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Un’omelia quasi rivoluzionaria contro la scarsa propensione a investire nel proprio Paese tipica di una società anziana

 

L’arcivescovo di Torino, Roberto Repolesi è scagliato (e il verbo è evangelicamente corretto) contro i possessori di grandi capitali della sua città, «che preferiscono tenere i soldi in banca anziché investirli nel circuito delle imprese e nello sviluppo dell’economia reale».

Un’omelia quasi rivoluzionaria quella pronunciata dal cardinale nel Duomo della sua città. Che però è passata, ingiustamente, inosservata. Dovrebbe invece suscitare un dibattito più ampio. Ovviamente Repole è tutt’altro che un sovversivo. Non ha proposto la patrimoniale, che peraltro sarebbe errata. Non ha negato la libertà di chi ha ampi patrimoni di cercare redditività maggiori in giro per il mondo. Repole ha riproposto, se volete, una versione aggiornata della parabola dei talenti del Vangelo di Matteo

 

 

Contro l’immobilità dei capitali tipica di una società anziana o, più correttamente, contro la scarsa propensione a investire nel proprio Paese cercando occasioni, del tutto legittime, dall’altra parte del mondo. L’Italia pesa per il massimo del 2 per cento nelle allocazioni del risparmio gestito da parte dell’asset management italiano. 

Dunque, più che di immobilità bisognerebbe parlare di esoticità, magari da parte di investitori contrari alla globalizzazione e simpatizzanti di partiti sovranisti (piccola contraddizione). L’ultimo rapporto Ubs sulla ricchezza mondiale, vede crescere a 1,3 milioni i milionari (in dollari) italiani – l’equivalente degli abitanti di Milano – che siamo sicuri, anzi sicurissimi, avranno pagato le loro brave tasse. 

Ora se vogliamo dare seguito laico all’omelia di Repole dovremmo chiedere loro se sarebbero disposti a fare un po’ di più per le loro città, le comunità nelle quali hanno vissuto, studiato, e operato con successo. E a credere di più nell’Italia. L’esempio conta più dei soldi.