respingerli in Slovenia. Non come richiedenti asilo, perché ciò non sarebbe stato possibile secondo la legge, ma come semplici “clandestini” che non avevano mai presentato la domanda di protezione internazionale”. Solo nel maggio 2020 la cosa è venuta alla luce.

Scriviamo questo per ribadire, ancora una volta, che la solidarietà per essere tale deve continuare ad assumersi la responsabilità di azioni che possano incidere politicamente contro le ingiustizie e in particolare le violazioni dei diritti umani.

Il Testo dell’Iniziativa, che si trova di seguito al Manifesto, invita a dare la massima diffusione all’ICE usando tutti i canali possibili e sottolineando che non basta condividere il sito su facebook, ma che è necessaria un’azione politica capillare, come dicevamo all’inizio. Dal punto di vista pratico le firme potranno essere raccolte sia on line che in cartaceo, ma riguardo alla raccolta attendiamo indicazioni più precise sui tempi e le modalità.

Per concludere ci sembra molto calzante quest’altro pensiero della filosofa Donatella Di Cesare che vorremmo diventasse l’augurio della buona riuscita di questa Iniziativa: “Occorre una politica che prenda le mosse dallo straniero, inteso come fondamento e criterio della comunità”.

Un caro saluto a tutti e tutte

Maria, Rete di Verona

Circolare Nazionale Rete Radiè Resch Gennaio 2022

Sempre più arrabbiati.

Sempre negativi.

Siamo a quasi due anni dall’inizio della pandemia in occidente.

Cresce la paura, aumentano i numeri dei contagiati, diminuiscono le informazioni dal mondo, già scarse ed ora nulle.

Tutti concentrati sul virus.

Quando si dice “gli altri siamo noi”: il covid comincia a Whuan in Cina alla fine del 2019 e arriva in occidente all’inizio del 2020.

Oggi a quasi 2 anni dalle prime informazioni ufficiali, gli auguri di un nuovo anno sono velate da insicurezza e speranza, prima fra tutte quella di essere sempre “negativo”.

Mai come in questo periodo la parola “negativo” ha il significato più positivo di tutte! Provate a cercare “essere negativo” su Google: vengono fuori link di quarantena, green pass, contatti, tamponi, FFP2, al quinto posto il significato della parola “negativo” con i suoi sinonimi e i suoi contrari.

Nel frattempo:

  • Non ci emozioniamo della gioia di un bambino che ci sorride se riesce e a scendere da solo un gradino
  • Non ci accorgiamo del camminare lento di un anziano e della sua fatica ad attraversare la strada perché nessuna macchina si ferma prima delle strisce pedonali
  • Le violenze verso le donne aumentano
  • Il governo Draghi per il 2022 ha portato le spese militari a 25,82 miliardi di euro (ma a cosa servono queste armi?)
  • I diritti dei migranti vengono ogni giorno violati lungo e dentro i confini dell’Europa
  • Continuano ad esserci le guerre

Raccontare un percorso, quello della nostra Rete di Torino sembra quasi innaturale, come se lo scorreredelle vicende dipenda unicamente dal virus. Ma proprio per questo, per rientrare nel vivo della nostra umanità, vogliamo condividere con voi la nostra scelta del progetto in Niger. Per lungo tempo siamo rimasti senza un prospetto specifico dopo la chiusura della collaborazione con il giornale di quartiere del Gapa di Catania e spesso ci siamo interrogati sulle possibilità da cogliere. Un progetto nuovo per noi rappresentava una forma viva di interazione con altre persone, di conoscenza, di condivisione di vita che sicuramente rivitalizzava la nostra coscienza, rispondendo ad un bisogno di dare un senso alle parole delle nostre riunioni. Cosi abbiamo preso contatto con diverse realtà; da Operazione Colomba in Palestina ( ci sarebbe piaciuto dare ancora un contributo per una terra alla Rete cosi familiare e martoriata) ad altre realtà che operano sul territorio, che però non ci hanno mai convinto…ma un “fil rouge” sembrava accompagnare silenziosamente le nostre vite: l’Africa ha cominciato a bussare ai nostri cuori quasi in contemporanea ed in vari modi, chi con l’accoglienza in casa di ragazzi, chi con un matrimonio (la nostra Laura è convolata a nozze con Moussa), chi ancora con progetti di affido di migranti non accompagnati. Sembrava proprio un destino segnato, e quando Moussa, durante una riunione, ci ha timidamente parlato del suo sogno di far costruire un pozzo d’acqua (il forage d’eau) per il villaggio in cui è nato è come se avesse tolto un velo davanti ai nostri occhi e ci siamo ritrovati uniti e solidali nell’appoggiare questa iniziativa. E’ bizzarro a volte il destino, ci si incaponisce a cercare con la logica delle risposte alle nostre domande ma magari è già tutto sotto gli occhi e non lo vediamo, non lo riconosciamo.Concentriamoci su quello che abbiamo e non su quello che ci manca.

A Capodanno di ogni anno speriamo che l’anno che verrà sia migliore.

Quest’anno speriamo che nell’anno che verrà saremo noi ad essere migliori.

Un abbraccio fraterno a tutti

RRR Torino

Circolare Nazionale Rete Radiè Resch
Dicembre 2021
Il seminario di Rimini (13-14 novembre 2021) è stata un’occasione per respirare l’aria pura che scaturisce dalla storia della Rete. Abbiamo ripercorso il suo cammino guidati da alcuni testimoni, lasciandoci interpellare dagli interrogativi del nostro presente.
Il quadro che ne è emerso richiama fortemente le radici. Secondo Ercole Ongaro la Rete nasce da un incontro (quello fra Masina e Gauthier) ed è terreno di incontri. Uno spazio di amicizia e di condivisione in cui i poveri diventano parte attiva del loro cammino di speranza. Negli anni sono cambiati alcuni riferimenti, ma è ancora forte la fedeltà ad una struttura organizzativa leggera, basata integralmente sul volontariato. La lettera appassionata di Carla Grandi ne è testimonianza preziosa e richiamo profetico. Come mette in evidenza Matteo Mennini, la Rete non si è mai trasformata in una associazione strutturata, inevitabilmente ancorata a figure professionali che fanno dell’impegno associativo il loro “mestiere” e ne condizionano l’evoluzione, nel bene e nel male.
Questa scelta di leggerezza organizzativa corre alcuni rischi inevitabili, il principale è quello della scarsa visibilità, che rasenta, nei momenti difficili, l’inconsistenza. Una limitazione percepita e vissuta da molti aderenti, di fronte alle grandi scelte che a volte la politica pare esigere. Più recentemente le casistiche definite dalla legge sulle organizzazioni di volontariato hanno suscitato un ampio dibattito, concluso tuttavia con soluzioni ancora provvisorie, a tratti carenti di chiarezza nella formulazione fin qui accettata.
Ci sarà ancora la Rete in un futuro ormai prossimo, quando le energie di alcuni grandi appassionati trascinatori potranno venire meno?
Filomeno Lopes ci invita ad accettare la ciclicità di ogni esperienza umana. Anche il tramonto può essere visto senza paura e senza nostalgia. La lotta alla globalizzazione dell’indifferenza ha un senso che va al di là del presente e si proietta nel futuro (oltre i figli, verso i nipoti). L’ascolto degli oppressi ha in sé un momento di riconciliazione con la propria storia, anche con una storia coloniale che gli italiani hanno spesso negato.
La continuità e la durata sono oggi fuori moda. La velocità della nostra comunicazione ci porta ad esigere i risultati di ogni nostro impegno. Il finanziamento tramite autotassazione invece, con la sua lentezza e con la sua esiguità (rispetto alle possibilità operative di organizzazioni no-profit che accedono a fondi pubblici e si danno una organizzazione manageriale), pare provenire da un’altra storia, fatta di testimonianza individuale più che di risultati visibili.
Inoltre il modello assembleare del coordinamento, che induce a prendere decisioni in modo lento e sempre provvisorio, stride fortemente con i modelli comunicativi in cui prevalgono lo slogan immaginifico e la sintesi autoritaria. E tuttavia questa fatica non è inutile. Nel coordinamento si mette in pratica l’esigenza di cogliere la dimensione strutturale e la valenza politica delle idee, nel confronto anche dialettico con altre prospettive convergenti. Stedile ci ha ricordato come i movimenti siano essenziali alla crescita della società: la politica da sola non basta, senza un humus sociale ed organizzativo carico di visioni innovative e di speranze che stimolino all’impegno disinteressato.
Gli schemi economici mondiali stanno cambiando rapidamente, a volte disorientando coloro che erano legati ad alcune abitudini di scontro ideologico (ad esempio: capitalismo di modello nord americano contrapposto al cosiddetto “terzo mondo”). Così la Cina, oggetto dell’intervento di Pietro Masina e di gran parte dell’opuscolo di Pier Paolo Pertino, sta diventando la maggiore potenza economica mondiale con caratteristiche nuove ed in parte inesplorate. In particolare Masina ha segnalato le forme di rivalsa verso le potenze europee che nell’Ottocento hanno imposto all’impero cinese la sudditanza economica. Da questo contrasto è nato uno stato a parole comunista, ma impregnato di legalismo formalista confuciano (che ignora i modelli occidentali di creazione del consenso), con una organizzazione fortemente verticistica del potere politico e con un sistemaeconomico che accetta tutte le logiche capitalistiche (Cina membro del WTO dal 1997). Masina ha accennato anche al timore atavico dei dirigenti cinesi per le forme di autonomia, che nel passato hanno determinato forme di frammentazione dello stato, timore che si concretizza nell’oggi con la repressione delle minoranze (gli uiguri turcofoni del Xinjiang, i tibetani, ma anche gli studenti delle grandi città costiere che vorrebbero spazi di libertà) e con la gestione autoritaria e spersonalizzante dell’emigrazione interna.
La riflessione di Antonio Olivieri, animatore dell’associazione “Verso il Kurdistan”, ci ha aiutato a leggere il complicato mosaico medio-orientale da un’altra prospettiva, quella di una identità etnico- linguistica dispersa fra cinque diversi stati e perennemente alla ricerca di qualche forma di autonomia (oggi particolarmente difficile in un’area egemonizzata dalle mire espansionistiche del governo turco guidato da Erdogan). Antonio ci ha parlato di piccoli progetti di sostegno sanitario e scolastico in zona curda, in cui le donne hanno un ruolo importante (vera eccezione in uno spazio culturale che sembra andare in altre direzioni) e ci ha lasciato nel cuore il saluto tradizionale curdo “ti porto sugli occhi”
Molto ricca è stata la riflessione sulle tradizioni popolari che esprimono lo spirito di un popolo. Così
abbiamo attraversato con lo sguardo i simboli della cultura Mapuche sempre a rischio di ghettizzazione e di emarginazione nel difficile incontro con la situazione politica cilena (la bandiera “cosmica”, l’albero sacro, il gioco collettivo del palin, la casa comunitaria). Dal filmato su Haiti abbiamo imparato a conoscere il “konbit”, termine haitiano-creolo che designa una forma tradizionale di lavoro comunitario, ritmato da canti, che valorizza l’aiuto reciproco nella preparazione dei campi.
Secondo Masina occorre fare però attenzione agli approcci idealizzanti a questi simboli identitari. La
ricerca dell’identità è anche una radice di tutti i nazionalismi. In tutte le tradizioni popolari ci sono meccanismi di esclusione e spesso riti ancestrali giustificano un ruolo marginale delle donne.
Da questo punto di vista Joao Pedro Stedile ci ricorda, fra le altre cose, la necessità di una attenta analisi di classe dei movimenti popolari, citando il pensiero di Gramsci.
Un discorso a parte merita la ricerca di un incontro con i giovani, a lungo discusso negli incontri di coordinamento e tema di iniziative importanti, come i seminari e i viaggi. Con efficacia e semplicità i giovani presenti ci hanno ricordato l’inutilità di catalogazioni collettive, che non appartengono agli individui concreti. I giovani sono molto diversi fra di loro, a volte distanti dagli schemi riassuntivi con cui proviamo ad incontrarli. La Rete è spesso in difficoltà con il loro modo di comunicare perché usa un linguaggio prevalentemente verbale, mentre le nuove generazioni si muovono con più agilità e partecipazione nel mondo delle immagini, in particolare quelle ricche di emozioni.
Fra i messaggi ripetuti nella comunicazione giornalistica di questi giorni emerge l’appello a “salvare
il Natale”. Naturalmente è l’invito legittimo alla prudenza contrapposto ai comportamenti che possano espandere il contagio, ma questa “salvezza” è spesso connessa alle stime sui consumi previsti (per lo più dai centri studi delle associazioni dei commercianti). Insomma dobbiamo “salvare” 14 miliardi di euro di spesa, sulla base dell’ultima previsione che ho letto per l’Italia. Difficile non fare il collegamento. E per noi difficile non pensare alle centinaia di persone che sono state respinte a colpi di acqua gelata nelle foreste della Bielorussia. O di quelle lasciate alla deriva nel cuore del Mediterraneo.
Il nostro augurio è quello di “salvare il Natale” nello spirito di questa storia della Rete. Una storia che
ha un percorso diverso rispetto alla logica che comunemente ci viene proposta come normale. Una storia che abbraccia tutte le profezie di questo tempo difficile. E getta un ponte fra tutte le persone che le condividono. Vi portiamo sugli occhi!
Il gruppo della Rete di Casale Monferrato

Circolare di Ottobre

Care e cari,

La nostra è la circolare dell’ascolto. Tante domande e poche risposte, tutte da costruire insieme.

Ascoltiamo voci di donne, di braccianti, di giovani. Siamo immersi nei movimenti, desiderose di esserci.

Ombre nere avanzano, oggi come allora, a Genova. La democrazia è fragile.

È il caso dei vaccini, l’antidoto è nella politica e nel conflitto sociale. Senza la garanzia dell’estensione globale della tutela della salute (quanti vaccini in Africa?) e della sicurezza collettiva, emergono forme di autoorganizzazione aristocratica dei sovranismi.

Che fare?

Ci sono domande epocali a cui non so rispondere. Ma a che punto è il conflitto sociale?

Sento dei rumori in lontananza, come mareggiate che si avvicinano.

Certo non è il 68, sogni di rivoluzione e di cambiamenti che hanno segnato la nostra generazione.

Le giovani della Casa delle donne sono attiviste senza paura, si contrappongono al potere locale (certo molto reazionario!) sfidando la legge.

Sono qui in cerchio ad ascoltare le loro voci. Tante denunciate, in attesa di processo. Ci abbracciamo, generazioni a confronto: un filo rosso ci lega. È il desiderio di non arrendersi.

Questo è il loro programma: “Nella realtà politica e sociale in cui ci troviamo a vivere, dove il genere e i corpi sono utilizzati per perpetuare l’assetto patriarcale, la difesa dello status quo misogino, colonialista, maschiocentrico, borghese, fondare uno spazio transfemminista è, forse prima ancora che lotta, necessità. Così è successo nella nostra città, dove il collettivo di Non una di meno Alessandria porta all’attenzione della città tematiche diversamente taciute. In un sistema in cui l’attività politica è stigmatizzata con la “scesa in campo” sorretti da una sigla politica, il nostro collettivo fa politica uscendo da tale binario, che garantisce esclusivamente l’adesione al sistema vigente. La nostra è la politica della discussione che parte dai nostri desideri, dalle nostre identità, dall’esigenza collettiva di riappropriarsi delle nostre vite, dei diritti e degli spazi

Viviamo e agiamo nel nostro territorio, portando alla luce le ferite gravi che infligge alle donne e alle libere soggettività, come la scarsa presenza di medici non obiettori e i sostegni alle realtà antiabortiste presso i consultori, la mancanza di una educazione affettiva non binaria nelle scuole ecc. Nello stesso momento, portiamo avanti la nostra lotta accanto alle sorelle di tutto il mondo, dando eco e sostegno alle battaglie transfemmiste globali”.

Quale legame con la Rete radié resch?

Non lo so, lo cerco nella sorellanza, negli affetti che ci siamo tramandate. Tante domande, poche risposte.

Agire e lottare. Dove?

Ho ascoltato i braccianti, i COBAS in lotta. Non si arrendono, sono aggrediti nei picchetti come alla Fiat negli anni 60. Molti gli stranieri solidali, presidiano i tribunali, non temono denunce e licenziamenti.

Ad Alessandria inizia una sorta di maxi processo, gli imputati sono 54, è un’azione per colpire lavoratori e avanguardie in lotta, esempio di repressione per un proletariato, o per ciò che è rimasto, nonostante un liberismo spietato. Le accuse sono ridicole in confronto ai furti in busta paga e ai licenziamenti operati dalle aziende. Si respira l’aria di Torino alla Fiat nel corso di lotte epocali, spesso vittoriose.

Ma ora il silenzio è tombale, di fronte a teoremi giudiziari e a processi farsa. Noi ci saremo per denunciare la giustizia borghese. È il filo rosso dei movimenti. Cosa dicono alla rete? Non lo so. Lo chiedo a voi. Noi ci siamo qui con loro. Forse si può riprendere la battaglia contro il decreto sicurezza proposto all’ultimo convegno.

Ascolto la voce di coloro che lavorano la terra: la salvano dal degrado, se ne occupano con amore.

Vengono da ogni parte, sono ragazzi e ragazze che toccano le zolle, piantano semi, vivono in comunione.

Sognano resistenze, un mondo nuovo. Genova non li ha schiacciati. Ogni piccolo germoglio è una speranza per noi tutti.

La rete ha un senso in questo progetto. Quale?

Rete di Alessandria

CIRCOLARE NAZIONALE SETTEMBRE 2021

Scrivo queste righe prima di tutto per me, per mettere ordine ai pensieri, su un tema che mi interroga da tempo; ma spero che questa piccola riflessione possa essere utile anche ad altri.

Lo faccio, sulla spinta di due eventi: la lettura di un libro (“Quello che non ti dicono”, di Mario Calabresi) ed una chiacchierata con Pier Pertino, sui fatti del G8 di Genova: con Simona lo abbiamo, infatti, pregato di narrare ai nostri figli gli episodi a cui ha assistito.

Calabresi racconta la vicenda di Carlo Saronio, rampollo di una ricchissima famiglia milanese e ricercatore presso l’Istituto Mario Negri, entrato a far parte di Potere Operaio, rapito per ottenere un riscatto ed accidentalmente ucciso, dai suoi stessi compagni. Il libro è anche un’occasione per ri-costruire “dall’interno” il contesto che ha dato origine al terrorismo di sinistra.

Mentre leggo, non posso fare a meno di pensare che si tratta, per forza di cose, un racconto di parte. Come è noto, Antonio Calabresi è figlio di Luigi, Commissario dell’Ufficio Politico della Questura di Milano, ucciso il 17 maggio 1972, (almeno a quanto ha stabilito il processo) da una cellula di Lotta Continua. E non posso fare a meno di pensare all’anarchico Giuseppe Pinelli, volato fuori dalla sua stanza della Questura di Milano, nella notte tra il 15 ed il 16 dicembre 1969. Un suicidio, secondo la versione ufficiale, anche se non risulta che avesse motivi per togliersi la vita ed era trattenuto illegalmente in Questura, scaduto ampiamente il termine di quarantotto ore, allora previsto per il fermo di polizia.

Mi disturba, quindi, vedere la Polizia assiomaticamente collocata tra buoni: ne conosco bene i metodi di oggi e di ieri (Scuola Diaz, Bolzaneto) e non faccio fatica ad immaginare quelli dell’altro ieri.

Ciò malgrado, Calabresi offre un interessate spaccato di quegli anni e di quegli eventi. Eventi a cui non ho partecipato (ero un bambino) e che conosco solo per la vulgata ufficiale e per qualche racconto di chi c’era. Del resto, non c’ero nemmeno nel luglio 2001: mentre i manifestanti venivano massacrati e Carlo Giuliani era ucciso a Piazza Alimonda, io e Simona, sposati da poco, stavamo iniziando ad organizzare il nostro primo viaggio in Sud America, in visita ai suoi parenti uruguaiani, che avremmo fatto l’inverno successivo

Ma anche questo mi collega al libro, perché le tecniche di lotta armata utilizzate dai sequestratori erano mutuate da quelle di guerriglia urbana dei Tupamaros, che si opponevano alla dittatura fascista allora al potere proprio in Uruguay. Dittatura che i parenti di Simona (notai e piccoli proprietari terrieri) definivano, nei loro racconti, “non particolarmente sanguinaria”. Ero, come dire, dalla parte sbagliata anche quella volta.

Ma i collegamenti non finiscono qui: una delle principali fonti del libro, certamente la più citata, è Gianni Tognoni, allora amico intimo di Carlo Saronio, poi fondatore del Tribunale Permanente per i Diritti dei Popoli ed interlocutore delle Rete per moltissimi anni.

Insomma, la Rete nasce nel brodo di coltura descritto nel libro. Non solo: in quel contesto, chi aderisce alla Rete fa, per quello che posso capire, una scelta profondamente controcorrente: non la lotta armata, non lo scontro tra rigidi schieramenti ideologici, ma un lavoro di analisi che va alle radici del sistema, un’opera di controinformazione che privilegia la testimonianza diretta dal sud del mondo, l’opzione definitiva per piccoli progetti a favore di chi non ha voce.

Credo sia per questo che un’organizzazione che nasce da ideali tipicamente novecenteschi, si sia insinuata così profondamente nel nuovo millennio

Ora, chi si illudeva di cambiare il mondo con la scorciatoia della violenza, ha certamente fallito. E noi?

Abbiamo attraversato il vento della Storia, ma la nostra incidenza su di essa è stata assolutamente marginale. Non abbiamo neppure intaccato il Sistema che, anzi, si è consolidato ed evoluto in direzione opposta alle nostre speranze. Quello che tentavamo di contrastare nel sud del mondo, ora lo abbiamo alle porte. Il cappio si stringe anche attorno al collo delle nostre nuove generazioni.

Certamente, siamo stati parte di moltissime storie e ne portiamo la memoria, i legami, i doni e le ferite.

Oggi, però, mi (ci?) assale una sensazione di impotenza e di inadeguatezza. I numeri calano, le forze diminuiscono, è forte la sensazione che nessuno ci ascolti o, forse, ci capisca. Il nostro sistema di valori, così chiaro nel mondo di cinquant’anni fa, basato su contrapposizioni nette, sembra perdersi nell’orizzonte liquido di oggi. Forse, non abbiamo l’età, gli strumenti e neppure la voglia di con-frontarci con i nuovi mezzi di comunicazione. Ma – diciamocelo una volta per tutte – è davvero possibile fare un’analisi profonda della realtà su Whatsapp o raccontare un nostro viaggio di cono-scenza su Istagram? Forse le nostre circolari, che sanno di ciclostile ed affrancature postali, sono ancora lo strumento più adatto per un messaggio che non sia superficiale ed imprigionato in ottanta battute.

Anche i nostri strumenti abituali mal si adattano alla realtà: è ancora possibile, ad esempio, proporre l’autotassazione a chi non ha un lavoro stabile o invitare ad un coordinamento chi non ha orari e lavora anche il sabato e la domenica? Eppure, siamo ancora qui ad operare e ad interrogarci sul senso e sui modi della solidarietà oggi. Eppure, il nostro esserci ancora è un sassolino nell’ingranaggio del Sistema. Non dobbiamo avere la presunzione di essere i soli, ma neppure perdere di vista il senso ed il peso della nostra testimonianza.

Chi ci ha preceduto, ha mostrato, anche in momenti difficili e di fronte alle peggiori sconfitte, una fede ed una forza che ancora mi (ci?) interrogano: saremo capaci di fare altrettanto?

E allora, che fare?

Io non ho ricette. Dico solo che, ancora una volta come più di cinquant’anni fa, la scelta giusta sarà quella che ci porterà controcorrente, fuori dagli schemi piatti e banali della nostra epoca stanca. Ag-giungo che, di nuovo, dovremo essere creativi, pensare a qualcosa che non è stato ancora pensato. E mi pare che la nostra attuale Segreteria condivisa si stia muovendo proprio in questa direzione.

Se poi, tra cent’anni, la Rete dovesse finire, non dovremo addolorarci: tutte le cose umane sono a termine e gli infiniti semi che avremo gettato nel tempo, germoglieranno, anche se in modo diverso da come ci saremmo attesi.

Marco Rete di Varese

RIFLESSIONI PER L’ESTATE 2021.

Carissime e Carissimi,
alcune riflessioni in preparazione del nostro prossimo seminario/congresso del 13 e 14 novembre a Rimini.
Il tono è umile, immaginate visi sorridenti ed attenti all’ascolto e, soprattutto, persone che si stanno interrogando e chiedono di condividere il percorso.
E’ trascorso un anno da quando la Rete Radiè Resch si è ritrovata a non avere “una segreteria”.
Il “laboratorio”, composto da alcune persone, ha dato vita ad una fase sperimentale ed ha cercato di svolgere al meglio e nei limiti della contingenza i cosiddetti “compiti della segreteria”.
Dopo il difficile coordinamento in presenza di settembre 2020 la discussione sulle motivazioni di questa “sede vacante” non è più stata ripresa; la difficoltà del momento e nell’uso di internet ha molto limitato gli spazi dei coordinamenti in remoto, che sono stati forzatamente tecnici.
Oltre a quelle -terribili- legate alle malattie ed ai lutti, durante questo anno sono emerse molte
difficoltà all’interno della nostra associazione che, comprensibilmente, sono state condivise con telefonate private, scambi personali o tra pochi, non essendoci lo spazio fisico per farlo
diversamente.
Uno dei motivi dell’assenza di UNA tradizionale segreteria forse risiede nel fatto che la Rete non è più UNA, le organizzazioni interne, le esigenze, il modo di gestire i bilanci all’interno delle Reti si sono andati via via sempre più differenziando così come la visione delle operazioni e del modo di condurle.
Lo stesso vale per l’aspetto politico, sostanziale e fondamentale nel nostro agire e sul quale ci si sofferma sempre meno, stesso dicasi per i legami con i territori.
Tutto questo, rende difficile formulare un ordine del giorno per i coordinamenti
perché qualcuno rimane sempre scontento o frustrato.
Ci sono Reti che sentiamo nominare di cui difficilmente vediamo i volti anche se la possibilità di collegarsi in remoto paradossalmente in questo avrebbe potuto aiutare: si sentono “rete” o satelliti di altre reti? Ci sono ancora?
Da marzo 2020 a causa della pandemia contemporaneamente ci è stato tolto tempo e ci è stato dato tempo.
Tempo per fermarsi, valutare e sognare.
Nel nostro ultimo coordinamento a distanza abbiamo avuto occasione di cominciare a stimolare un po’ alcuni di questi temi ed è emerso che molti sentono il bisogno di una riflessione in tal senso e per questo abbiamo deciso di trasformare il coordinamento di novembre in un seminario/congresso.
Non abbiamo potuto realizzarlo a settembre per motivi logistici e di costi verificati con l’hotel di Rimini, dove avevamo preso impegno con una caparra per la realizzazione del convegno 2020.

Per il seminario/congresso ci sentiamo comunque di proporre ad ogni Rete un piccolo compito delle vacanze… e ci piacerebbe che fosse scritto così da essere messo in comune con le altre Reti.
La proposta audace ed inedita di scrivere e condividere le proprie riflessioni vorrebbe avere l’obiettivo di far sentire ogni voce, anche la più sommessa.
Le stesse intenzioni erano alla base del “viaggio tra le Reti e con le Reti”, più volte promosso sia in forma “fisica” che in forma “virtuale” e che, ad oggi, non pare essere parte delle priorità.

Seguono gli spunti di riflessione.
NUOVI SCENARI UMANI, POLITICI ED ECONOMICI DENTRO E FUORI LA RETE, COSA SAREBBE NECESSARIO CAMBIARE? COME RIATTIVARE L’IMPEGNO POLITICO DELLA RETE?

1. LA RELAZIONE
ALL’INTERNO DELLA RETE.
La pandemia ci sta tenendo lontani da un po’ e stiamo tutti realizzando che l’incontro fisico alimenta meglio la relazione ed il confronto. D’altra parte gli incontri a distanza permettono anche ad altri di partecipare ai coordinamenti.
Domanda: sarebbe opportuno attrezzarci per incontri in forma mista senza correre il rischio che la comodità ci impigrisca e ci faccia trascurare l’incontro fisico dove non ci sono altri impedimenti a praticarlo?
Prima della pandemia, però, già molti gruppi e/o persone frequentavano meno, alcuni dei più giovani partecipanti non li conoscono nemmeno.
Domande: Come ritessere questi rapporti? Come far sentire alle persone e ai gruppi in difficoltà la vicinanza e l’amicizia della Rete? Senza, naturalmente, nessuna pretesa di ripresa di impegno, ma gratuitamente?
Da tempo proponiamo un viaggio tra le Reti, questo stenta a decollare solo per la pandemia o ci sono delle perplessità? Ci piacerebbe conoscerle ed avere il modo di darvi una risposta.

CON L’ESTERNO: I PROGETTI
La pandemia ha aggravato alcune difficoltà di comunicazione con i referenti di alcuni progetti ed ha impedito a chi riusciva a farlo di raggiungere queste comunità con dei viaggi, inoltre non abbiamo potuto svolgere il nostro convegno al quale alcuni testimoni partecipavano e giravano un po’ l’Italia, dandoci la possibilità di un ascolto diretto e condiviso con altri.
Domanda: Negli ultimi coordinamenti abbiamo sperimentato collegamenti on line con alcuni referenti, che ne dite di passare dall’esperimento alla prassi?

CON L’ESTERNO: I NOSTRI TERRITORI
I nostri gruppi territoriali sono ormai formati da pochi membri ma condividiamo tutti il nostro percorso con altre realtà dei territori.
Domanda: In questa relazione che vi chiediamo di scriverci, ci raccontate le realtà con cui camminate e in che tipo di percorsi?

2. I PROGETTI.
Tra i criteri principali che la Rete aveva dato per la scelta dei progetti ci sono: la relazione, l’accompagnamento all’autonomia, la brevità e le piccole dimensioni. Alcuni di questi non riusciamo più a rispettarli perché purtroppo le situazioni e le scelte politiche stanno aggravando le situazioni di queste comunità.
Domande: anche alla luce della diminuzione delle nostre entrate economiche, come rivedere i progetti e il loro finanziamento? Diventano il nostro unico impegno per cui studiamo come reperire ulteriori fondi? O li riduciamo, attrezzandoci, invece, per rivitalizzare l’impegno politico e di informazione che la Rete si era assunta?
Altre riflessioni riguardo il finanziamento dei progetti. Come detto in premessa, queste non sono solo nostre riflessioni ma sono anche frutto di scambi telefonici o tra pochi.
Ci sono due sensazioni che emergono particolarmente: una è di essere diventati una sorta di bancomat, sia per alcune comunità, sia per altre realtà con le quali percorriamo insieme da un po’ il nostro percorso. La seconda è che al nostro interno si stiano verificando casi in cui si è molto concentrati sulla tenuta e finanziamento del proprio progetto proposto e seguito, senza condividere le difficoltà che tutta la Rete sta vivendo e senza tener conto che non tutte le Reti territoriali hanno le stesse possibilità sia economiche che di impegno.
Domanda: Che senso ha allora versare le nostre restituzioni in una cassa comune e discutere in un coordinamento nazionale l’opportunità del prosieguo o meno di un progetto?

3. LA POLITICA
Le riflessioni precedenti, un sistema economico finanziario che condiziona la politica ed aggrava la povertà esistente creandone anche altra: le migrazioni, i cambiamenti climatici… Dovremmo, forse, rammentare le parole del nostro ispiratore Poul Gautier: “Le vostre preghiere e le vostre donazioni non serviranno a nulla se non cercherete di incidere sulle scelte politiche dell’occidente”…scelte che ormai stanno ferendo profondamente anche l’occidente e da tempo ormai i sud non sono più geografici.
Domanda: come dicevamo all’inizio, come rivitalizzare l’impegno politico della Rete? A livello territoriale sicuramente ogni gruppo in rete con altre realtà lo fa, ma come impegnarci anche come Rete Nazionale? Un tempo c’erano le cartoline! Oggi sono state sostituite da strumenti tecnologici. Raccolta firme, mail bombing…li condividiamo? Crediamo siano utili?
Ci viene spesso chiesto di aderire a delle campagne, lo facciamo, ma molto frequentemente il nostro impegno si ferma proprio all’adesione. Se, invece, ne prendessimo in considerazione una per tutte e ci dedicassimo ad essa in modo organico e costante? Una campagna contro gli armamenti, ad esempio? Toccando così tanti problemi e tanti valori. Una campagna da sostenere sia mediante le azioni proposte dall’iniziativa nazionale ma anche nella formazione e nell’informazione?

4. L’eredità della Rete
L’età anagrafica ci affatica e ci rendiamo conto del tesoro che la Rete ha accumulato; un tesoro fatto di relazioni e amicizie, di valori ed esperienze, di militanza politica e cittadinanza attiva.
Domande: Quale ci immaginiamo possa essere la nostra eredità come Rete? Chi vorremmo che la accogliesse?
Durante gli scorsi coordinamenti è stato riaffrontato il discorso della creazione di un “Fondo giovani”. Ci siamo potuti rendere conto di come questo punto abbia creato un dibattito molto partecipato. La proposta di mettere da parte un gruzzoletto(?) per i ragazzi era già stata approvata ma ci sono state vivaci discussioni in merito, prendendo anche in considerazione la diminuzione dei fondi economici. Il progetto giovani è stato pensato per permettere alle nuove generazioni di conoscere e in qualche modo, ereditare la rete di amicizie che sono state strette negli anni. Con questo progetto volevamo esprimere la volontà di dare l’opportunità a giovani ragazzi di agire nel qui e nel la: di viaggiare per conoscere le realtà nelle quali abbiamo creato solidi legami affinché i ragazzi del la possano venire nel qui e viceversa. Abbiamo pensato a questo, non come ad una vacanza ma una possibilità arricchente che dia spazio a restituzioni e riflessioni gioiose; di agire localmente per alimentare la coscienza e conoscenza politica territoriale.
Domande: Pensiamo che questo sia importante per la Rete? Quali sono le perplessità? Ci sono altre proposte o alternative in merito?

I vostri scritti ci permetteranno un ampio ascolto e saranno la base della preparazione del seminario/congresso di novembre, pertanto vi esortiamo ad inviarceli entro la prima metà di settembre.
Sperando di non affaticarvi ma anzi di favorire incontri gioiosi, semmai da estendere anche alle realtà territoriali con cui siete in cammino, vi auguriamo una serena estate e ci auguriamo di abbracciarci tutti molto presto.

La segreteria laboratorio

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