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Padova Luglio 2023

Perché mi uccidete?”

Ma come! non dimorate dall’altra parte del fiume?

Amico, se dimoraste da questa parte, io sarei un assassino

e sarebbe ingiusto uccidervi in questo modo;

ma dal momento che dimorate dall’altra parte,

io sono un coraggioso e la mia azione è giusta”.

(pensieri di B. Pascal)

Un iniziale “caldo” saluto, a tutte e tutti.

Non possiamo iniziare questa ns mensile comunicazione senza il ricordo per p. Ezechiele Ramin – Lele.

Ezechiele è stato ucciso il 24 luglio 1985 a 32 anni con tanti sogni e speranze: “Ho la passione di chi segue un sogno ( … ) camminare su strade che non hanno arrivo, che non hanno un cielo dove sento soltanto la piccola gioia cavata fuori con una fatica tremenda”.

Faremo memoria di padre Ezechiele con i Comboniani alla parrocchia di san Giuseppe, Padova, lunedì 24 luglio alle 19.00. Chi può venga a cantare il suo ricordo.

Fatica, sogni e speranze anche per Haiti, come ci scrivono Jean e Martine , con le loro ultime e preoccupanti lettere, scritte con costanza e fiducia a Francesco e a suor Gabriella.

Ciao Cesco, noi a volte in Cabaret, a volte in Arcahaie.
Perché i gruppi armati sono molto vicini al Centro di Cabaret, per questo stiamo molto attenti.
Ma la strada per andare a Port au Prince è controllata dai banditi.
Gli interventi della polizia haitiana sono inefficaci al punto che alcuni settori della società sono del parere per l’intervento di una forza straniera.
Questa situazione rende ancora più difficile la vita ad Haiti, che era già molto complicata. Molte persone lasciano il paese per vivere in Canada e negli Stati Uniti; il programma di Biden offre agli haitiani che vivono negli Stati Uniti l’opportunità di fare domanda per i propri cari ad Haiti.
Martine ed io, per il momento non vogliamo lasciare Haiti, perché il nostro lavoro è molto importante per FDDPA e per le comunità, soprattutto in termini di salute e istruzione.
Quindi, ora stiamo lavorando anche con
Balansè (agronomo e politico di Verrettes, collabora attivamente nella formazione contadina) che combatte contro i gruppi armati nell’Artibonite e stiamo iniziando a vederne i risultati.
Vi farò sapere di più la prossima settimana.
Ciao, ciao… buona giornata

Cara suor Gabriella, siamo molto felici di sentirti.

Questa settimana si riparte timidamente con la scuola, ma la maggior parte dei genitori ha paura di mandare i propri figli, è normale con questo clima di insicurezza che si preoccupino. I nostri figli sono tornati tutti nelle loro scuole.

Sì, il trasporto è sempre più difficile, ma Jean continua ad andare a lavorare con i mezzi pubblici.

Organizziamo una clinica mobile una o due volte al mese a Fondol e la scuola funziona bene tutti i giorni a Fondol.

La scuola di mio fratello ora funziona ma chiuderà i battenti a giugno perché pochi genitori mandano i propri figli. La mia famiglia ti ringrazia per la tua grande gentilezza nei loro confronti, ne avevano un grande bisogno.

Sì, ci stiamo preparando per il campo estivo a Fondol ma sarà molto difficile perché non potremo andare a prendere food for the poor (cibo della ONU) a causa delle bande che occupano le strade. Per questo avremo bisogno di soldi per il cibo dei bambini che saranno un centinaio.

Restiamo a casa di Dubuisson a pregare la nostra sé Dadoue.

Per la festa della mamma abbiamo organizzato cliniche mobili per tutte le donne: è stato un grande successo.

Abbiamo installato un altro laboratorio a Saint Médard, Arcahaie e lavora tutti i giorni, mentre quello di Cabaret lavora al rallentatore data l’insicurezza che vi regna.

Ciao a tutti, un bacione

Guterres: una missione ad Haiti «per scacciare l’incubo ad occhi aperti»

Avvenire – Lucia Capuzzi venerdì 7 luglio 2023

Nella notte tra giovedì e ieri, una ventina di uomini armati ha fatto irruzione nell’ospedale di Medici senza frontiere (Msf) di Tabarre, quartiere di Port-au-Prince. Una volta entrati, si sono introdotti in sala operatoria e hanno portato via il giovane ancora sotto anestesia al termine di un intervento per varie ferite di proiettili, ricoverato il giorno precedente. L’Ong-Premio Nobel è stata costretta a fermare temporaneamente le attività nella clinica. «Come possiamo continuare a curare le persone in un simile contesto?», ha tuonato Mahaman Bachard, responsabile di Msf ad Haiti, dove si simili episodi sono quotidiani. Letteralmente «un incubo ad occhi aperti», come ha detto António Guterres. Dal Palazzo di Vetro, ieri, ha voluto lanciare un ennesimo grido d’allarme per l’isola da cui è appena rientrato. Il segretario generale ha deciso stavolta di muoversi in prima persona per cercare di convincere la recalcitrante comunità internazionale a «creare le condizioni per schierare una forza multinazionale» nel Paese più povero e ormai più violento dell’Occidente. «Non parlo di una missione militare o politica dell’Onu – ha aggiunto, a scanso di equivoci ­–. Ma di un consistente dispiegamento da parte degli Stati membri di forze di sicurezza che lavorino insieme alla polizia nazionale haitiana per smantellare le gang e restaurare la sicurezza». Almeno un minimo.

Sono trascorsi esattamente due anni – ieri – dall’omicidio mai chiarito di Jovenal Moïse. Un presidente controverso. La sua smania di restare al potere gli ha alienato il consenso di una parte della stessa élite che lo aveva scelto. Soprattutto, però, Moïse ha reso endemico il “tradizionale” ricorso alle bande da parte dei politici per cooptare il consenso. Fino a perderne totalmente il controllo. Ormai ben armate, queste ultime hanno dato vita a un conflitto del tutti contro tutti per accaparrarsi brandelli di Port-au-Prince da cui estrarre risorse – umane, cioè soldati da reclutare con la forza – e materiali, con sequestri ed estorsioni. Oltre l’80 per cento della capitale è nelle loro mani cruente. Il terrore – con massacri, esecuzioni extragiudiziali, stupri di massa – è lo strumento principale con cui ottengono l’obbedienza di quanti non riescono a fuggire, aggiungendosi al fiume già enorme di 128mila sfollati interni nella sola capitale. Abusi documentati fin nei più macabri dettagli dalla missione Onu nel Paese (Binuh), da numerose Ong, dalla Chiesa. Da aprile il contesto si è ulteriormente complicato con la comparsa di milizie di cittadini armati responsabili – secondo la speciale rappresentante Onu per Haiti, María Isabel Salvador – della morte di 265 persone sospettate di essere parte delle gang. Molti di questi sono stati linciati per strada. La guerra, invisibile all’opinione pubblica occidentale quanto reale, ha trasformato l’emergenza umanitaria cronica in catastrofe: 5,2 milioni di abitanti, di cui tre milioni sono bambini, hanno necessità di assistenza per sopravvivere.


A dargliela non può essere lo Stato che si è letteralmente liquefatto dal 2021: nel Paese non c’è più alcun rappresentante eletto, il potere giudiziario è bloccato mentre l’autorità del premier, Ariel Henry – subentrato al presidente assassinato – è poco più che nominale. Il Consiglio di transizione, instaurato alla fine del 2022 su pressione della comunità internazionale, nonostante le buone intenzioni, non riesce a incidere. «È facile capire perché oltre il 90 per cento della popolazione, in questa situazione, sia favorevole a un intervento delle Nazioni Unite, nonostante gli errori del passato», racconta suor Paesie, al secolo Claire Joelle Phillipe, residente ad Haiti dal 1999 dove ha fondato la Famiglia Kizito per la tutela dell’infanzia. Dopo quasi un anno di stallo, dopo il viaggio di Guterres, l’ipotesi della missione sembra riprendere quota. Henry, al ritorno dal vertice di Trinidad e Tobago dove ha incontrato il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha parlato di «una soluzione più vicina per la sicurezza». Nel frattempo i combattimenti proseguono, concentrati soprattutto nell’ovest della capitale, a Gran Ravine e Carrefour. Cité Soleil, invece, è incredibilmente pacifica dal 28 giugno, dopo settimane di battaglia.

Per la prima volta dopo oltre un anno, le persone possono perfino passare le “frontiere” tra le aree controllate dalla banda di G9 e quelle “appartenenti” a Gpep. «L’ho fatto anche io e quasi non ci credevo – aggiunge –. Le vedette delle gang sono ancora al loro posto. Ma non sparano». Pierre Esperance, noto attivista per i diritti umani, sostiene che l’artefice della tregua – ben remunerata – sia l’ex presidente ed ex patron di Moïse, Micheal Martelly, nella speranza di vedersi alleggerire le sanzioni comminate nei suoi confronti dal Canada. Una pace cosmetica, dunque, tragicamente precaria. Quella vera deve ancora attendere.

CIRCOLARE DI GIUGNO – RETE DI TORINO & DINTORNI

Noi della Rete Radiè Resch spesso parliamo di un “qui “e di un “là” rischiando a volte di chiuderci in categorie che in questo nostro mondo fluido sono ormai anacronistiche.

Credo che questa dimensione fluida del nostro esistere abbia anche una connotazione positiva: infatti esprime anche movimento, cambiamento, dinamicità, aspetti che caratterizzano le società in cui viviamo, le nostre famiglie, le nostre storie personali.

I popoli si muovono – come sempre è stato – in molte direzioni. Siamo un po’ tutti migranti: chi per fuggire dalle guerre, dalla povertà, dalle persecuzioni; chi in cerca di un impiego dopo un percorso di studi che non trova sbocco nel proprio paese, oppure per la propria attività lavorativa, o ancora perché desidera vivere nuove avventure in un posto sconosciuto.

Capita però di mettersi in movimento, di cambiare qualcosa nella propria vita pur rimanendo a casa, nella propria città, nel proprio Paese.

È ciò che stiamo vivendo noi da quando Turky è entrato nella nostra famiglia, circa un anno e mezzo fa.

Turky aveva 17 anni quando è arrivato in Italia nell’ottobre 2021 grazie a” Pagelle in tasca” un progetto realizzato da Intersos e che che descrivo brevemente qui sotto trascrivendo dal sito dell’organizzazione:

Il progetto “PAGELLA IN TASCA – Canali di studio per minori rifugiati” è un progetto pilota che ha l’obiettivo di promuovere l’ingresso con un visto per studio di 35 minori non accompagnati attualmente rifugiati in Niger, affinché possano avere l’opportunità di venire in Italia a studiare senza dover rischiare la vita su un barcone nel Mediterraneo.

Si tratta della prima sperimentazione a livello internazionale di un complementary pathway per minori non accompagnati, un nuovo canale di ingresso regolare e sicuro fortemente innovativo rispetto ai canali ad oggi attivi, in quanto:

  • è dedicato specificamente alla protezione dei minori non accompagnati, attualmente esclusi dai corridoi umanitari da paesi extra-UE e dalla maggior parte degli altri canali di ingresso;

  • è finalizzato alla promozione del diritto allo studio ed è fondato sul rilascio di un visto di ingresso per studio non universitario, previsto dalla legge italiana per minorenni tra i 15 e i 17 anni, ma ad oggi mai utilizzato per promuovere l’ingresso di minori rifugiati;

  • prevede che i ragazzi vengano accolti da famiglie affidatarie, a differenza di quanto accade alla quasi totalità dei minori non accompagnati presenti in Italia, che sono accolti in strutture per minori. Si tratta di un meccanismo di community sponsorship, che prevede, al fianco delle famiglie, anche il coinvolgimento di tutori volontari e organizzazioni del privato sociale, con un ruolo centrale dei Comuni e delle scuole.

Mi piace sottolineare che questo progetto ha il pregio di aver usufruito di una legge già in vigore ma mai applicata a minori stranieri non accompagnati.

Trovo molto interessante che dall’incontro di leggi istituzionali e organizzazioni attente ed illuminate possano nascere iniziative capaci di creare nuovi percorsi per chi realizza il progetto stesso e nuove prospettive per chi ne beneficia.

Purtroppo spesso risorse e opportunità messe in campo anche in ambito istituzionale e progetti realizzati negli stessi ambiti che beneficerebbero di esse viaggiano su binari paralleli rendendo vana la possibilità di creare sinergie e collaborazioni.

Per rendere realizzabile questo progetto di affido di minori stranieri non accompagnati è stato fondamentale unire diverse forze, istituzionali e non, diventando perfino un modello a cui anche altri paesi si stanno ispirando.

Diventare famiglia affidataria per noi significava dare a Turky l’opportunità di realizzare il suo sogno di studiare. Ciò che ci ha spiazzati è stato accorgerci che Turky è un ragazzo che, come tutti gli altri ragazzi arrivati con lui, vive nella contraddizione di cercare da un lato di diventare come “noi” e dall’altro di conservare e difendere la sua identità. Vediamo in lui la volontà di identificarsi nel modello nord-euro-occidentale soprattutto nei suoi aspetti peggiori: la ricerca della ricchezza, il consumismo, l’individualismo. Allo stesso tempo però percepiamo il suo orgoglio di appartenere ad una cultura che, per alcuni aspetti considera “migliore” della nostra e che lo autorizza a criticare il nostro modo di vivere.

Relazionarci con Turky è come guardarsi in uno specchio: in lui vediamo le contraddizioni del nostro “qui” ma al tempo stesso vediamo anche quelle del suo “là”.

Appartenere al “qui” o al “là” non è più, quindi una questione geografica, ma di senso della vita, di valori, di riferimenti.

L’unico modo per superare questo dualismo è contaminarsi, modificarsi, essere disposti a cambiare prospettive, paradigmi

Quando due mondi si incontrano, inevitabilmente gli equilibri cambiano, si iniziano a percorrere nuove strade. Ci si rende conto che i registri comunicativi sono diversi, come anche il modo di intendere le relazioni reciproche. Il significato stesso e il valore di realtà come famiglia, casa, tempo, sono differenti. Parole come rispetto, fiducia, affetto, possono esprimere concetti diversi.

Tutti ci siamo messi in movimento: imparando a cucinare e a mangiare cibi nuovi; modificando quegli atteggiamenti che potrebbero essere fraintesi e provocare sofferenza; modificando alcune abitudini; imparando a conoscere le nostre reciproche culture e individuandone ricchezze e limiti.

Inizialmente pensavamo che le difficoltà sarebbero state abituarsi a relazionarsi con un ragazzo che ha una cultura diversa, che ha abitudini differenti. Invece la sfida più grande per noi è cercare di aiutarlo a prendere coscienza dell’iniquità del modello nord-euro-occidentale che sembra capace di fagocitare anche le menti e i cuori di chi ha vissuto su di sé gli effetti di tale modello: l’ingiustizia, la povertà, il sopruso, la violenza,

Quando parliamo di valori, così cari alla Rete come la giustizia, la difesa dei diritti nei confronti dei più fragili e di chi non ha voce, la solidarietà, la cura dell’ambiente, la gratuità, ci rendiamo conto che Turky fa fatica a riconoscersi in essi. Aver vissuto il dramma della guerra in Sudan, essere dovuto scappare a 9 anni con la mamma in Libia, essersi separato da lei a causa della prigionia, essere scappato da solo per ritrovarsi prima in Niger e poi in Algeria; essere nuovamente catturato e rimandato in un campo profughi in Niger prima di riuscire ad aderire al progetto di Pagelle in tasca, sicuramente gli ha insegnato che ognuno deve combattere la propria battaglia da solo per sopravvivere.

Per tutto ciò sentiamo forte la responsabilità di essere il più possibile coerenti con i valori che vogliamo testimoniare, sia nelle piccole che nelle grandi scelte quotidiane: è in gioco la nostra credibilità.

Certo non sempre è semplice vivere questa esperienza, perché è un continuo ridefinirsi, rimettere tutto in discussione, rivedere punti di vista. Nonostante ciò sono contenta di aver intrapreso questo cammino perché mi ha permesso di scoprire nuovi mondi: mondi propri di un’altra cultura, mondi nascosti nel cuore di un ragazzo che è dovuto fuggire dalla sua terra, dalla sua famiglia, dalla sua storia, ma soprattutto ho scoperto una parte di mondo che era dentro di me e che ancora non conoscevo.

Desideravo condividere con voi tutti questa nostra esperienza perché la considero una grande ricchezza, un grande dono e, come tale, ha valore solo se condiviso.

CIRCOLARE NAZIONALE – MAGGIO 2023

A cura di Toni Peratoner – Rete di Udine

Riprendo l’ultima parola della circolare nazionale di aprile, da poco giuntaci: democrazia. Il seminario del Triveneto, conclusosi il 15 aprile a Padova, a mio parere ha aperto un orizzonte interessante per il nostro cammino come RRR. Questo mi stimola a risalire alle radici delle motivazioni che hanno spinto il gruppo friulano dell’Associazione per la Decrescita ad intraprendere la strada faticosa e irta di ostacoli e di incognite rappresentata dalla costruzione di Comunità trasformative.

Parto da lontano, circoscrivendo le problematiche il più possibile, consapevole del rischio di semplificare una questione immensa, non argomentabile certamente in una pagina.

C’è da parte di molti di noi una grande preoccupazione sulla consistenza della nostra democrazia, che ritengo debba ancora essere ridefinita dentro i processi che la modernità e il modello socio-economico attuale stanno agendo in una desolante penuria di voci, non solo da parte degli analisti politici, ma anche da parte della popolazione. Come se la democrazia fosse un dato scontato e immutabile nel tempo e nello spazio, non discutibile nelle sue forme e realizzazioni.

Cerco di analizzare qui solo una piccola parte del problema, quella relativa al nostro contributo attraverso il diritto elettorale. Il diffuso e marcato astensionismo elettorale rappresenta un sintomo di grande malessere della nostra società, le cui molteplici cause vanno assolutamente ricercate per poter pensare a rimedi strutturali e a strategie politiche di contrasto. Senza la pretesa di essere esaustivo, vista l’enorme complessità del tema, provo a citare alcune questioni a mio parere rilevanti.

In primo luogo la crisi dei partiti. Sempre più i partiti sono incapaci di essere voce della popolazione, sono spesso identificati con i leader, i dirigenti sono spesso il frutto di accordi dentro circoli ristretti secondo logiche di spartizione di potere e di favoritismi. Nello stesso tempo, data questa condizione di autoreferenzialità, soggetti che si avvicinano, desiderosi di apportare cambiamenti gestionali e proposte politiche alternative, troppe volte vengono trattati in maniera paternalistica o addirittura emarginati quali disturbatori di una prassi consolidata. A volte questi stessi si allontanano spontaneamente perché consapevoli di una impossibilità di agire coerentemente. In questo modo la ricchezza della riflessione politica si affievolisce progressivamente fino a non essere più riconosciuta ed apprezzata.

In secondo luogo la legge elettorale. È universalmente noto che non esiste una legge elettorale perfetta, perché deve essere coerente con i contesti e con le epoche in cui viene adottata. Tuttavia vi sono alcune questioni che sono ineludibili. Solo una battuta sulla scelta, perennemente in discussione tra sistema maggioritario o proporzionale, che richiederebbe un’analisi a parte: a mio parere in una democrazia non matura, come credo sia la nostra, un sistema maggioritario rischia di emarginare dal dibattito politico parti non marginali della società che potrebbero arricchire la dialettica parlamentare, pure in vista di un futuro maggioritario basato su coalizioni con una visione comune di società.

Un altro aspetto critico è sicuramente quello della rappresentanza, che deve essere autentica e non solo formale. Se la legge elettorale prevede le liste chiuse, cioè un sistema in cui i candidati sono proposti da un “cerchio magico”, è inevitabile che si verifichi una sorta di automatismo, per cui sono ancora i partiti a decidere chi saranno i rappresentanti del popolo, gli stessi che dovranno obbedienza cieca ai propri mentori e quindi solo formalmente rappresentanti della cittadinanza.

L’altra questione collegata è quella del premio di maggioranza. Questo, in un contesto di inverno partecipativo come quello attuale, non può che falsificare ulteriormente la reale volontà popolare e alla fine l’autorevolezza della compagine che dovrà governare.

Infine il ruolo del Parlamento. Sempre più spesso le decisioni del Parlamento sono condizionate dall’utilizzo frequente della fiducia e della decretazione per superare la discussione in aula che potrebbe allungare i tempi o portare ad esiti diversi da quelli proposti dall’esecutivo. Il Parlamento (ma è così anche per i Consigli degli EE.LL.) non è più il luogo dove la legislazione è il frutto della dialettica politica, bensì un luogo di imposizione dell’esecutivo, che diventa così l’attore e il decisore principale.

Mi pare evidente che questi tre aspetti che ho sottolineato alla fine portano alla disaffezione delle cittadine e dei cittadini alla partecipazione, non solo alle urne, ma alla politica in generale e al conseguente degrado della democrazia.

E allora l’interrogativo di sempre: che fare?

Innanzitutto penso sia necessario riprendere la pratica dell’utopia, nel senso insegnatoci da Eduardo Galeano: “L’utopia è all’orizzonte. Mi avvicino di due passi e l’orizzonte si allontana di due passi. Cammino dieci passi e l’orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. Allora, a cosa serve un’utopia? Proprio per questo: è utile per camminare.”.

Utopia è prima sognare e poi camminare. Sognare e camminare è quanto stiamo tentando di fare con la proposta che abbiamo illustrato a Padova, difficile e piena di incognite, ma non impossibile. Del resto ora mi ripeto spesso con Gilles Deleuze “Un po’ di possibile, altrimenti soffoco”.

Quella che viene proposta, la costruzione di Comunità trasformative, già ben illustrata nella circolare nazionale di aprile, in fondo non è che una misura alternativa di partecipazione democratica, gravata da complesse criticità, come dicevo, dove le comunità territoriali della cittadinanza residente sperimentano il principio politico dell’autogoverno dal basso e si possono cimentare anche nella democrazia diretta. Non si tratta ovviamente di una proposta alternativa alla democrazia rappresentativa, bensì una proposta con una postura dialettica e potenzialmente conflittuale con essa.

Allora non resta che provare ad affrontare la sfida con intelligenza ed ottimismo.

CIRCOLARE NAZIONALE – APRILE 2023

A cura di Mariangela Abbadessa, Francesca Gonzato e Fulvio Gardumi

Il Seminario interregionale delle Reti del Nord-Est che si è svolto sabato 15 aprile a Padova aveva per tema le “Comunità trasformative”, cioè il tema che inizialmente si era ipotizzato di affrontare nel Convegno nazionale di ottobre. Ora l’orientamento è per un altro argomento, ma le riflessioni delle otto reti del Triveneto possono comunque servire come stimolo per tutte le altre reti e forse anche come spazio di approfondimento in eventuali lavori di gruppo del Convegno.

Per questo abbiamo pensato di dedicare la circolare nazionale ad una sintesi di quanto emerso nella interessante giornata di Padova.

La struttura che ci ospitava è a sua volta un bell’esempio di “comunità trasformativa”. Si chiama Comunità Bethesda ed è situata in una vecchia casa colonica ristrutturata, alla periferia di Padova, dove quattro famiglie vivono dal 2018 in forma comunitaria. Una quinta famiglia, di migranti, è accolta su richiesta della Caritas. Ogni famiglia ha il suo appartamento ma si fa molta vita comunitaria e negli spazi comuni si accoglie chiunque voglia fare esperienza di comunità.

Nel corso della giornata sono state presentate altre due esperienze simili, quella di Brugine (Padova) e quella di Murazzano (Cuneo). La prima si inserisce nel progetto Mondo di Comunità e Famiglia (MCF), promosso dai Gesuiti e presente in una trentina di realtà in Italia. E’ una fattoria sociale, nata 10 anni fa, dove cinque famiglie vivono lavorando la terra e mettendo in comune tutte le risorse economiche, che ognuno utilizza secondo i propri bisogni. La seconda, presentata da Chiara, un’amica della Rete di Castelfranco che in passato ha partecipato a vari convegni-giovani della Rete, è un ecovillaggio attivo da cinque anni nelle Langhe, dove lei e un gruppo di persone hanno recuperato un borgo abbandonato, ristrutturando le case e mettendo a coltura i campi. Si fa vita di comunità e molti servizi, compresa la scuola per i bambini, sono gestiti direttamente.

La relazione introduttiva del seminario è stata tenuta da Ferruccio Nilia, sociologo udinese, animatore di gruppi tra cui il Forum dei Beni Comuni e dell’Economia Solidale del Friuli-Venezia Giulia, la Rete di Economia Solidale del FVG, il Comitato per la Salute Pubblica Bene Comune di Pordenone, l’Associazione per la Decrescita (diversa dalla Decrescita Felice di Serge Latouche). E’ fra i promotori della legge regionale “Norme per la valorizzazione e la promozione dell’economia solidale” (il testo si trova in internet: Lexview – Dettaglio Legge regionale 23 marzo 2017 n. 4).

Nilia ha detto di aver sempre tentato di tenere insieme riflessione teorica e prassi politica, entrambe imprescindibili per “cambiare il mondo”, per contrastare il feticcio della crescita senza limiti, che sta portando sempre più alla privatizzazione dei beni comuni, oltre che, in prospettiva, alla distruzione della vita sul pianeta. La legge citata pone al centro il tema della formazione di comunità che cerchino di sperimentare nuove pratiche finalizzate ad uscire dalla logica del mercato (concorrenza, profitto). Tali comunità non possono “cambiare il mondo” se rimangono esperienze autoreferenziali, isolate. La Rete Italiana di Economia Solidale cerca di collegare le varie esperienze di buone pratiche. Nilia ha riconosciuto che il mondo delle buone pratiche, cioè i vari tentativi virtuosi di superare il pensiero dominante basato sull’individualismo e sulla logica del mercato, ha come vizio di fondo l’autoreferenzialità. Per uscire dal paradigma attuale è dunque necessario ricostruire comunità. Ma come? Se sulla critica all’attuale sistema siamo spesso d’accordo, le difficoltà nascono quando si tratta di passare alla costruzione di alternative concrete.

La risposta, secondo Nilia, è il territorio, “il grande mediatore per ricostruire relazioni”. Occorre mettere insieme i cittadini anche per soddisfare i loro bisogni, ma non a partire da quelli. In qualche caso sono nate interessanti esperienze per iniziativa di sindaci lungimiranti, ma spesso il rischio è la strumentalizzazione politica. Solo unendo esempi virtuosi e buone pratiche sorte a livello locale è possibile pensare ad un progressivo cambio di paradigma. Vanno rimesse in discussione tutte le istituzioni, dal Comune all’Onu, passando per la Banca mondiale. Occorre un nuovo contratto sociale e per questo bisogna mettere in moto migliaia di persone e di comunità e federarle fra loro

Il dibattito sulla relazione di Nilia è stato molto vivace. Un contributo è venuto da Mariangela Abbadessa della Rete di Castelfranco, che ha sintetizzato i contenuti del libro L’economia trasformativa: per una società dei diritti, delle relazioni e dei desideri (ed. Altreconomia) scritto da vari autori, tra cui Roberto Mancini, docente di filosofia all’Università di Macerata e direttore della Scuola per l’Economia Trasformativa dell’Università per la Pace delle Marche.

Parlare di comunità trasformative significa innanzitutto accostarci a pratiche e teorie a favore di un’economia eticamente orientata (economia del dono, di comunione, della liberazione, equa e solidale, della decrescita, trasformativa). Anche se dobbiamo essere consapevoli che parlare di questi temi è diventato un esercizio di equilibrismo, perché tante parole sono state inflazionate e stravolte dall’imprenditoria capitalistica convertita ad una green economy, in teoria socialmente responsabile e sostenibile ma, in realtà, votata all’obiettivo di sempre: la crescita come aumento dei profitti e del benessere dei produttori. L’alternativa reale, invece, non può che essere quella di un’economia orientata alla cura dei bisogni, diritti, desideri dell’umanità e verso l’equilibrio e l’armonia del mondo vivente, della natura. L’alternativa è dunque salvare la Società fondata sulle Relazioni Umane, capace di costruire pratiche collettive condivise, liberatorie e creative. Nell’economia dei soldi i conti si compilano in misura del denaro, mentre nell’economia della natura i conti ambientali si calcolano su altre unità di misura e soprattutto devono confrontarsi con i limiti invalicabili nell’uso dei beni naturali. Nell’annunciata “svolta etica del capitalismo” i danni creati all’ambiente vengono considerati effetti collaterali, iscritti nel rischio strutturale della società industriale, rischi connaturali al sistema di sviluppo, monetizzabili e compensabili tramite assicurazioni. Dunque, nessuna vera green revolution sarà possibile senza una trasformazione strutturale del sistema socio-economico oggi dominato dalla logica del profitto e dalla massimizzazione dei rendimenti economici. L’alternativa è allora un sistema che prenda in seria considerazione l’ipotesi della decrescita e del post-sviluppo, in quanto la riduzione della pressione sull’ambiente richiede una riduzione della produzione e del consumo. Occorre immaginare una società che ristabilisca che cosa è per noi una buona vita. Ma è più facile pensare alla fine del mondo che non alla fine del capitalismo. Di qui l’importanza di filosofi, artisti, autorità spirituali come papa Francesco per riuscire a rovesciare il modo di pensare di economisti e politici secondo cui l’interesse pubblico coincide solo con l’incremento del Pil. In un ambito di economia trasformativa al centro c’è la Vita. C’è bisogno di ristabilire la connessione tra processi produttivi e la vita, la tutela della salute dei lavoratori e delle persone che vivono nei territori delle industrie. Dato che la globalizzazione ha aumentato le distanze tra ciò che viene prodotto e chi consuma, occorre mettere la vita al centro ripartendo dalla difesa dei beni vitali come l’acqua, la terra, l’aria, i semi, le culture necessarie per la sussistenza. La proposta di partire da comunità locali solidali per costruire un’economia solidale di liberazione non vuole essere un’operazione-nostalgia ma, al contrario, è un’Utopia quale luogo buono verso cui andare. Abbiamo imparato che perseverare in una logica localistica e settoriale non aiuta a trasformare né l’economia né la società in senso solidale. E’ necessario cercare tracce comuni, le intersezioni, le convergenze tra esperienze nate dal basso, costruire reti tra le comunità solidali e unire le forze (come le Comunità di Supporto all’Agricoltura, es. OltreConfin del Distretto Economico Solidale sorto in Veneto) e favorire la loro emersione, uscendo dal cono d’ombra legislativo, attraverso leggi di riconoscimento e facilitazione. Se i soggetti monotematici hanno dimostrato di avere un potenziale di mutamento sociale piuttosto limitato, sembrano più promettenti i soggetti collettivi che superano i limiti di un solo settore della vita sociale e sono capaci di far interagire diverse attività nella realizzazione di un progetto organico. Si pensi alle comunità territoriali locali che assumono davvero questo criterio etico, indirizzando tutti i tipi di attività – aggregativo, economico, amministrativo, politico, educativo, culturale, informativo – per attuarlo. Si tratta di far valere in ogni ambito i criteri seguenti: solidarietà, salvaguardia ecologica, nonviolenza, cooperazione, sostenibilità e democrazia.

Essere parte della Rete Radiè Resch non può che essere, oggi, per donne e uomini di speranza.

Speranza di intessere relazioni umane significative con coloro che si incontrano, speranza di collaborare concretamente nella giustizia verso un mondo più equo, speranza nella possibilità di umanizzare l’umanità.

Internet oggi ci permette di essere in una connessione perenne e di essere informati su ciò che accade molto lontano e vicino a noi. Sono notizie che entrano nel campo della nostra attenzione, ma accade che il loro valore, la loro significatività dipenda poi da molti fattori: ad esempio può diventare realmente significativa se conosciamo in qualche modo le persone coinvolte, se è possibile che accada anche a noi, può dipendere da cosa ne pensano i nostri amici, ma anche se abbiamo la pancia piena, se stiamo bene in salute…

Ecco… in questo tempo colgo in me – e in molte persone che mi sono vicine – che l’abbondanza di notizie che mi arrivano amplificate dai media, a cui posso aggiungere quelle che cerco per la personale sete di “controinformazione”, il più delle volte sortisce l’effetto non voluto di una spiacevole ansia.

La propaganda della guerra così vicina al cuore dell’Europa, la siccità che avanza e colpisce popoli che non potranno più abitare le terre dei loro avi, i racconti delle donne in Iran, la subalternità dell’Italia a chiunque prometta un rinnovamento economico di cui sappiamo già il prezzo, la distruzione di tanta parte di foresta amazzonica e dei popoli indigeni, ancora i morti nel Mediterraneo, ma anche la Bolivia, Haiti, Taiwan, il Corno d’Africa, e tutto ciò che conosciamo anche dai nostri testimoni sono solo alcune delle realtà che ci raggiungono quotidianamente.

Le risposte individuali alla conoscenza di tante sofferenze possono essere diverse: indifferenza, immobilismo, catastrofismo, ma anche eco ansia, con paura del futuro e rinuncia alla speranza per la preoccupazione degli scenari ambientali.

Alcuni di noi (del gruppo di Torino) lavorano con i più giovani e gli emarginati nel campo della salute mentale: le sofferenze individuali tendono a chiudere lo sguardo ad un sociale più allargato e la partecipazione non è più uno strumento di denuncia. Una “lettura“ del significato dei tagli che i ragazzi infliggono ai loro corpi indica proprio come sia un modo di affermare una qualche volontà, non esprimibile nel sociale, ma solo su di sé.

Come non farsi invadere dalla contemporaneità di tanto male? Come non rifugiarsi nel “piccolo giardino privato”?

Ciascuno di noi avrà certo la propria risposta.

Coltivare la bellezza nei gesti quotidiani. Essere pronti a relazionarsi con tutti in pace. Guardare ai gruppi e alle comunità che si sentono protagonisti del futuro, giovani e meno giovani. Approfondire il proprio credo religioso. Stare in ascolto per cogliere l’energia delle comunità “resistenti“. Frequentare bambini piccoli.

Quali altri modi, oggi, per moltiplicare la speranza? Condividiamoli… “La speranza è come una strada nei campi, non c’è mai stata una strada, ma quando molte persone vi camminano la strada prende forma“ (Yutang Lin)

Luciana Gaudino, Rete Torino e dintorni

19 Febbraio 2023

Il tempo “moneta” di restituzione.

Cara Persona,

questa lettera ha faticato a partire verso te.

L’abbiamo pensata e discussa tanto mentre le emergenze e le ricorrenze popolavano i nostri pensieri.

Ed è difficile scriverla con i toni giusti.

Vogliono essere sommessi ed accorati. Commossi.

Ti scriviamo per dirti che, dopo un periodo “misto”abbiamo scelto d’ora in poi di autotassarci unicamente in “moneta tempo”.

(Niente ma proprio niente a che vedere con “la banca del tempo” o con il cosiddetto “volontariato”).

La moneta si può contare e da lì decidere quanta darne ben sapendo quanta ce ne resterà.

Il tempo no, non è nostro, non ci appartiene ed è per questo che è il bene più prezioso.

E con il passare degli anni ne abbiamo sempre meno a disposizione.

Quindi? Lavorare meno, avere meno moneta e più monetatempo da “restituire”.

-Vecchio adagio, dirai, l’ho già sentita, nessuna novità-.

Infatti nessuna novità.

Provare concretamente per credere.

Alcuni “esempi” per cercare di spiegarci.

Emergenza incendi.

-Josè, non ti mandiamo soldi ma siamo sicuri che sarai felice di sapere che curiamo i nostri boschi con amore perché vivano e non brucino, che curiamo un orto e gli ulivi. La Terra esige contatto diretto, sacrificio, tanto tempo. La Terra è una. E voi Mapuche lo sapete bene e bene ce lo insegnate-.

Emergenza terremoto in Siria Turchia.

Emergenza Armenia, emergenza Haiti, emergenza Congo, emergenza Centrafrica, emergenza Palestina, emergenza… Emergenza come urgenza ma anche come “emergere” di ciò che risulta più evidente, clamoroso, facile da capire e di facile risoluzione “interiore”: faccio un versamento…

Abbiamo organizzato incontri con i Curdi, chi ha partecipato ben sa che laggiù le persone nelle tende c’erano già prima del terremoto. Il tempo paziente dell’attività politica.

E la Repubblica Centrafricana?

Ve ne parliamo poco, sgomenti, ma non ci stanchiamo di chiedervi di invitarci per vedere il nostro video ( viaggio a nostre spese).

A dicembre la Francia ha ritirato i suoi ultimi militari presenti sul campo. Gesto simbolico.

Ora sarà totalmente la Russia a militarcolonizzare il Paese in antagonismo con gruppi ribelli finanziati da chiunque, Francia compresa .

La formazione di mercenari Wagner era in RCA dal 2017.

E poi alluvioni, strade impraticabili, bambini che saltano sulle mine. Emergenza!

E’ saltato su una mina anche un carmelitano italiano, Avvenire ne ha parlato.

La Repubblica Centrafricana ha bisogno di tempo.

Il tempo dell’informazione.

Da due anni siamo presenti settimanalmente al presidio permanente di Savona disarmo e rappresentiamo la RCA. Con il collettivo SE presentiamo il video realizzato da due gruppi di giovani in RCA e Italia e presentiamo il nostro libro (con il quale finanziamo le borse di studio degli universitari di Bangui).

Tempo, richiede tantissimo tempo.

Tempo richiede l’appoggio al Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova che resiste a non imbarcare/sbarcare armi.

Tempo.

Comunità trasformative.

(Concordiamo un po’ con Sergio sulla moda di cambiare il nome alle cose che rimangono le stesse).

Potremo teorizzare, ascoltare, sperimentare, siamo già certi che queste esperienze sono fondate sostanzialmente sull’investimento in monetatempo.

Sono solo alcuni piccoli esempi che siamo certissimi stai attuando anche tu.

Ma la pensione per Caterina se arriverà arriverà tra dieci anni, dieci e ci rifiutiamo di aspettare “altri tempi”quindi taglio volontario su ore di lavoro e reddito.

Perché abbiamo scritto che tutto questo non è “banca” e non è “volontariato”?

Perché il tempo lo abbiamo già ricevuto, siamo noi a restituirlo e perché “volontariato” si usa per le azioni non retribuite in moneta.

Stiamo parlando di altro.

Stiamo parlando di tutti gli Ultimi delle nostre vite quotidiane che di tempo prima che ogni altra cosa necessitano in continua emergenza (da qui il laboratorio al presidio psichiatrico).

Stiamo parlando di politica.

Stiamo parlando di futuro.

Resistenza al furto di tempo della società capitalista.

Il nostro è periodo storico di ricerca e sperimentazione, è per cuori puri e resistenti, pronti al sale del fallimento.

Diamo tempo al Tempo.

Accetta un abbraccio.

Grazie se sei arrivata fin qui.

Caterina che non è in pensione e Franco il contadino.

Ciao. Vi offriamo una storia di collaborazione tra il “qui” e il “là”. Economicamente si è conclusa da molti anni. Ma i semi portano frutto.

Lasciamo a Dino la presentazione della lettera allegata e facciamo a tutte e a tutti un sacco di auguri per il nuovo anno.

Maria e Gianni

Ida Pierotti è stata la fondatrice, col marito Miguel Reyes Santana, di un Centro Sociale in una baraccopoli a Sud Ovest di Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana. L’appoggio a questo progetto è stato dato dalla rete di Verona, verso la fine degli anni ’80.

Ora Miguel è morto e Ida è tornata a Santo Domingo, anche per accettare l’eredità della pensione che il marito le ha lasciato. Naturalmente, è stata invitata a visitare il Centro, che intanto è diventato un’istituzione della Repubblica Dominicana, finanziato dallo Stato, con molti corsi professionali e con molte iniziative rivolte agli abitanti della zona.

     Miguel era un esule politico. Dopo essere rimasto ferito in un fallito tentativo rivoluzionario nel suo paese, si era rifugiato in Italia. Qui aveva ripreso gli studi fino a laurearsi in Scienze Politiche, e aveva conosciuto e sposato Ida Pierotti, allora impiegata all’Università Cattolica.

Quando per lui è stato possibile rientrare nella Repubblica Dominicana, sono partiti insieme con un progetto di socializzazione e promozione sociale per una zona poverissima, El Abanico. (il Ventaglio), così chiamata perché è una zona bersagliata da forti venti.

     Il progetto era stato presentato a Ettore Masina, e lui, affidandolo alla rete di Verona, l’aveva dedicato alla memoria della mamma di Silvana, Nelda Spaziani Valpiana. Nelda era figlia di un martire del nazifascismo, morto a Mauthausen, e quindi nella scelta del nome dell’operazione, si sottolineavano la solidarietà e la resistenza.

     Il Centro Valpiana diventò un centro di scolarità e il luogo del coordinamento per tutte le iniziative che servivano a quel quartiere. Fu l’occasione per ritrovarsi e creare coesione tra tutte le persone più disponibili a impegnarsi.

     Noi della Rete di Verona siamo stati ben lieti di sostenere questo progetto, e nell’estate del 1990 Silvana ed io siamo andati a Santo Domingo, ospiti di Ida e Miguel che ci fecero conoscere il neonato Centro Valpiana e tutta l’isola. Miguel e Ida vennero, poi, al Convegno della Rete dedicato al 500° Anniversario della “scoperta dell’America” e una delegazione del Centro venne in Italia qualche anno dopo. Li ospitai io, nella scuola dove ero preside, e dove c’erano dei corsi professionali che potevano essere un utile modello anche per loro.

            Il Centro Valpiana divenne poi un ente di aiuto e sostegno alle varie iniziative locali, finanziato dallo Stato, e sta ancora funzionando regolarmente, proseguendo quanto iniziato più di 30 anni fa.

            Per noi è stata una grande occasione di collaborazione e dialogo con altre realtà: li abbiamo seguiti con interesse, finanziati, per quanto possibile, e abbiamo contribuito al loro successo.

            Ida ce ne ha dato un resoconto. La sua lettera, che alleghiamo, è l’occasione per apprezzare quanto si è potuto realizzare con tanti anni di lavoro. Siamo confortati dal vedere i frutti che sono maturati dalla nostra piccola autotassazione, e dalla nostra relazione con loro.

Dino con Silvana, dicembre 2022

 

Carissimi amici della Rete,

sono sempre rimasta legata a tutti voi, attraverso il prezioso rapporto con Silvana e Dino.

Dopo 20 anni, sono tornata a Santo Domingo, dove ho trascorso una parte indimenticabile della mia vita e dove, grazie a voi, io e Miguel abbiamo potuto realizzare il Centro Comunitario Nelda Valpiana.

Avevo lasciato Santo Domingo dopo 15 anni di servizio e l’ho fatto solo quando ho avuto la certezza che l’”operazione Valpiana” era ormai una realtà, della cui gestione si faceva carico pienamente la gente del Barrio El Abanico, con la sua Assemblea, la Giunta Direttiva e un programma tecnico/sociale sostenibile.

In questi anni ho seguito da lontano lo sviluppo del Centro, come avrebbe detto Ettore Masina: “vedendo la barca allontanarsi come un’opera finita e rimanendo con gli strumenti in mano e nella mente per crearne un’altra”. Per me, tante altre storie sono seguite al Centro Valpiana, storie di un’altra parte di vita in cui le difficoltà si sono alternate alle soddisfazioni. Sono stata a vario titolo operatrice in Angola, Guatemala, Nicaragua, Mexico, Cuba, Haiti, Argentina, Colombia. Tutto ciò mi ha dato gli strumenti necessari per mettermi, 10 anni fa, a disposizione dei rifugiati, qui in Italia, a Verona.

Ora sono tornata a Santo Domingo perché a febbraio 2022 Miguel, il mio marito, è morto. Mi ha lasciato in dono metà della sua pensione di professore universitario (l’altra metà è destinata alla figlia minore), e questo mi permetterà di sopravvivere un po’ meglio, alla mia tenera età di 77 anni. Infatti, nonostante la nascita della sua seconda figlia, che Miguel ebbe 15 anni fa con un’altra donna, non ci siamo mai separati. Anzi, l’ho supportato durante la sua lunga malattia ed abbiamo continuato a volerci bene, come due persone che, all’insegna della solidarietà, hanno fatto un lungo e proficuo percorso insieme.

Vi racconto in breve di questo mio viaggio per certi versi surreale.

La famiglia di Miguel al completo è venuta a prendermi all’aeroporto e una nipote mi ha ospitato nel suo appartamento di Santo Domingo. Appena depositata la valigia sono stata oggetto delle loro attenzioni: il fratello i nipoti e la cognata mi hanno subito rimproverato di non aver mai rivendicato per me e per Miguel la proprietà del Centro Valpiana! Questa non me lo aspettavo! Pur nello stato di stanchezza del viaggio ho cercato di spiegare loro ciò che ho sempre dato per scontato: la solidarietà.

Purtroppo, è stato subito evidente che il mondo ideale che vivevamo con Miguel, non esisteva più. Le grandi trasformazioni di questo paese, quasi in aperta concorrenza con Miami, sono l’emblema del sopravvento dei soldi su tutti i valori sociali e morali che pure avevamo conosciuto. Todo cambia……

Il giorno seguente al mio arrivo ho chiesto alla famiglia di accompagnarmi sulla tomba di Miguel. Attraversando il traffico della grande città mi guardavo intorno, senza riconoscere nulla. Alla fine, siamo arrivati in un posto pieno di gente e sono rimasta stupefatta nel vedere i visi sorridenti di tutti i miei accompagnatori: mi avevano preparato una sorpresa! Mi sono trovata improvvisamente davanti al Centro Valpiana, senza essermene resa conto, a causa dei cambiamenti del barrio Abanico. Accompagnata dalle luci dei negozi, dalla gente, dal chiasso sono entrata nel Centro. Che sorpresa! Un via vai di giovani, che si spostavano per andare nelle aule, mentre io venivo letteralmente trasportata nella sede centrale, per il “benvenuto” istituzionale.

Sono stata oggetto di attenzioni e di complimenti da parte di gente che conoscevo, da parte di quelli che non ricordavo e da parte di facce giovani e nuove. Il direttore ha fatto un discorso elogiando la nostra opera, ricordando Miguel e riservando un saluto speciale alla famiglia della signora Valpiana, sottolineandone lo spirito accogliente e antifascista. Hanno intitolato la Biblioteca del Centro a Nelda Valpiana con il nome e la foto sull’ingresso. Tra le varie persone che mi circondavano, una di esse in particolare mi ha reso felice: Ruth, una ragazza che venne da noi per cambiare la sua vita. Era, e lo è ancora, bellissima. A quell’epoca faceva la prostituta e viveva sola con due bambine piccole. Con l’accoglienza nel Centro ce l’ha fatta, ed ora è una donna che ha preso molto sul serio il suo ruolo nella Giunta Direttiva del Centro.

Il Centro è solido e “sostenibile” e l’attuale direzione sta facendo un buon lavoro mantenendo le convenzioni che firmammo all’epoca con gli enti governativi per l’istruzione e la salute. Nel Centro funzionano i laboratori di formazione in: Farmacia, Alimentazione, Estetica, Cucito, Elettricità, Computer, Falegnameria, Massoterapia, Contabilità, oltre a una scuola elementare e una superiore. Inoltre, funziona un Centro Medico per la popolazione del barrio. Mi hanno fatto notare il campo da gioco illuminato e in piena attività, che a suo tempo facemmo costruire e che io neppure ricordavo.

Non so come chiamare l’emozione che provavo in quel momento. Ma ricordo che quando lasciai il Centro, nel lontano 2000, ero appagata e quasi sicura della sua futura autonomia. Soprattutto, già si vedeva che le persone del barrio si sarebbero organizzate, per metter a frutto la loro volontà e capacità.

Questa prima visita è stata molto ricca di soddisfazione.

Ma la sorpresa più grande è arrivata due giorni dopo, quando sono stata convocata di nuovo nel Centro dalla “vecchia guardia”… E in questa occasione sì, l’emozione è stata forte quando ho abbracciato le compagne e i compagni con cui abbiamo fatto le prime esperienze sin dalla costruzione del Centro: Hilda, Douglas, Anselmo, Xiomara, Angela Maria, Ramona, Xilenia, Virginia, Magaly… Alcuni di loro lavorano ancora nel Centro, ma la maggior parte vive in un’altra zona della città; hanno voluto essere presenti per testimoniare l’affetto e la validità di certi valori. Mancavano alcuni: Federico, artigiano elettricista, morto in un incidente; Domingo Matìas, diventato vice ministro, ed Higinio Baez, eletto deputato al Parlamento, che hanno mandato i loro saluti. Durante la riunione, ricca di spunti e ricordi felici, è entrata una video-chiamata dal Canada: era Pipin, l’allievo ebanista che, come lui stesso ha dichiarato, ha avuto successo in Canada con il laboratorio di ebanisteria. Là ha potuto assumere altri ragazzi dominicani, e tra le lacrime (non solo sue) ha ringraziato il Centro Valpiana per la formazione ricevuta. Ma ci ha tenuto a precisare che oggi è diventato l’imprenditore che è, non solo per la formazione tecnica ricevuta, ma soprattutto per la formazione umana che il Centro Valpiana gli ha dato.

In effetti, con questa seconda visita al Centro, ho ritrovato lo spirito solidale e comunitario che ci permise di realizzare tante attività.

Ida Pierotti

Ottobre 2022

Circolare mese di Dicembre

Vorrei condividere con la Rete questa esperienza della Tenda per la Pace di Empoli, un segno, un simbolo, uno stimolo nel mare dell’indifferenza, che caratterizza anche questo Natale, rispetto ai temi cari a tutti noi.

Metti una tenda in piazza, un presidio permanente dove ogni giorno, a partire dal 20 luglio 2022, si alternano singoli e associazioni per dire NO alla guerra in Ucraina e a ciascuna delle guerre che insanguinano il nostro mondo. Ogni giorno, per un’ora dalle 18 alle 19.

Siamo al 144 giorno e si sono alternate oltre 150 persone.

Una cosa simile, molto bella, aveva fatto la Comunità delle Piagge (don A.Santoro, il gruppo dei Disobbedienti di Firenze & C.) con il digiuno di giustizia per i migranti OGNI giovedi sotto il palazzo della Regione, per centinaia di giorni giorni.

Il nostro manifesto, le nostre richieste sono quelle che vi allego nel Comunicato stampa stilato pochi giorni fa dopo la decisione (scontata) del governo Meloni sull’invio di armi anche per il 2023.

In silenzio, oppure leggendo poesie, cantando, distribuendo volantini, facendo cartelloni, disegni , video, balli popolari, ecc., cerchiamo di ricordare, alle persone che passano, le atrocità delle guerre e il dolore di chi le subisce.

A volte è frustrante, a volte esaltante, a volte riscopriamo il senso di parlare con la gente, la più varia, non quella selezionata che viene ai dibattiti.

Abbiamo avuto vari ‘ospiti’ che si sono fermati a parlare e a farsi intervistare per dare il loro sostegno:

Associazioni come: Scouts, Uisp, Arci, Anpi, Lilliput, Atlante delle guerre e dei conflitti

Don Andrea Bigalli (Libera e non solo) L’Imam di Firenze

Il preposto della Collegiata di Empoli

Marcelo Barros

Olga e altre donne dell’Ucraina

Chiara Riondino (cantautrice) Alice Pistolesi (giornalista)

don Mario Costanzi, con la sua chitarra e le sue canzoni Mirincoro

Sandra Gesualdi Beniamino Deidda

Che fare di questa preziosa esperienza? Come continuare a portarla avanti? Qual è il suo valore? Mera testimonianza? Punto di riferimento?

Sicuramente vorremmo tenere il filo di una matassa che non perda MAI di vista il fatto che la pace è una priorità . Sempre.

Quindi l’iniziativa mantiene il suo alto (benchè inascoltato) valore POLITICO. Le istituzioni locali ci hanno concesso lo spazio fisico, dove ogni giorno montiamo la Tenda, ma ci ignorano. Ora siamo ‘assediati’ dalle bancarelle, stand, luci, alberi, casette, auto in esposizione…insomma il Natalone tutto commerciale di Empoli.

E’ un cammino in fieri. Resisteremo fino alla fine della guerra, come ci eravamo proposti all’inizio?

Comitato Empoli per la Pace

COMUNICATO STAMPA

Il Comitato Empoli per la Pace ribadisce un nuovo fermo “no all’invio delle armi in Ucraina” deciso dal governo Meloni.

Il consiglio dei ministri presieduto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha deciso di prorogare la decisione dell’invio di armi all’Ucraina fino al dicembre del 2023. In continuità con le decisioni adottate dal precedente governo Draghi, Giorgia Meloni dopo aver avuto l’approvazione della Camera, ha dato il via libera al cosiddetto “Decreto Nato” che prevede di fornire all’Ucraina materiali ed equipaggiamenti militari per combattere l’invasione russa, per tutto il prossimo anno.

A breve potrebbe essere emanato il sesto decreto per gli aiuti all’Ucraina che, con l’avvicinarsi dell’inverno ha avanzato la richiesta di sistemi di difesa aerea per far fronte ai continui bombardamenti.

Il Comitato Empoli per la Pace, fin da subito, ha contrastato la decisione presa dai governi italiani. E ribadisce ancora una volta e con maggiore forza: no alle armi, sì alla diplomazia.

Il Comitato ha cercato di contrastare questa decisione e di coinvolgere l’opinione pubblica con diverse iniziative. Prima lanciando una petizione, poi con l’organizzazione di una Notte Bianca servita a discutere, con esperti, le questioni del conflitto. E, adesso, con l’iniziativa in corso della Tenda della pace, presidiata, ogni giorno ormai da 136 giorni, dai cittadini, nella centralissima piazza della Vittoria. Con la manifestazione che ha coinvolto numerosi cittadini proprio nello spazio adiacente alla tenda (scrivendo la parola “Pace” con le fiaccole dei partecipanti) e con una massiccia presenza alla manifestazione nazionale che si è tenuta all’inizio di novembre a Roma.

Anche stavolta il Comitato promotore di Empoli per la Pace dice NO all’invio di armi.

Siamo solidali con i cittadini ucraini vittime di una aggressione da parte della Russia, con le vittime di tutte le altre guerre dimenticare, con chi in Russia si batte per la pace e con chi ha subito persecuzioni antirusse”, è il principio ispiratore del Comitato empolese.

La richiesta del Comitato Empoli per la Pace alle istituzioni nazionali e internazionali è chiara:

  • che si fermi l’invio delle armi, sempre più potenti e letali, per riaprire lo spazio della diplomazia
  • Di investire tutte le energie possibili in uno sforzo diplomatico che possa avvicinare le forze in conflitto: un’attività diplomatica e di dialogo che oggi può apparire difficile ma che, ne siamo certi, sia l’unica che può portare a una ricomposizione del conflitto
  • Di coinvolgere in questa attività le più importanti istituzioni internazionale
  • Di fermare la corsa al riarmo
  • Di portare avanti con forza il percorso per l’eliminazione delle armi nucleari che rappresentano il pericolo più grande per la sopravvivenza dell’umanità. In questo senso l’Italia dovrebbe ratificare il trattato di proibizione delle armi nucleari.

CIRCOLARE NAZIONALE DI NOVEMBRE 2022 a cura della Rete Radiè Resch di Castelfranco Veneto.

LA RIBELLIONE DEL POPOLO CONGOLESE INTERROGA LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE.

L’avevamo intuito già dagli scambi telefonici precedenti il suo arrivo. La voce di Richard trasmetteva un dolore profondo, nuovo, che andava ben oltre la sofferenza fisica. Un dolore quasi velato di rancore. Ne abbiamo avuto conferma fin dai primi discorsi avviati informalmente attorno alla tavola: questa volta non sarebbero bastati l’accoglienza fraterna, polenta e baccalà e qualche dolcetto, perché il suo animo era carico delle sofferenze e della rabbia del suo popolo. Ci raccontava come la sua gente era passata dal grido di disperazione al coraggio della rivolta indignata verso il sistema capitalista internazionale, fondato su un neocolonialismo criminale e predatorio che li tratta meno degli schiavi, quasi fossero una sottospecie umana. Aperto il sipario sulla grande ipocrisia messa in scena dal mondo nord-occidentale, ci obbligava ad una sorta di “ruota-immagine” che ci faceva crollare addosso il castello di menzogne e complicità puntellato dalla propaganda narrativa dei media mainstream. Risultato: da parte nostra un pugno nello stomaco, come essere stati appesi a testa in giù o, secondo lo stato d’animo espresso dal nostro parroco, con la testa in conflitto con il cuore. Da parte di Richard, invece, forse il rammarico di essersi lasciato prendere troppo dalla passione. Ma la responsabilità di dover farsi interprete e portavoce delle istanze del popolo congolese, qui in un’ Europa arruolata a sostenere la resistenza del popolo ucraino, proprio in un momento così cruciale per gli equilibri strategici globali, non gli concedeva margine di mediazione.

L’attualità socio-politica della Repubblica D.C.è dominata da una nuova aggressione imposta al popolo congolese dal Ruanda tramite il movimento terrorista M23 che, in maggio 2022, ha occupato la città di Bunagana e tanti altri villaggi del territorio Rutshuru, Nord Kivu, insidiando Goma, al confine del Ruanda e dell’Uganda e risvegliando l’incubo di una balcanizzazione del Congo R.D. Dal 1996 a oggi sono già dodici milioni i morti causati dalle varie guerre che il Ruanda ha imposto al Congo.

Ma perché la Comunità Internazionale resta indifferente a una tragedia del genere? Perché continua a sostenere il Ruanda che semina violenze, disperazione e morte tra un popolo pacifico, mai ostile e sempre accogliente verso le popolazioni dei nove paesi vicini e confinanti? Perché nel luglio scorso l’ONU ha prorogato l’embargo sulle armi imposto al Congo (contrari Russia e Cina) negandogli la possibilità di difendere l’integrità, la sovranità e l’unità del Paese e del suo territorio, mentre al Ruanda, aggressore, vengono fornite le armi sofisticate, a lungo raggio e di precisione, utilizzate nell’occupazione di Rutshuru?

La minaccia è diventata insopportabile quando il portavoce della MONUSCO (missione ONU finanziata -con un miliardo nel 2022- per proteggere i civili e sostenere il consolidamento della pace nel territorio congolese accusata di corruzione, traffici illeciti e abusi) ha affermato che le forze dell’ONU non dispongono di mezzi adeguati a contrastare M23, dotato di un arsenale militare molto potente. Un’esplicita dichiarazione di tradimento che ha provocato indignazione e rabbia, in una popolazione che ora più che mai si sente abbandonata dalla comunità internazionale. E così sono esplose manifestazioni anti MONUSCO sfociate in scontri violenti con un bilancio di 36 morti di cui 4 Caschi Blu e 170 feriti.

Le popolazioni dell’Est del Congo: Goma, Beni, Butembo, Bukavu, Uvira……. hanno espresso la loro rabbia e hanno chiesto il ritiro immediato dell’ONU, perché nella coscienza collettiva di un complotto di tutti contro il popolo congolese considerato non umano. I Congolesi dunque, non facendo parte dell’umanità, non possono essere oggetto della solidarietà e della compassione della Comunità delle Nazioni al pari degli Ucraini? E ciò che scandalizza maggiormente è che un popolo decimato che vive nel sangue da anni, le cui donne sono sempre umiliate e violentate, non ha neanche il diritto di piangere, di protestare e di denunciare l’ultra protetto Ruanda.

Il 2 agosto 2022 si è celebrata a Kinshasa -ispirata dal “Prix Nobel de la paix, le docteur Mukwegue- la prima commemorazione dei 12 milioni di morti congolesi vittime delle guerre a ripetizione imposte dalla Comunità Internazionale tramite il Ruanda e altri paesi vicini. E’stato il momento culmine per il popolo per dire: “Non è più sopportabile! Non ce la facciamo più! Troppo è troppo! Sappiatelo bene: anche senza le vostre armi, siamo disposti a tutto per difenderci dal Ruanda e impedire il vostro progetto di balcanizzazione. Fermate lo sfruttamento illegale delle nostre risorse naturali e minerali! “Anche un solo metro preso oggi, sarà ripreso dai nostri figli e dai nostri nipoti”. E’stato un momento per affermare che non sono umani di seconda categoria. Abbiamo lo stesso sangue, siamo della stessa razza!Fermatevi! Basta! Basta! Basta!” . Da allora le manifestazioni di protesta si susseguono in tutto il territorio nazionale, nelle grandi città e nei centri abitati di periferia ed ovunque la gente chiede risposte e giustizia.

Come sottolinea sempre don Richard, quando si fa la valutazione dei rapporti tra i popoli e le nazioni, è sempre bene distinguere due livelli del discorso: c’è il livello delle strutture e dei sistemi che obbediscono a ideologie di dominazione, di esclusione e poi c’è il livello delle coscienze e dell’agire come persone capaci di prendere posizione, di costruire rapporti concreti, di creare ponti e reti umane al di là delle diversità delle culture, delle religioni, delle etnie e delle nazioni. Qui ci siamo noi e la nostra Rete e oggi sappiamo che, in un punto piccolo nella savana congolese, grazie al paziente cammino percorso insieme, c’è un centro ospedaliero che si prende cura di migliaia di vite umane e da un anno c’è una giovane medica che fin’ora ha affrontato:10 parti cesari, 5 interventi di estrazione della placenta, 268 casi di malnutrizione severa, 213 casi di tubercolosi, 1 caso di colpo di fulmine con rischio paralisi, numerosissimi casi di morbillo, dissenteria, malaria. La dottoressa ha anche adottato due gemelline sopravissute alla mamma deceduta durante parto avendo rifiutato il cesareo per convinzioni religiose.

Allora, tutte le volte che nel dibattito interno alla nostra Rete, ci interroghiamo sul senso della nostra presenza nelle realtà dove si sviluppano i progetti, sul come rapportarci con le popolazioni del luogo, sino a che punto contaminare e lasciarci contaminare e per quanto tempo, dobbiamo fare i conti innanzitutto, con le condizioni specifiche del posto, con le capacità e possibilità del referente e con le difficoltà legate alla situazione politica e organizzativa locali. La nostra esperienza, come quella di altre operazioni, si sviluppa in un contesto estremamente complicato per la fragilità delle strutture a supporto di una popolazione isolata, priva delle condizioni minime di sopravvivenza. Non è semplice mettersi in sintonia con queste realtà, capire sino a che punto intervenire, decidere, accogliere, astenersi, stoppare il nostro pensiero per dare spazio alle loro idee. In questi anni di intensi rapporti con l’Africa abbiamo compreso che per evitare danni e fallimenti, per sostenere correttamente il loro processo di crescita e liberazione, è necessario intraprendere un paziente (per noi e per loro) cammino di condivisione e di crescita comune, discutendo, lavorando, vivendo insieme, spogliandoci molte volte delle convinzioni e anche dei pregiudizi. È certamente un lavoro lungo che richiede costanza, tenacia e molta prudenza nelle scelte e nelle prese di posizione.

CIRCOLARE NAZIONALE OTTOBRE 2022

LA CARTA DELLA RETE

La Rete Radié Resch si avvicina rapidamente al suo sessantesimo compleanno. Sarebbe ipocrita negare che inizia a mostrare i segni dell’età. Molti amici non ci sono più. Molti altri, che non abdicano al proprio impegno, sono invecchiati: il tempo, le energie e le motivazioni calano fisiologicamente. Anche la raccolta dell’autotassazione diminuisce. Ciò che è più grave, abbiamo fallito il ricambio generazionale. A Varese, la Rete locale si è ricostituita nel 2007: nei quindici anni trascorsi da allora, ai Coordinamenti si sono viste ben poche “facce nuove”. Fa eccezione la nuova Rete di Lecco, la cui nascita ci è stata comunicata allo scorso Coordinamento. Ma è comunque presto per pensare ad un’inversione di tendenza. La difficoltà di trovare tre persone disponibili ad assumersi l’incarico della Segreteria ha condotto, di necessità, all’esperienza della Segreteria Laboratorio, con una maggiore suddivisione dei compiti e delle incombenze. L’esperimento si è rivelato molto positivo, sia perché ha consentito di rispondere comunque a tutte le esigenze organizzative, sia perché ha coinvolto persone che mai sarebbero entrate in una Segreteria “tradizionale”. Non dobbiamo, però, nasconderci che la soluzione è stata dettata dall’emergenza.

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Eppure, le urgenze che hanno interpellato Ettore Masina, inducendolo a fondare la Rete, non sono certo cessate. In Palestina, in Sud e Centro America, in molti Paesi dell’Africa, abbiamo semmai assistito ad un arretramento dei diritti e delle opportunità. Non solo: anche nel nostro Paese, che una volta consideravamo “ricco”, sono emersi nuovi bisogni, sia legati ed un generale impoverimento economico, sociale, spirituale, sia dovuti ai flussi migratori dal Sud del Mondo, certo non nuovi ma aumentati in quantità e, ancora di più, in percezione. Difficile dire se abbiamo sbagliato noi o, più semplicemente, sono cambiati i tempi. Da un lato, forse, negli ultimi due decenni la Rete si è dimostrata meno aperta al nuovo, meno accogliente, meno stimolante per chi la avvicina. Dall’altro, le modalità di comunicazione sono cambiate con una velocità che ci ha sorpreso. Dalla circolare stampata a ciclostile e diffusa per posta, siamo passati, in pochi anni, ed internet ed ai social network: una realtà della comunicazione fluida e pressoché impermeabile a qualsiasi velleità di analisi articolata e di ragionamento complesso.

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Tutto ciò ha indotto il Coordinamento ad interrogarsi, a più riprese, sul senso del nostro fare solidarietà. Il dibattito è stato acceso e, sinora, non ha portato a conclusioni definitive. Sono emerseè veroalcune soluzioni, certamente interlocutorie, ma che dimostrano comunque che la Rete è, e resta, in cammino. Oltre alla Segreteria Laboratorio, ad esempio, molti cambiamenti hanno interessato la gestione del denaro: forte (e condivisa dagli amici che si sono succeduti nella Tesoreria) è stata soprattutto l’esigenza di razionalizzare e rendere più trasparente il flusso, in entrata, dell’autotassazione e quello, in uscita, del finanziamento delle nostre operazioni. A proposito: nell’ultimo Coordinamento, gran parte dei presenti si è pronunciata a favore del vecchio nome e non di quello, più burocratico, di “progetti”.
Sono sorte, invece, difficoltà nella fase dell’approvazione e del rinnovo delle operazioni. Da un lato, infatti, la diminuzione delle risorse imporrebbe più rigore ed attenzione. Dall’altro, le proposte che ci giungono dai referenti sono numerose e variegate; inoltre, sono in parte mutati sia il contenuto delle possibili operazioni, che le modalità con cui esse ci vengono sottoposte. Inevitabile, dunque, chiedersi se i criteri definiti, ormai molti anni fa, grazie al contributo della Rete di Cagliari, siano ancora attuali. Per tutte queste ragioni, il Coordinamento tenutosi a Pescia nello scorso mese di giugno ha stabilito di creare un documento scritto, che sintetizzi i principi fondanti della Rete ed elenchi i criteri generali a cui dovrà ispirarsi il suo futuro operare.

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E’ facile comprendere la difficoltà di una simile operazione: da un lato, infatti, la Rete è sempre stata ostile ad ogni tentativo di formalizzazione; dall’altro, vi aderiscono persone con principi, ideali e sensibilità molto diverse. Oggi, però, si sente forte la necessità di creare un documento agile e sintetico, da utilizzare per spiegare “chi siamo”, sia a chi potrebbe essere interessato ad aderire, sia alle organizzazioni con cui potremmo essere chiamati a collaborare sia, infine, ai referenti delle operazioni presenti e future. Inoltre, è necessario rivedere i criteri del nostro operato, soprattutto per fare in modo che l’approvazione, il rinnovo e la gestione delle operazioni garantisca una giusta parità di trattamento tra tutte le comunità in cui esse si svolgono. Per tutte queste ragioni, è stata creata una Commissione, a cui è stato affidato il compito di una prima stesura del documento. La Commissione ha stabilito di presentare al Coordinamento la prima parte di tale documento, contenente l’enunciazione dei principi generali, riservandosi di predisporre la seconda, solo dopo che la prima avrà ricevuto una definitiva approvazione. La questione è stata affrontata nello scorso Coordinamento di Sezano: i partecipanti hanno formulato numerose osservazioni, precisazioni e proposte di modifica. La Commissione ha, quindi, ricevuto il mandato di rielaborare il documento, alla luce di tutti tali contributi, per sottoporre il testo definitivo di questa prima parte allapprovazione del prossimo Coordinamento. In essa saranno descritti le origini, lo scopo e la struttura della Rete e, tenendo conto di tutti i contributi ricevuti, saranno enunciati alcuni aspetti fondanti, come il generale ricorso al metodo del consenso, l’importanza delle relazioni sia all’interno della Rete che con i referenti delle operazioni, l’attività politica e di controinformazione, il significato ed il contenuto delle operazioni e, infine, l’importanza della restituzione, non solo economica ed i criteri di gestione del denaro.
La speranza è quella di fornire a tutti noi uno strumento semplice ed agile che esprima il senso del nostro fare solidarietà.


Marco Rete di Varese

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